Sapete cosa mi ha raccontato l’altro giorno un’amico che ha partecipato alla Carovana della pace #stopthewarnow a Leopoli?
“I polacchi si fanno in quattro per accogliere i profughi ucraini… ma non si fanno alcuno scrupolo per respingere i profughi siriani e quelli afgani…”. Dove sta il vangelo?
Se il mio fratello non è più il mio prossimo ma conta solo la sua nazionalità, è chiaro che oggi il mondo è diviso e la mentalità che si coltiva è quella della “caccia al nemico!”.
Non dimentico un’intervista su RAI Uno ad una donna ucraina in lacrime i primi giorni del conflitto: “Anche i giovani soldati russi sono figli come i figli miei, il loro sangue è sangue di esseri umani come il nostro!”.
Ora invece è probabile che, dopo un mese di conflitto, le voci che chiedono la cessazione del conflitto siano sopravanzate da quelle dell’odio che vedono in ogni soldato russo uno stupratore, un criminale, un nemico che merita la morte.
Lo studio della storia umana è davvero qualcosa di impressionante.
Sono praticamente settemila anni, da quando sono apparse le prime civiltà, che gli uomini si sono fatti la guerra, da quelle tribali a quelle tra imperi (solo in occidente studiamo quelli assiro, babilonese, persiano, macedone, romano, fino allo scontro tra impero islamico/ottomano e cristiano di oriente e di occidente) per passare alle guerre tra i moderni stati nazionali che hanno visto la luce sul continente europeo negli ultimi cinque secoli. Per concludersi con la storia di un imperialismo coloniale perpetuato in particolare dalle “nazioni cristiane” negli ultimi due secoli, che è sfociato in due “guerre mondiali” e nell’uso dell’atomica su Hiroshima e Nagasaki nel 1945.
A confronto, le ragioni della pace hanno visto proprio nell’era contemporanea, il XX secolo, il fiorire delle vicende e degli insegnamenti di alcuni grandi personaggi: da Gandhi, padre dell’indipendenza indiana nel 1947[1]; a Giovanni XXIII con il suo magistero di pace che sventò la crisi nucleare di Cuba nel 1962[2] e che ci ha donato un testamento attualissimo con la PACEM IN TERRIS[3]; a Martin Luther King, il cui discorso al Lincoln Memorial del 28 agosto 1963 è tra i più citati nella storia[4]; a Nelson Mandela nel nuovo paradigma di convivenza tra bianchi e neri in Sudafrica[5]; per finire al lascito che ci consegnano i protagonisti del Nobel della pace[6] e di tutte le organizzazioni nate per conseguirla[7].
Perché la pace possa attuarsi c’è bisogno però che essa vada a pari passo con la giustizia.
Ce lo ricorda don Tonino Bello, in quel formidabile intervento all’Arena di Verona il 30 aprile 1989, dove citando il profeta Isaia invitava: “In piedi, costruttori di pace!”.
Lo ricorda in maniera forte e passionale durante la sua partecipazione alla trasmissione “Samarcanda”, condotta da Michele Santoro, il 21 febbraio 1991, quando, difendendo le ragioni della pace durante il conflitto NATO-Iraq per l’invasione del Kuwait, ricordava che “oltre alla gente che muore sotto le bombe, ogni due secondi che noi stiamo qui a parlare, ci sono tre persone che muoiono per fame…”. Ci vorrebbe un nuovo ordine internaziale, che, a partire da una ridefinizione degli obiettivi dell’economia globale, garantisca la giustizia alle popolazioni mondiali, perché, ove non c’è giustizia minima sui diritti fondamentali delle popolazioni, “noi di pace ne vedremo poca”[8].
La testimonianza di Don Tonino Bello trova un coronamento enorme nella spedizione di pace a Sarajevo nel dicembre 1992[9].
Sotto il coordinamento organizzativo di don Albino Bizzotto e dell’associazione “Beati i costruttori di pace” 500 persone si imbarcarono, accompagnati da don Tonino Bello e da Mons. Luigi Bettazzi, da Ancona a Split, per recarsi in pullman nella martoriata Sarajevo in pieno conflitto serbo-croato-bosniaco, mettendo a rischio la propria vita per dare ragione dei motivi della giustizia, della speranza e della pace contro quelli della violenza, delle armi e della guerra.
Esattamente a trent’anni da quella spedizione, dal 31 marzo al 3 aprile scorsi, si è realizzata un’identica “Carovana della pace”, lanciata dalla Comunità “Papa Giovanni XXIII”, che ha visto l’adesione di 159 organizzazioni e la partecipazione, con sessanta automezzi, di 200 volontari che da Gorizia si sono recati via Slovenia, Ungheria e Polonia in Ucraina a Leopoli, dove hanno portato un milione di euro di aiuti umanitari, realizzato incontri con le autorità locali, vissuto una marcia per la pace per le strade della cittadina e portato in Italia 300 profughi ucraini.
Qui potete trovare le foto, i video, i passaggi di quest’esperienza a L’viv, uniti alla possibilità di aderire a prossime simili iniziative[10].
In questo mese di conflitto, da più parti ci sono state voci che hanno messo in dubbio la realizzabilità delle proposte di chi si rifà alle ragioni della pace.
È ovvio che i due elementi principali necessari ad un’alternativa non violenta all’uso di una resistenza armata sono quelli di un’educazione popolare alla non violenza attiva, fatta di boicottaggio e non collaborazione; Gandhi ha avuto bisogno di anni per condurre a tutto questo il popolo indiano, salvo poi sventare una guerra civile durante la costituzione dei due stati nazionali dell’India e del Pakistan. Ma la vicenda indiana, come quella sudafricana e non solo, dimostrano che un’alternativa nonviolenta all’uso delle armi è possibile.
Altro elemento è quello della realizzazione e della ricezione di una corretta informazione. Anche qui, il successo della vicenda indiana è dovuto anche ai servizi cinematografici e giornalistici degli inviati dell’epoca, a partire dall’epica “marcia del sale”.
Viceversa, a Sarajevo nel 1992 ci fu il silenzio di tutti i media del tempo, televisioni e carta stampata, se si escludono le pagine de “Il Manifesto” che pubblicò il diario scritto da don Tonino Bello in quei giorni[11].
