Un ormai noto problema, segnalato da una lettera pubblicata su Avvenire, richiede ormai di essere affrontato anche secondo la categoria dei “segni dei tempi”
Qualche giorno fa un fedele ha scritto al quotidiano Avvenire segnalando un’urgenza. Riportiamo integralmente la lettera per condividere poi una riflessione sulla stessa:
Gentile Direttore, il vescovo Giacomo Morandi ha pubblicato i trasferimenti dei sacerdoti nella nostra diocesi di Reggio Emilia. Il parroco emerito della mia parrocchia di Regina Pacis ci ha detto, molto commosso, che un suo allievo del Seminario è diventato parroco di ben 16 (sedici) parrocchie. È vero che sono piccoli centri di montagna del nostro ridente Appennino, frazioni, borgate… ma tutti con la chiesa e con i parrocchiani, famiglie, anziani. Una volta quasi tutte avevano il sacerdote in loco, ma da anni non è più così. Il nostro vescovo ha voluto che tutte avessero un riferimento… ma sedici sono un grande impegno. E come quel sacerdote altri due suoi confratelli hanno altrettante parrocchie. Uniamoci e chiediamo alla Santa Madre di intercedere presso il suo amato Figlio la grazia delle vocazioni.
Alcune riflessioni. È giusto pregare il padrone della messe perché vi mandi operai (Mt 9, 35-38), ma potremmo anche cercare di leggere in queste situazioni i cosiddetti “segni dei tempi”.
La diocesi di Reggio-Emilia-Guastalla, che conta poco meno di 500mila battezzati su 570mila abitanti, distesa su 41 comuni nella provincia di Reggio Emilia, 2 in quella di Modena e alcune frazioni nel comune di Carpi, amministra 311 parrocchie distribuite in 60 unità pastorali in 5 vicariati con 211 sacerdoti secolari, 31 sacerdoti regolari e 124 diaconi permanenti. Dunque, per il servizio dei sacramenti, ci sono 69 parrocchie in più rispetto al numero dei presbiteri – non sappiamo quanti di questi sono ormai per età o per salute o altri incarichi impossibilitati ad assumere l’incarico di parroco, dunque il numero è sicuramente più alto. Dall’elenco dettagliato delle nuove nomine si evince che queste riguardano quasi sempre delle parrocchie “in solidum”, dunque su 16 o più parrocchie dovrebbero essere presenti due parroci.
Rimettiamoci a quel che dice il nostro lettore. Se un presbitero è parroco di 16 parrocchie, i numeri ci dicono che egli riuscirà la domenica, se celebra 4 messe in 4 parrocchie diverse (anche se le norme prevedono che non possa superare il numero di 3 messe) a coprire tutte e 16 le parrocchie nel giro di un mese. I suoi parrocchiani dovrebbero così riuscire a vederlo per una sola messa domenicale al mese. Per poi dividersi durante la settimana in tutte le sue comunità, egli non riuscirà a dedicare alle sue parrocchie più di due giornate del suo tempo al mese.
Ricordo le confidenze di un amico parroco calabrese che 30 anni fa mi raccontava di dover amministrare 3 parrocchie nelle montagne della sua diocesi. Il massimo lo raggiungeva la notte della Veglia Pasquale, dove celebrava in un parrocchia alle 18:00, nell’altra alle 20:30 e nell’ultima alle 23:00. Per il resto, passava più tempo in macchina per gli spostamenti che tra le mura delle chiese.
Un vescovo nella cui diocesi ci saranno, nel prossimo decennio, un saldo passivo di 100 parrocchie scoperte rispetto ai presbiteri capaci di assumerne la cura, cosa potrebbe fare? Potrebbe bastargli cercare presbiteri dalle nazioni africane o sudamericane come già avviene che coprano tali incarichi? E se i bilanci del Sostentamento Clero e quelli delle parrocchie di queste comunità periferiche fossero particolarmente in rosso? In quel caso non si potrà arrivare a garantire i sacramenti a tutta la popolazione, in particolare a persone anziane o comunque non in grado o non disposte a spostarsi a qualche decina di chilometri per mancanza di presbiteri; forse non si potrà garantire anche la stessa pastorale ed evangelizzazione in mancanza di diaconi o laici coinvolti in ministeri dedicati.
Abbiamo avuto il Sinodo dei Vescovi sull’Amazzonia che ci ha già presentato simili urgenze. In quel caso, la proposta dei “viri probati”, presentata dai padri sinodali, non è stata accolta dal Vescovo di Roma.