A tal riguardo, pare che dopo trent’anni qualcosa sia cambiato, dato che della “Carovana della pace” a L’viv hanno parlato carta stampata[12] e telegiornali nei giorni scorsi.
Forse merito, anche, di un costante appello da parte del Vescovo di Roma che dall’inizio del conflitto invoca una risoluzione di pace.
La guerra in Ucraina, che è entrata in casa nostra come nessun altro conflitto negli ultimi decenni, può essere dunque occasione preziosa non solo per recepire l’appello e l’anelito alla pace che ognuno di noi riconoscerebbe.
Deve essere occasione per un’azione attiva contro quelle dinamiche che sono all’origine di ogni conflitto bellico: un’economia che non ha lo sviluppo umano al centro dei suoi obiettivi; un’industria delle armi che vuole mettere a tacere ogni voce per la pace, tacciandola di utopismo.
Memori dell’insegnamento biblico e non solo, nessuna pace sarà mai realizzabile, se non si lavora per rimuovere le cause di ingiustizia che in maniera strutturale costringono intere popolazioni ad una vita subumana. La voce profetica di padre David Maria Turoldo, nel suo intervento del 1967 a Milano, può ben riassumere questa realtà, con parole accorate che si fanno preghiera, visione e, al tempo stesso, appello[13].
L’intervista realizzata in diretta televisiva con Papa Francesco il sei febbraio sera ci propone una serie di riflessioni.
Al di là di qualsiasi appartenenza religiosa od ecclesiale, il colloquio con il Vescovo di Roma può essere ascoltato da chiunque, dato che gli argomenti sono di ampio respiro ed inducono a varie riflessioni[1].
Francesco è intervistato su tematiche ed eventi sui quali più volte si è espresso.
Migranti, solidarietà, aggressività, impegno a perdonare, futuro della Chiesa, preghiera, amicizia.
Riproponiamo le sue parole a ritroso, spigolando tra le sue affermazioni, con l’invito a seguire l’intervista sulla rete.
L’amicizia è qualcosa di molto importante, gli amici veri sono necessari ed è fondamentale poter contare su di loro.
La preghiera è un’esperienza simile a quella del bambino, che sa di poter contare sul genitore al quale si rivolge. San Paolo stesso ci dice che dobbiamo rivolgerci a Dio come ci rivolgeremmo ad un “papà”. E il bambino stesso, quando pone una domanda al genitore, non attende la sua risposta né la sua risposta è il suo interesse maggiore. Quel che conta per il bambino è stare al centro delle attenzioni di coloro ai quali si rivolge e sapere di essere amato da loro e di poter contare su di loro.
Sul futuro della Chiesa, cita la EVANGELI NUNTIANDI[2] di Paolo VI e il documento di Aparecida[3] ai quali ha attinto per la EVANGELI GAUDIUM[4]. Una chiesa in cammino verso il futuro, una chiesa in pellegrinaggio ma che viene frenata dai suoi peccati di mondanità spirituale che genera il clericalismo e fa crescere la rigidità, dove l’ideologia prende il posto del vangelo. Gli atteggiamenti pastorali da evitare: i il pelagianesimo, che è un andare avanti con le proprie forze e lo gnosticismo che è una spiritualità disincarnata.
Per quel che riguarda il male che tanti uomini fanno, è importante riconoscere che quello del perdono è un diritto che ogni uomo deve ricevere se lo chiede, accanto al pagamento di persona per il male commesso.
La sofferenza subita dai bambini è qualcosa di inspiegabile.
Perché soffrono i bambini? Io trovo una sola strada: soffrire con loro. Su questo è stato un gran maestro Dostoevskij.
Invito a leggere il primo capitolo dell’enciclica FRATELLI TUTTI[5] sul tema delle OMBRE: questo fa un’analisi sui motivi che ci impediscono un vero cambiamento dei problemi sociali.
UN UOMO PUÒ GUARDARE UN ALTRO UOMO DALL’ALTO IN BASSO SOLO QUANDO LO AIUTA A RIALZARSI.
Giocare con i figli, non spaventarsi. Essere vicino, parlare con i figli.
Va educata l’aggressività. Ce n’è una positiva per andare avanti ed una distruttiva che COMINCIA CON LA LINGUA, CON IL CHIACCHERICCIO che nelle famiglie, nei quartieri, DISTRUGGE L’IMPRONTA DIGITALE, L’IDENTITÀ.
«Papà perché il fiume non canta più?» «La verità, figlio mio, è perché il fiume non c’è più!» (Roberto Carlos) Se le cose non cambiano entro trent’anni il mondo sarà inabitabile, dobbiamo prenderci carico della Madre Terra.
Una cosa molto brutta è il girarsi dall’altra parte.
È necessario TOCCARE, FARSI CARICO DELL’ALTRO, se noi non tocchiamo con le mani il dolore della gente non potremo mai capirla.
Coi migranti quello che si fa è criminale. Quando si respingono i poveri si respinge la pace. Questi migranti soffrono, passano nei lager, dopo aver rischiato la vita si vedono respingere. È importante che ogni paese possa dire quanti migranti può accogliere e lo faccia. Un migrante integrato è una risorsa per un paese.
IL MIGRANTE SEMPRE VA ACCOLTO, VA ACCOMPAGNATO, VA PROMOSSO E VA INTEGRATO.
Il fatto che il Mediterraneo sia oggi il cimitero più grande d’Europa ci deve far pensare.
La morte di diciannove migranti per assideramento al confine tra la Grecia e la Turchia è solo uno tra i tanti segnali della cultura dell’indifferenza. C’è un problema di categorizzazione. Ci sono diverse categorie. Al primo posto delle categorie ci sono le guerre, al secondo la categoria delle persone.
Guerra ideologica, guerra di potere, guerre commerciali e tante fabbriche di armi.
Con un anno senza la vendita delle armi si può dare da mangiare e fornire educazione a tutto il mondo.
Francesco ripresenta quelle che sono indicazioni da lui tante volte espresse.
L’impegno sarà non solo quello di pregare per lui e, per chi non crede, non sa o non può almeno di mandargli buoni pensieri, buone ondate.
Il giusto impegno sarà quello di riconoscere la bontà di queste indicazioni e di cercare di farne tesoro, come già tanti già fanno, passo dopo passo.
Perché gli animali sono un dono e un bene prezioso per ciascuno di noi.
di Alessandro Manfridi
“Gli animali sono migliori degli uomini”. In che senso?
Tra gli animali, nessuno ha le capacità dell’uomo: attraverso la ragione ogni essere umano è capace di osservare e studiare i pesci del mare, costruire navi per navigarlo e i sottomarini per raggiungere i fondali più profondi.
Osservando gli uccelli del cielo riesce a costruire aerei ed elicotteri, fino ai razzi per arrivare nello spazio.
Non esiste alcun essere vivente che ha le capacità dell’uomo.
Secondo la Bibbia, egli è stato creato da Dio “a sua immagine e somiglianza” e a lui Dio ha affidato tutto ciò che ha creato, perché lo amministrasse.
Eppure, se l’uomo mal utilizza le sue capacità, può arrivare a distruggere la vita sulla terra.
L’uomo è l’unico essere vivente che uccide per avidità e non per necessità.
Gli animali domestici amano l’uomo e da questo vengono accuditi mentre gli animali selvatici per legge di natura uccidono altri animali ma solo per nutrirsi.
Possono allora gli animali insegnarci qualcosa? Forse si, a volte più di quanto possa fare l’uomo quando utilizza il suo intelletto con egoismo distruttivo.
Molti sono rimasti disorientati davanti all’affermazione di papa Francesco nella sua ultima udienza generale che, già per la seconda volta, ha manifestato la sua disapprovazione per le famiglie che non hanno bambini eppure possiedono animali domestici.
L’affermazione che la presenza di animali domestici sarebbe in qualche modo “antagonista” a quella dei bambini rischia di non dare giustizia né agli uni né agli altri.
Se una famiglia non arriva ad accogliere un figlio, non necessariamente questo avviene per egoismo.
È necessario appellarsi alle politiche sociali e al mondo del lavoro perché, per molte famiglie, accogliere un bambino diviene impossibile dove vengono a mancare lavoro e politiche sociali dedicate a sostenere e a promuovere la famiglia.
I veri oggetti degli egoismi degli uomini non sono dunque riconducibili ai nostri amici animali, quelli che san Francesco chiamava “fratelli” e “sorelle” e che, sicuramente, sono un dono prezioso per ciascuno di noi; l’assenza dei figli che caratterizza il nostro tempo, forse è più riconducibile a decisioni politiche-sociali e a condizioni economiche che non consentono più la crescita di una famiglia numerosa come tempi passati.
Riguardo agli animali si tratta di esseri viventi e portatori di benefici affettivi, psicologici e spirituali per tutti gli esseri umani che si relazionano con loro, che si tratti di bambini o di anziani, di normodotati o di disabili, di single o di coppie.
La vita di tanti santi ne è un esempio, da Antonio Abate a Francesco d’Assisi, da Antonio di Padova a Rocco di Montpellier a Giovanni Bosco.
Ormai da tempo l’attenzione al mondo animale è stata riconosciuta anche a livello accademico non più nelle sole facoltà di Medicina Veterinaria ma negli stessi studi teologici, con gli studi di bioetica animale.
Papa Francesco ha anche trasmesso nel suo magistero una importante enciclica attenta alla nostra “casa comune”, la “LAUDATO SI'”.
Diamo voce ad una storia vera che condensa tutti i sentimenti e gli interrogativi relativi ai progetti di cura dei minori in Italia e alla loro sospensione.7 ottobre 2021
Se a Natale 2021 i viaggi di assistenza e cura dei minori bielorussi verranno disattesi sarà negato ancora una volta il principio che tutela il bene supremo dei minori contemplato nella Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Dopo due anni, essi attendono di ritornare in Italia presso le famiglie che li accolgono. Lo scritto che segue raccoglie e riassume, nella forma di “lettera alle autorità”, tutti i sentimenti e gli interrogativi espressi da Sergej (nome di fantasia):
Ciao, mi chiamo Sergej.
La vita è stata buona con me.
Anche se non ho mai conosciuto mio padre. Anche se mia madre non è stata in grado di accudirmi. Anche se io, i miei fratelli e le mie sorelle siamo stati affidati, in tenera età, ad una casa-famiglia in Minsk.
Ho trovato altri ragazze ed altri ragazzi in questa realtà.
Cresciamo in maniera semplice e spartana, con regole precise e spazi condivisi.
La casa-famiglia che ci ospita non ci fa mancare niente.
Tutti NOI bambini chiamiamo la famiglia della tutrice “la nostra mamma e il nostro papà bielorussi”, perché alcuni di noi conoscono a mala pena la propria madre e forse affatto il loro padre.
Ma non sono solo “nostri”. Loro hanno i loro figli e i loro nipoti.
Noi vediamo il loro esempio genitoriale come un riferimento.
Ma cerchiamo in fondo al cuore una “nostra” famiglia.
Avevo da qualche giorno compiuto sette anni. L’età necessaria per
poter viaggiare all’estero.
Sono salito con coraggio su un aereo della compagnia Belavia. Viaggio Minsk-Fiumicino.
Con me tanti altri bambini, bambine, ragazzi e ragazze provenienti da case-famiglia e orfanotrofi di Minsk e altre città bielorusse. L’areo era pieno.
Ci accompagnavano delle giovani interpreti bielorusse, incaricate di custodirci nel viaggio ed affidarci alle associazioni delle famiglie accoglienti in Italia.
Finalmente siamo arrivati. A Fiumicino sono stato accolto ed affidato ad una famiglia italiana.
Era dicembre 2018. Ho trascorso Natale e le festività con loro.
Poi il viaggio nell’estate 2019 e un ultimo, indimenticabile, soggiorno in Italia nel dicembre 2019.
Durante questi soggiorni sono passato dalla iniziale nostalgia per la mia casa-famiglia e per il mio fratellino minore lasciato a Minsk, alla gioia per questo soggiorno italiano, per una “nuova” vita, per il calore della famiglia italiana che mi ha accolto, per questi due coniugi che hanno imparato a vivere con me bambino, così come io ho iniziato a vivere con una famiglia che ho imparato a conoscere, ad apprezzare e ad amare.
Sapevo bene che dovevo tornare a Minsk, perché in Italia non potevo adottato. Ma voi avete mai provato a sentirvi in un luogo come fosse casa vostra? in una famiglia come fosse la vostra famiglia? Pur sapendo che al momento non è la vostra famiglia ma che forse un domani nel futuro potrebbe diventarlo? Io sì. Il mio cuore si è gonfiato di gioia.