Al di là delle urgenze legate al servizio pastorale e ai fedeli che si vedrebbero dunque privati da tale cura, possiamo ritenere che anche per i presbiteri una tale situazione non sia problematica? Che vita può vivere un parroco che si incontra con la comunità una domenica al mese e gestisce il resto della pastorale con due giorni alla settimana? Non potrebbe risentirne sul piano fisico, psicologico, umano?
Non affidiamo tutto alla nostra fede e alla preghiera che eleviamo al Signore. Forse tali “segni dei tempi” devono essere accolti con attenzione e coraggio e bisogna cercare di dare una risposta efficace a queste situazioni.
Da un approccio egologico ad un approccio ecologico. Un corso per approfondire la proposta dell’ecologia integrale.
di Alessandro Manfridi
Sabato 25 marzo si è concluso il percorso interdisciplinare di ecologia integrale dal titolo «Custodi del giardino»[1], organizzato dalla Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium» e dal Circolo Laudato Si’ della Facoltà, che ha voluto concretizzare con questa proposta l’invito partito dalla Lettera Enciclica di papa Francesco.
L’impostazione è stata quella di ascoltare realtà virtuose presenti sul territorio ed ascoltare le indicazioni scientifiche di chi lavora da decenni su questi temi.
Gli incontri sono stati moderati dalla dott.ssa Anna Moccia, giornalista e founder della Rivista e Associazione «Terra e Missione», e introdotti dalla prof.ssa Linda Pocher, docente di Teologia dogmatica presso la Facoltà.
Temi dei tre incontri: «In ascolto degli alberi»[2], «Il mare, nostra risorsa»[3], «Comunità energetiche e futuro»[4].
Gli esempi virtuosi presenti sul territorio sono stati esposti dalle testimonianze di Francesco Auciello, presidente dell’Associazione “Il mio amico albero”, che ha illustrato quanto sia importante non solo mettere a dimora una serie di alberi attraverso un progetto di riforestazione del quartiere gestito dai volontari, ma anche come sia necessario prendersene cura mediante l’irrigazione, per permetterne la crescita e la sopravvivenza nei confronti dei fenomeni inarrestabili dell’innalzamento delle temperature dovuti ai cambiamenti climatici.
Mauro Pandimiglio, navigatore e pedagogista, Direttore della scuola di vela inclusiva Maldimare, ha testimoniato quella “Pedagogia del mare” che rende protagonisti ragazzi con varie disabilità, perché, fin dalla gestazione, noi siamo in simbiosi con l’acqua.
Giuseppe Morelli, animatore Laudato Si’ del Circolo Laudato Si’ nelle Selve di Roma, e Milvo Angelo Ferrara, changemaker, Progettazione d’Economia Circolare e Innovazione dirompente, hanno presentato la realtà della comunità energetica nel quartiere Ponderano.
Tra i contributi scientifici la Dott.ssa Gabriella Chiellino, CDA Università Iuav di Venezia, Co-Founder e Chief Executive Officer IMQ eAmbiente, ha illustrato cos’è una comunità energetica e come si costituisce, invitando i presenti a considerare come il tema ambientale, quello sociale e quello economico sono le tre gambe su cui si regge lo sgabello della transizione.
Marco Marcelli, docente di oceanografia biologica e applicata presso l’Università degli Studi della Tuscia; Fondatore e responsabile del Laboratorio di Oceanologia Sperimentale ed Ecologia Marina (LOSEM) ha spiegato le caratteristiche e problematiche del litorale del Lazio.
Francesco Ferrini, docente di arboricoltura generale dell’Università degli Studi di Firenze ha svolto il suo intervento sul tema “Piantare alberi per salvare la Terra”.
“DA UN APPROCCIO EGOLOGICO AD UN APPROCCIO ECOLOGICO” (frase tratta da “Un pianeta da salvare” di Barbieri, 1975). La situazione del verde urbano è in miglioramento ma dagli anni 70-90 la cementificazione e la impermeabilizzazione è arrivata a 8 m2 al secondo, interrompendo il ciclo dello scambio gassoso e liquido tra gli elementi. Adesso siamo a due metri al secondo.
La crescita non è sostenibile. L’evoluzione degli alberi è di 400 milioni di anni, questi hanno la possibilità di riprodursi come non ce l’ha l’uomo che esiste da centinaia di migliaia di anni. Un albero di medie dimensione intercetta circa 3000 litri di acqua all’anno che vengono utilizzati dall’albero e immessi nell’atmosfera. Essi contribuiscono alla riduzione delle piogge torrenziali con le alluvioni improvvise.
Il Next Generation You della UE ha dichiarato che entro il 2030 l’Europa dovrebbe piantare 3 miliardi di alberi, la quota dell’Italia è 200 milioni, di questi alberi in Europa ne sono stati piantati un po’ meno di 7 milioni in due anni. È necessario studiare dove, come, cosa e perché piantare.