In un anno avevo già iniziato a parlare l’italiano e comunque a capirlo senza difficoltà, anche se non avevo ancora iniziato il mio percorso scolastico in Bielorussia.
Da allora gli eventi si sono susseguiti.
Prima il COVID, la Pandemia, le chiusure delle frontiere. Così sono saltate le accoglienze dell’estate 2020 e del dicembre 2020.
Per un anno e mezzo, dal dicembre 2019 al giugno 2021, la relazione con la famiglia italiana è andata avanti con le videochiamate a cadenza quindicinale.
Ma io non capivo perché non potessimo più vederci, perché non potessi più avere la gioia di vivere i miei mesi di vita italiana, forse questa coppia non mi voleva più, forse si era stancata di me? Anche la lingua italiana me la sono dimenticata, quando parliamo io ricordo solo alcune parole, le altre me le traduce la mia sorella maggiore che è stata in Italia prima di me negli anni scorsi.
La scorsa estate pareva che le frontiere si dovessero aprire.
Poi ci sono state le sanzioni verso la Bielorussia e si è tutto interrotto.
A dicembre 2021 saranno due anni che non torno in Italia, dopo l’esperienza di un anno e mezzo precedentemente vissuta con tanta gioia, attesa e amore ricevuto e dato.
Io vorrei tornare in Italia e riabbracciare la famiglia che mi accoglie e mi attende.
Se a Natale i viaggi non si faranno, la mia speranza in una vita diversa, che fin qui mi è stata porta, verrà tradita ancora una volta e mi verrà negato l’affetto che mi è stato donato e mi vuole essere donato qui in Italia.
Per favore, fate tutto ciò che è necessario per non negare tutto questo alle migliaia di bambini bielorussi che, come me, ricevono l’affetto di una famiglia italiana da quando hanno sette anni fino ai diciotto anni.
Negare queste accoglienze, quando Minsk non attende che le firme dei protocolli da parte dei Ministeri italiani, significa anteporre le logiche delle sanzioni alla felicità di bambini, bambine, ragazzi e ragazze presenti negli orfanotrofi e nelle case famiglie di Minsk edelle altre città bielorusse.
Cari signori, vi prego!
Adesso provate ad immaginare come si sentirebbe vostro figlio se non dovesse vedervi per due anni (dicembre 2019-dicembre 2021) e se, nell’attesa di potervi riabbracciare qualcuno dovesse dirgli che non è ancora arrivato il tempo.
Stavolta il CO VID-19 non c’entra niente, so che in Italia i bambinivanno a scuola, giocano, fanno sport e tante altre cose. Mi dite cosa nega il diritto alla mia felicità di bambino? Quale è la mia colpa?
Essere nato in un posto sbagliato?
Vi prego aiutatemi, fatemi tornare in Italia da questo prossimo Natale.
Il 14 dicembre 2020 la CEI e il Ministero dell’Istruzione hanno stipulato l’Intesa secondo quanto previsto dall’articolo 1/bis della L. 20 dicembre 2019, n. 159 che convertiva, con modificazioni, il DL 29 ottobre 2019, n. 126, per la realizzazione di un bando di concorso per la copertura di posti per l’insegnamento della religione cattolica che si rendono vacanti e disponibili nel triennio scolastico successivo all’emanazione del bando.
Secondo il cardinale Bassetti tale concorso sarebbe un passaggio importante per la stabilizzazione dei docenti di religione verso i quali i vescovi italiani rinnovano la stima e la vicinanza, riconoscendone la passione e la competenza, nell’accompagnamento del cammino di crescita dei ragazzi e delle ragazze di oggi.
L’allora ministro Azzolina affermava che tale concorso aveva come obiettivo la tutela delle aspirazioni degli insegnati di religione cattolica, che lavorano alacremente, in sinergia e in armonia con tutto il personale scolastico e con l’immissione in ruolo avrebbero proseguito il loro percorso professionale con maggior stabilità.
Le parole del presidente della Conferenza episcopale italiana e quelle del ministro dell’Istruzione, sottoscrittori dell’Intesa, dimostravano stima, vicinanza e riconoscimento della professionalità degli insegnanti di religione, riconoscendone il diritto a vedere un percorso di stabilizzazione, a 17 anni di distanza dal concorso bandito nel febbraio 2004 secondo quanto previsto dalla Legge 18 luglio 2003, n. 186.
Accanto a queste dimostrazioni, che presentavano al corpo docente un’“opportunità”, nei mesi scorsi tuttavia abbiamo avuto ennesimi segnali che mettono in dubbio il senso e l’attualità dell’insegnamento e finanche la stessa professionalità dei docenti formati per impartirlo.
Nel maggio scorso abbiamo ascoltato le esternazioni delle senatrici Bianca Laura Granato e Luisa Angrisani di “L’Alternativa c’è” manifestate con una certa confusione, dato che attaccavano i docenti di religione e l’insegnamento in seguito alla proposta di accesso a varie classi di concorso di cui sarebbero titolari non i docenti in oggetto, ma i laureati in possesso della laurea statale LM64 in Scienze delle Religioni.
Due settimane fa è stato pubblicato sul blog de Il Fatto Quotidiano l’articolo del maestro e giornalista Alex Corlazzoli che si domanda se non sia il tempo di sostituire l’insegnamento di religione cattolica con un insegnamento di “Storia delle Religioni” gestito dallo Stato in quanto a formazione e indirizzi.
A queste esternazioni abbiamo puntualmente risposto, con le dovute chiarificazioni nel merito.
Torniamo ora all’Intesa, al DPCM del 20 luglio 2021 che autorizza il Ministero dell’Istruzione ad emettere il bando per la realizzazione del Concorso per l’insegnamento della religione cattolica e alla Nota pubblicata dalla CEI il 18 agosto 2021.
In essa i vescovi, manifestando ancora una volta “profonda stima” nei docenti di religione cattolica, si dicono attenti, preoccupati, vicini e solidali agli stessi; tuttavia, non possiamo non commentare come l’insegnamento della religione cattolica, alla luce di questo concorso ordinario, si presenti più come “martirio” che come “ricompensa”.
Come parte sindacale, sono anni che chiediamo di aprire percorsi di stabilizzazione attraverso procedure non selettive che tengano conto di titoli e servizio.
Ancora una volta dunque oggi facciamo un appello ai vescovi affinché diano ascolto e risposte complete ai docenti verso cui affermano rinnovate attestazioni di stima e riconoscimento di professionalità e di abnegazione perché, dopo la L 159/2019, l’Intesa sottoscritta dal cardinale Bassetti e il ministro Azzolina il 14 dicembre 2020 e il DPCM 20 luglio 2021, l’emissione di un bando concorsuale ordinario per 5.116 posti risulterebbe fortemente penalizzante per gli attuali insegnanti di religione e rischierebbe di mettere in mezzo a una strada due docenti di religione su tre (e le loro famiglie), secondo quello che le proiezioni dei dati affermano.
Alessandro Manfridi è referente nazionale ANIEF IRC.
Quel giorno una folla inferocita stava per produrre un linciaggio, una esecuzione dovuta e voluta.
Una barbarie? Uno scempio? Un’ingiustizia?
No. Per chi conosce la storia delle Religioni e mastica qualcosa a riguardo di codici di comportamento e normative religiose, certi errori (o “peccati” che si voglia) vanno lavati nel sangue.
Nulla di strano. Nulla di incivile. Nulla di ingiusto. Tutt’altro. Solo regole condivise, riconosciute e trasmesse nel nome di una tradizione e dell’identità di un popolo.
Chi si riconosce in una storia (“sacra”), chi si sente parte di una nazione, chi partecipa di una elezione, è chiamato a difendere e garantire tutto questo. Al prezzo della vita.
Entriamo nel racconto descritto nel libro biblico di Daniele, capitolo 13.
Mentre la folla, eccitata negli animi e ardente di zelo per la difesa della Legge stava trascinando la donna peccatrice (chissà perché, nella statistica, il sesso femminile è indicato come più spesso ritenuto fonte delle colpe e dei disastri che produce il genere umano…) verso il suo dovuto destino, ecco provenire dal fondo della scena il grido deciso e fermo di un giovane: «Io sono innocente del sangue di lei!».
Quel giovane fu l’occasione di salvezza per quella donna.
Il suo grido pare in contrapposizione con la parola di un altro personaggio della Bibbia, Caino, che invece si ritiene estraneo al sangue del fratello che dalla terra gridava verso Dio (cfr. Gen 4,10).
I due personaggi ci chiamano a riflettere su due atteggiamenti, quali che ne siano i protagonisti.
L’episodio del dialogo con Caino è paradigmatico non solo e non tanto per una sua colpa diretta, ma soprattutto per quelle parole che sono, da sole, tra le più diffuse nella storia dell’umanità.
«Sono forse il custode di mio fratello?» (cfr. Gen 4,9) ci riporta dunque non tanto al tentativo maldestro del protagonista del nascondere e negare il suo delitto, secondo la lettura dell’episodio biblico; quanto alle parole di tutti coloro che, in ogni dove ed in ogni tempo, si sono lavati le mani davanti ai problemi dell’altro, davanti alle questioni sociali, davanti alle tragedie dell’umanità provocate dalle ingiustizie locali o planetarie.
Se vogliamo raccogliere una frase spesso usata dal vescovo di Roma, possiamo parlare di globalizzazione dell’indifferenza[1].
L’altra frase, pronunciata da Daniele, è scelta qui come titolo a questa riflessione: «Io sono innocente del sangue di lei!».
Nel primo atteggiamento ritroviamo l’indifferenza, il peccato di omissione, il passare oltre voltandosi dall’altra parte (cfr. Lc 10, 31-32).
Il secondo atteggiamento è quello di chi si interessa, di chi si dà cura, di chi vive l’I care della pedagogia di Barbiana[2], è foriero di percorsi di promozione umana, di coscienza civile, di capacità alte e nobili che hanno portato nella storia personaggi-simbolo ed eroi senza nome a rischiare anche la vita per servire le cause della giustizia e della verità.
I nomi sono tanti.
Oggi vorrei ricordare il grande giornalista d’inchiesta Silvestro Montanaro[3], ad un anno dalla sua scomparsa.
Il lavoro di una vita va assolutamente valorizzato, proposto e diffuso, perché le sue ripetute denunce, sempre attuali a tanti anni di distanza, possano trovare ascolto e risposta presso un pubblico sempre più vasto e attento.
«Io sono innocente del sangue di lei!».
Quali sono gli elementi necessari perché un tale grido possa trovare risposta?
È necessario il lume del discernimento, il coraggio della profezia, il riconoscimento dell’autorevolezza, l’impegno fattivo ad affrontare e risolvere le questioni.
Il testo biblico mette in scena la preghiera di Susanna che, ingiustamente condannata, eleva la sua invocazione al Cielo per ottenere aiuto.
L’intervento di Daniele è dunque presentato come la conseguente risposta a questo appello accorato.
Quale che sia l’interpretazione degli avvenimenti, che ci sia un intervento divino, un Fato, una Provvidenza, quali che siano le sliding doors che danno accesso a molteplici scenari ed altrettanto probabili o improbabili epiloghi, la variante è sempre la stessa: anche Dio, per arrivare ai suoi intenti, ha necessità di servirsi dell’intervento degli uomini.
Le nostre azioni faranno dunque di noi degli attori della Provvidenza, dei consapevoli o inconsapevoli collaboratori di trame altre da noi, degli angeli salvatori, dei persecutori indomiti o dei codardi indifferenti che determineranno il bene o il male del nostro prossimo.
Il primo elemento necessario per la denuncia di ogni male è dunque quello di un corretto discernimento e di un onesto riconoscimento dei limiti che ogni sistema umano di convivenza comporta.
Nell’episodio narrato le Leggi da rispettare corrono il rischio di essere strumento di ingiustizia nonostante tutto, perché erroneamente applicate.
In un’epoca di fake news ed hate speech chi comanda e dirige l’opinione delle masse è in grado di narrare quel che vuole, come la propaganda di ogni regime pretende. Oggi alle grandi conquiste civili che sono state acquisite negli ultimi due secoli si affiancano in maniera drammatica le sistematiche violazioni dei diritti umani universali che propongono scenari di non ritorno per la stessa sopravvivenza del genere umano sulla Terra[4].
È fondamentale, dunque, operare una lettura degli avvenimenti e delle situazioni che non sia di parte e che sia veritiera e illuminante.