Gli errori fatti nel passato: siamo il paese con più foreste in Europa ed abbiamo dismesso i vivai forestali. Abbiamo circa 5 milioni e mezzo di piante in vivaio, di cui 4 milioni e 200mila piante autoctone certificate. Avremmo bisogno di 10 volte tanto.
Antonio Brunori, dottore forestale e giornalista, segretario generale PEFC Italia, direttore responsabile i “Eco dalle foreste” ha svolto una relazione sul tema “Come gli alberi ci fanno vivere meglio in città”.
Il PEFC, “Programme for Endorsement of Forest Certification schemes”[5] si occupa di gestire le foreste per dare legno, protezione, difesa, servizi ecosistemici, salute all’uomo. È uno schema di certificazione che dice come sono “tutelanti” le foreste con questa certificazione.
Bisogna tutelare le foreste esistenti e anche piantare alberi. Il problema è che nel mondo perdiamo ogni anno 5 milioni di ettari di foreste.
Un centimetro di suolo fertile ci vogliono 250 anni perché si formi, quando noi impermeabilizziamo 6 m2 al secondo stiamo distruggendo la vita. La popolazione al mondo aumenta e le foreste diminuiscono. In Italia siamo in controtendenza. Le nostre foreste sono triplicate dal 1915. Ma questo non per una politica di forestazione attiva ma per l’esodo in città della popolazione delle campagne e l’aumento delle foreste di montagna parallelo al disboscamento delle foreste della pianura. Abbandonando le nostre foreste senza cura e manutenzione arrivano gli incendi, arrivano le frane, arrivano le tempeste effetto dell’innalzamento delle temperature del clima.
La deforestazione dipende per la maggior parte dai nostri stili di vita, dalle nostre abitudini alimentari nel Nord del Mondo. Il 21% delle emissioni di CO2 deriva dalla coltivazione in Brasile, in Indonesia e in Africa di soia, olio di palma e zootecnia. L’Italia è l’ottavo paese al mondo che con i propri acquisti incrementa la deforestazione, si parla di “deforestazione incorporata nel cibo”. Dobbiamo mangiare meno carne e consumare più carne prodotta nel nostro territorio.
La biofilia dipende dal fatto che l’uomo in trecentomila anni di evoluzione è sempre vissuto all’interno della natura, solo negli ultimi 4mila anni ci siamo separati dalla natura. L’etimologia di “foresta” richiama ciò che “sta fuori” (stessa di “forestiero”). Abbiamo cominciato a chiuderci e abbiamo evoluto una modalità che ci fa stare il 92% del nostro tempo fuori della natura. Questo crea dei “deficit di natura”. Secondo gli studi USA i bambini hanno dei cali di concentrazione perché non stanno a contatto con la natura.
Viene monitorato e registrato come i parametri biologici e il sistema immunitario sono fortificati dalla sosta di 12 ore in una foresta.
L’uomo deve essere grato agli alberi per la vita che vince sempre. In Italia Brunori dona queste piante insieme ad un’associazione che si chiama “Mondo senza guerre e senza violenze” alle scuole e agli altri vari enti sensibili a questi temi.
Maria Teresa Abignente, medico, coordinatrice Gruppo Nain (Fraternità Romena), ha condiviso la testimonianza di quel che il gruppo fa nel parco delle foreste casentinesi con i percorsi per genitori che hanno perso i figli con il “giardino della resurrezione” e i mandorli piantati da questi genitori.
Alcune considerazioni.
Il primo incontro è stato realizzato la mattina del 5 novembre 2022 e Teresa Moccia ricordava che il pomeriggio in piazza San Giovanni in Laterano ci sarebbe stata la manifestazione nazionale apartitica per chiedere negoziati di pace in Ucraina[6]. Nell’ultimo incontro il 25 marzo Milvo Angelo Ferrara ha condiviso come l’ultima notizia dell’annunciato utilizzo di armi all’uranio impoverito di fabbricazione britannica fornite all’esercito di Kiev sia una pazzia e un “suicidio” per le popolazioni, perché dove vengono usate queste armi il suolo diventa radioattivo e qualsiasi coltivazione prodotta in loco porta i consumatori ad esporsi alla leucemia. La logica delle armi e della guerra diventa elemento distruttivo della vita umana e di quella della nostra “casa comune” per la difesa della quale l’appello della Laudato si’ è chiaro e forte.