In questo senso, dunque, Daniele è guidato dal santo spirito; come lui, il lume della ragione, della coscienza, dell’onestà intellettuale e dello spessore morale che permette di pesare e distinguere situazioni di bene da situazioni di male accomuna personalità diverse riunite dallo stesso corretto discernimento.
Il secondo elemento necessario: il coraggio della profezia[5].
Quanto più il protagonista è illuminato, è ispirato, è guidato, tanto più egli è trascinato ad andare controcorrente, assumendo dunque il compito ed il rischio di qualsiasi azione profetica.
Il dramma dei vati e dei profeti si consuma a volte in una situazione che li porta non solo ad essere perseguitati e contrastati, ma soprattutto ad essere non ascoltati e non riconosciuti.
Ecco perché il terzo elemento presentato nel racconto è il primo veramente necessario.
La voce degli autentici profeti è rara quanto preziosa; ma solo la disponibilità ad ascoltarla può rivelarsi davvero determinante.
Nell’episodio la differenza la fa proprio la folla, nel riconoscere nel giovane Daniele “lo spirito dell’anzianità”.
Daniele parla con voce profetica e in maniera decisa e tagliente.
Dietro le sue parole e il suo intervento viene riconosciuta una “autorevolezza” che non ha bisogno per imporsi di una certificazione di autorità,
Daniele non potrebbe vantare un’autorità per parlare.
Ma l’autorità gli viene riconosciuta dalla forza della sua testimonianza.
Questo quadro propone due riflessioni.
Primo: la “crisi di autorità” che investe qualsiasi realtà, da quelle istituzionali a quelle naturalmente deputate all’educazione e alla formazione delle coscienze (lo Stato, le Istituzioni, Le Chiese, le Religioni, la famiglia, la Scuola…) è, a ben vendere, prima di tutto e innanzitutto una “crisi di autorevolezza”.
Ogni volta che un’agenzia educativa, una realtà istituzionale, una comunità “educante” si richiama alla sua “autorità”, piuttosto che porsi e proporsi in maniera franca e genuina, corre il rischio di fallire la sua mission.
I giovani e i destinatari in genere di qualsiasi proposta aderiscono lì dove ne riconoscono un’autorevolezza che non è legata ad una autorità ma ad una testimonianza vissuta.
Seconda implicazione: se l’autorità, quando manca di autorevolezza, potrebbe essere controproducente quando viene imposta per proporre una linea che non corrisponda ad una coerente testimonianza è al tempo stesso assolutamente vero il quadro opposto.
Qui però c’è bisogno di un’educazione profonda, di una disponibilità all’ascolto, di una perspicacia nel leggere i segni che vengono posti e della capacità di “dare voce” a chiunque dimostri di avere ragioni da vendere e strumenti per interpretare le situazioni e proporre delle strade da percorrere.
Anche un giovane può essere guidato dallo “spirito dell’anzianità”.
Anche un illetterato potrebbe dimostrare una sapienza maggiore di chi ha un titolo di laurea.
Anche un “diverso” potrebbe indicare la strada a chiunque abbia timore a rinunciare al “pensiero dominante”.
Quarto elemento è poi, quello delle decisioni concrete.
Chi riconosce la bontà e la verità di chi illumina le situazioni di una luce nuova e decisiva, è chiamato ad una scelta di campo.
Citando l’opera e la persona del caro Silvestro Montanaro, auspichiamo che le sue denunce siano sempre più riconosciute ed accolte da tutti coloro che possono e devono sentirsi chiamati a rispondere con la stessa passione per un mondo sempre più vicino agli obiettivi che oggi si è data l’ONU con la sua Agenda 2030[6].
La domanda di Livatino: “Credenti o credibili?” ci aiuta a riconoscere come testimoni donne e uomini al di là di ogni appartenenza religiosa
In queste ultime due settimane di scuola sto facendo vedere ai ragazzi il servizio “e quel giorno uccisero la felicità”[1]. Con questa lezione concludo un percorso di riflessione da me proposto, partito dall’opera di Silvestro Montanaro[2] e ampliato con il magistero di don Tonino Bello[3], le denunce di padre Alex Zanotelli[4], i materiali del Centro Nuovo Modello di Sviluppo[5] per arrivare alle iniziative della Laudato Si’ week[6].
Condividendo ad un caro amico i ritorni che sto avendo dai ragazzi, egli si è lasciato sfuggire un’affermazione: “Sankara è un santo!”
“Un santo!”
Mi viene d’obbligo mettere nero su bianco qualche riflessione.
Parto dalla recente considerazione di don Luigi Ciotti a proposito della beatificazione del giudice Rosario Livatino: “non facciamone ora un santino!”[7]
So che alcune grandi figure, cito tra tutti Daniele Comboni[8], sono state “elevate agli onori degli altari” con il timore che tale evento potesse “snaturarne” la profondità del messaggio, come spiego in queste riflessioni.
Interessante notare come alcuni personaggi che hanno segnato con il loro passaggio la storia del cattolicesimo contemporaneo, ancora oggi vengano ricordati dalla gente senza i loro titoli dovuti alla canonizzazione: dunque non “santo”, “santa” o “san” ma “Padre Pio”, “Madre Teresa” e “Don Bosco”.
Peraltro, altre figure il cui messaggio e la cui testimonianza sono sotto gli occhi del mondo hanno dovuto attendere decenni e, nel caso, un Papa sudamericano, per essere riconosciute nella loro eroicità della fede: Oscar Arnulfo Romero[9], la cui data del martirio viene celebrato nella Chiesa Cattolica da anni come Giornata Mondiale di preghiera e di digiuno per i missionari martiri.
Quella dei martiri della fede, degli uomini e delle donne uccisi non solo a causa del Vangelo ma della difesa dei diritti umani dei poveri e degli ultimi è una delle pagine più preziose di quel capitolo denominato “Ecumenismo spirituale[10]” da Giovanni Paolo II e che ha visto una significativa finestra durante il Grande Giubileo del 2000[11].
Proprio il Pontefice polacco è stato il promotore di una attività esponenziale della Congregazione delle Cause dei Santi che, sotto il suo pontificato, si è proposta come una vera e propria “fabbrica dei santi”, producendo numeri mai realizzati nei secoli precedenti[12].
L’opportunità di riconoscere queste figure e proporle al culto della gente è legata a una politica di promozione della fede che la Chiesa Cattolica ha voluto indicare come sempre più internazionale e presente sui cinque continenti.
Così, insieme con i viaggi apostolici che hanno caratterizzato il secondo pontificato più lungo della Storia della Chiesa[13], la proposta di figure di beati e di santi locali, presenti nelle varie nazioni, ha voluto indicare come “l’azione dello Spirito” si sia fatta presente ovunque in storie, vicende umane e opere promosse ed attuate non solo da personaggi europei, possibilmente consacrati e magari uomini, ma anche da donne, laici, cittadini indigeni presenti in ogni angolo dell’Orbe.
Le motivazioni sono dunque legate ai fini stessi dettati dall’evangelizzazione: proporre esempi mirabili di credenti che ci hanno preceduto nel cammino di vita cristiana, le cui storie e le cui opere sono davanti ai nostri occhi.
Dov’è il limite di questa politica? Dove i suoi punti deboli?
Il primo può essere quello rilevato da don Ciotti o su (San) Daniele Comboni: elevare una figura “agli onori degli altari” comporta il rischio di “angelicarla”, di “sublimarla”, di sottrarla, dunque, a quei risvolti di umanità (anche quelli legati ai propri limiti, ai propri difetti, agli errori personali comunque vissuti durante la propria vicenda umana) che le sono propri, o alle conseguenze di scelte sbagliate che questa stessa persona abbia comunque compiuto in vita; riconoscere, dopo l’articolato percorso che la Congregazione delle Cause dei Santi compie, la “santità” di un individuo, significa affermare che questa persona si trova ora “a destinazione”, in quella visione beatifica che nella teologia cristiano-cattolica è realizzata con l’incontro con Dio nell’Aldilà.
Riconoscere, ad esempio, che un Pontefice sia in Cielo, non sottrae il suo pontificato dai giudizi della storia e dalle conseguenze legate alle sue scelte.
L’ultimo Vescovo di Roma canonizzato prima dei suoi successori dell’ultimo secolo, Pio V, ha il “merito” di essere ricordato grazie alla vittoria di Lepanto.
La lettura storica sul lungo pontificato di San Giovanni Paolo II non può ignorare scelte politiche precise che ne fecero uno dei protagonisti della fine del “Comunismo reale” e al tempo stesso colui che chiuse le possibilità di sviluppo evangelico della Teologia della Liberazione e delle CEB nel continente sudamericano, proprio avverso a qualsiasi rischio di orientamento “a sinistra” ritenuto da evitare. Oggi il Cattolicesimo in questo continente è numericamente in crollo nei confronti di una espansione esponenziale delle chiese evangeliche e pentecostali.
Secondo “limite” della politica delle canonizzazioni: l’indebolimento delle potenzialità del dialogo interreligioso e del dialogo ecumenico, lì dove la focalizzazione dell’attenzione sui “santi” di parte cattolica distoglie lo sguardo dalla considerazione che la difesa dei valori non solo della fede ma anche della giustizia e dei diritti ha portato a pagare con il sangue personaggi accomunati dall’unico spessore morale e impegno civile, pur nella diversità delle fedi professate.
Non posso dimenticare la riflessione di un mio professore di teologia che, in un seminario di studi sulla figura di Simone Weil, affermava che la Chiesa Cattolica non avrebbe esitato a canonizzarla, se solo fosse stato possibile dimostrare che ella aveva ricevuto il battesimo; cosa di cui non abbiamo testimonianze documentali certe[14].
Ricordo anche una significativa testimonianza che registrai anni fa durante alcuni giorni di visita alla Comunità di Bose.
Rimasi colpito dal fatto che nella liturgia della comunità monastica erano ricordate anche figure di testimoni non cattolici: Dietrich Bonhoeffer ad esempio[15].
Ecco, dunque, l’ultimo grande “limite” di ogni “culto dei santi”: esso è – e non può che essere – “di parte”.
Esistono così santi “cattolici”, santi “ortodossi”, “profeti” dell’Islam, personaggi “deificati” nella Storia di tutte le varie Religioni.
Credo che un criterio unificante sia da ritrovare nell’invito del pontefice (San) Paolo VI: il mondo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri[16].
Se dunque il “culto dei santi” non può che essere legato ad ogni singola (e separata) confessione religiosa, il riconoscimento tributato dai popoli, dalle nazioni, da ognuno di noi verso figure di donne e di uomini che siano unanimemente riconosciuti come testimoni di un messaggio e di una passione per la promozione dei valori più condivisi faccia la differenza.
Così non ci sarà alcuna differenza tra Thomas Sankara, Teresa di Calcutta, Ikbal Masih[17], l’Abbè Pierre[18], Ezechiele Ramin[19], Emmeline Pankhurst[20] e, insieme con loro, tutte quelle vittime senza volto né nome a cui essi hanno provato a dar loro voce.
La quarta, la settima e l’ottava beatitudine evangelica ci consegnato tutte queste persone come quei testimoni dei quali il mondo ha bisogno[21]. Oggi non meno di ieri.
L’esperienza di Francesco Gesualdi e del Centro Nuovo Modello di Sviluppo. Analisi documentate e proposte concrete per un mondo che risponda anche all’appello della LAUDATO SI’
di Alessandro Manfridi
Una lezione con le classi prime sul modello educativo di don Milani per me è d’obbligo all’inizio del percorso scolastico con gli studenti.
Mi basta scrivere alla lavagna: “LA SCUOLA SARÀ SEMPRE MEGLIO DELLA MERDA!” e poi chiedere ai ragazzi se questa frase secondo la loro opinione é stata detta da un professore o da uno studente.
L’attenzione è garantita.
Poi inizio a raccontare loro la storia che ha portato don Lorenzo Milani a fondare la sua “Scuola di Barbiana”.
E racconto le motivazioni che hanno condotto i suoi ragazzi a scrivere il testo de la “Lettera ad una professoressa”, divenuto uno dei manifesti del Movimento del ’68.
La frase, come sappiamo, l’ha proposta uno degli studenti della “Scuola di Barbiana” che, se non avesse avuto la possibilità di vivere quelle dieci ore immerso con i compagni nello studio, nella ricerca, nella fatica, nel confronto, avrebbe dovuto impiegarle a spalare letame nelle stalle insieme con suo padre.
Se in Italia il diritto all’istruzione, attraverso il ciclo della scuola dell’obbligo scolastico, è garantito a livello istituzionale, ciò non è ugualmente previsto ne garantito ai ragazzi di ogni età in tanti altri Paesi; ciò per svariati motivi: povertà, lavoro minorile, mancanza delle scuole o distanza dei plessi più vicini ad ore di cammino, guerre civili, bambini-soldato.
La cosa che mi ha sempre colpito, nella essenziale produzione bibliografica di don Milani, è l’uso delle statistiche illustrate da tabelle e grafici.
Esperienze pastorali[1] e Lettera ad una professoressa[2] le adoperano in maniera corrente, illustrando e avvalorando in maniera decisa le questioni esposte e dando peso alle proposte portate.
Leggere Lettera ad un consumatore del Nord[3]è stato per me un piacevole riabbeverarsi al messaggio educativo della Scuola di Barbiana; trasmesso, come patrimonio, non solo alla scuola italiana (ricordiamo che nel nostro paese sono innumerevoli le scuole statali intitolate al prete fiorentino) ma ben oltre i nostri confini[4]. Anche Papa Francesco ne ha riconosciuto il valore e ha voluto recarsi a visitare questo luogo e la tomba del priore[5].
Il testo della Lettera ad un consumatore del Nord , editato trent’anni fa (1990), riprende esattamente lo stile e le provocazioni della Lettera ad una professoressa, con mirato uso di dati, grafici e tabelle.
Uno sguardo all’indice.
Presentazioni di Alexander Langer e Alex Zanotelli. Titoli capitoli: il tuo consumo, la nostra emarginazione; il tuo consumo, il nostro deficit alimentare; il tuo consumo, il nostro ambiente; il tuo consumo, il nostro sfruttamento; il tuo consumo, il loro guadagno; dal consumo alla solidarietà.
Il filo rosso che lega il Centro Nuovo Modello di sviluppo di Vecchiano (PI)[6] alla scuola di Barbiana è Francesco Gesualdi, fratello di Michele, lo scomparso presidente della Provincia di Firenze[7]; i due fratelli hanno avuto il privilegio di vivere accanto a don Milani, accolti nella canonica della parrocchia e protagonisti della scuola parrocchiale.
Notevole la trasposizione filmica interpretata da Sergio Castellitto[8].
Francesco, chiamato “Francuccio” da don Milani, parte presto oltre confine per iniziare una esperienza come lavoratore che lo plasmerà sotto gli insegnamenti e la passione del priore di Barbiana.
Da oltre trent’anni le proposte del Centro Nuovo Modello di Sviluppo hanno offerto non solo una serie di pubblicazioni[9] concepite per la didattica scolastica e la divulgazione ma anche una serie di studi, di dossier[10] e soprattutto di campagne[11] operative per promuovere la conoscenza e la pratica di vari strumenti, nell’ottica, appunto, di un nuovo modello di sviluppo.
Nel testo L’altra via da scaricare in PDF[12], la domanda introduce alle possibili risposte:
Cambio di strategie, cambio culturale, cambio organizzativo, trasformazioni possibili solo se ricominciamo da capo, se ripartiamo da alcune domande di fondo: per chi e per che cosa deve essere organizzata l’economia? per i mercanti o per la gente? per l’avere o per l’essere? per il privilegio di pochi o i diritti per tutti? nel rispetto del pianeta o in un’ottica di saccheggio? Se la risposta è che l’economia deve essere organizzata per la gente, allora dobbiamo ripensare l’assetto economico a partire dai bisogni.
Guida al consumo critico[13] è il testo maggiormente promosso del Centro, ed è una delle sue proposte-chiave. Varie campagne sono state lucidamente proposte dal Centro in questi anni, alcune concluse con successo, altre ancora in corso.
Insieme con Alex Zanotelli, Francuccio Gesualdi è fondatore della Rete di Lilliput[14].
I contenuti ai quali Gesualdi e il Centro si sono dedicati da oltre trent’anni, sono gli stessi che vengono richiamati dalla Enciclica di Papa Francesco Laudato Si’[15] su un’ecologia integrale e nuovi percorsi di giustizia.
Quando io penso agli strumenti che abbiamo li divido in due: azioni di resistenza, sono tutte quelle che puntano a creare un danno al sistema e togliergli il consenso, sapendo che il sistema si regge sul consenso. L’altro tipo di azioni sono quelle che io chiamo di desistenza, vale a dire che ci sono momenti in cui ci rendiamo conto che diamo un servizio molto più grande se abbiamo la capacità di scendere dal treno e cominciare a mettere in pratica ora e subito delle iniziative che vanno in una direzione contraria rispetto a quelle dominanti. Fra le azioni di resistenza abbiamo la possibilità di poterle dividere in quelle di carattere personale e in quelle di carattere collettivo. Fra le personali la prima è il cosiddetto consumo critico. Noi abbiamo capito che il consumo vissuto in maniera acritica diventa uno strumento di sostegno alle imprese, comprese quelle che si comportano malissimo, ma che se abbiamo la capacità di utilizzare il consumo in maniera critica riusciamo a orientare il comportamento delle imprese, perché lanciamo di continuo il messaggio delle azioni che approviamo e quelle che condanniamo. Ricordatevi che le imprese sono sensibilissime a questo tipo di messaggi che arrivano dai consumatori e loro sanno molto bene che la loro sopravvivenza dipende dalle scelte che fanno i consumatori. Ogni volta che entriamo in un supermercato diciamoci che siamo persone molto potenti, noi abbiamo la possibilità di mettere in ginocchio anche le multinazionali più potenti. Però bisogna crederci e dopo averci creduto bisogna fare i passi necessari. Dal punto di vista collettivo le azioni che abbiamo a disposizione sono molto più vaste e vanno dal boicottaggio alle manifestazioni. Poi abbiamo le scelte di desistenza, vale a dire tentare di attuare delle scelte che sono ispirate a principi diversi e ancora una volta possiamo dividerle in azioni personali e collettive. Fra le azioni personali c’è un nuovo stile di vita che si concretizza anche con la finanza etica con la Banca Etica costituita di recente e l’esperienza delle reti di economia locale[16].
Ricordando la sua relazione al “Giubileo degli oppressi”[17], dobbiamo convenire che un mondo più giusto e un futuro possibile passano solo attraverso l’impegno preciso di ciascuno di noi.
Non dobbiamo attendere l’overshoot day[18] per svegliarci.