Insieme con i saluti di Piera Ruffinatto, Preside della Facoltà, di Giuseppe Milano, ingegnere edile-architetto e giornalista ambientale, segretario generale Greenaccord Onlus e del Cardinale Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente della CEI, vogliamo riportarvi quelli di Mons. Gianrico Ruzza, vescovo Civitavecchia-Tarquinia, Porto e Santa Rufina, promotore dell’Apostolato del Mare nella CEI, facendo parte della Commissione Episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace. I 124 km di costa nel territorio diocesano sono 124 km di umanità, di lavoro, di fatica, di bellezza, di potenza e di amore per il mare che ci fa pensare all’infinito. Ma quanta non curanza c’è nei confronti del nostro mare? Il mare è offeso da molteplici forme di inquinamento, il lavoro della pesca è in grande sofferenza, il mare stesso sta tristemente diventando un cimitero per migliaia di migranti che cercano di sbarcare sulle nostre coste. Il mare da sempre è stato un luogo di incontro di Civiltà e l’uomo deve riscoprire la sua vocazione a vivere in armonia col suo mare.
Il tema dell’accoglienza e integrazione dei migranti è stato presentato dalle testimonianze di Angela Caponnetto, giornalista di Rai News 24 e di Maria Rosa Venturelli, missionaria comboniana e vicepresidente Associazione Comboniana Servizio Emigranti e Profughi. Molto toccante la testimonianza di uno di loro, Abdoul Kone.
Il teologo Pietro Lorenzo Maggioni, membro fondatore di Rete Ambiente Lombardia, sostiene che sia necessario costruire comunità energetiche non solo per bisogno, per necessità, ma come grande opportunità per la Chiesa per proporre visione di comunità.
Sono necessarie tre cose per Maggioni: mettere insieme le prospettive (nella Laudato si’ Francesco ci dà l’esempio citando Bartolomeo e i Concili Ecumenici protestanti); mettere insieme i territori; mettere insieme le generazioni (i giovani ambientalisti di oggi e gli ecologisti storici).
Il percorso è stato ricco di spunti e di prospettive, una proposta significativa per prendere coscienza, diffondere i temi, proporre soluzioni concrete, farsi attenti e sensibili a quel grido che viene dal creato ferito dagli egoismi distruttivi che l’uomo sta producendo, con una economia individualista e cieca ai bisogni dell’uomo e della natura.
Suor Linda nella sua ultima presentazione ci ha invitato a guardare alla “energia” che viene dal fuoco dello Spirito, che brucia senza consumare e deve essere ascoltato da ciascuno per riconsegnare l’umanità e tutto il Creato a quella vocazione dipinta fin dalla prima pagina del libro della Genesi e accolta dal Poverello di Assisi con la sua vicenda e da papa Francesco con il suo magistero.
Alcuni interessanti appunti presi a margine del convegno di dialogo ecumenico e interreligioso delle diocesi laziali dedicato ai giovani
20 marzo 2023
Il saluto iniziale è stato d’impatto. Mons. Ambrogio Spreafico, vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino e di Anagni-Alatri, ha confessato che dopo l’uccisione di Thomas ad Alatri incontrare i giovani ha significato diventare ancora più consapevoli che dietro ciascuno di loro ci sono storie di vita, speranze, gioie, ma anche difficoltà, tristezze. Per cui bisogna chiedersi sempre se e quanto tempo spendiamo per fermarci ad ascoltarli, loro e gli adulti che li circondano. A tal proposito, Pietro Alviti ha presentato i risultati di un’intervista realizzata a più di 3000 giovani delle Scuole Superiori. I ragazzi non frequentanti le parrocchie sono risultati essere il 93% ma il 53% di essi vi ritornerebbe per realizzare attività di solidarietà e attività ricreative e sportive.
Profondamente coinvolgente ed empatica è stata Daniela Lucangeli, ordinario in Psicologia dell’educazione e dello sviluppo all’Università di Padova, la quale, partendo dalle domande dei ragazzi espresse nei video condivisi in apertura di convegno, si è chiesta quale fosse il loro dolore più grande, quali fossero le loro aspettative. E, premesso che l’OMS definisce (1998) la salute come «uno stato dinamico di completo benessere fisico, mentale, sociale e spirituale, non mera assenza di malattia», ella ha evidenziato che la salute è dunque anche “qualcosa” di spirituale: l’organismo vivente della nostra specie ha bisogno di star bene nelle relazioni e negli scopi/fini che si prefigge. D’altra parte, la Lucangeli ha ricordato che scientificamente siamo un intero “SELF”, per cui dobbiamo smettere di scindere in modo dualistico, cartesiano, corpo e mente: “io non ho un cervello, io sono un radar vivente”. Noi non siamo questo organo, è questo organo che è noi. Noi siamo un intero senziente. Noi siamo filogeneticamente una unità corpo-mente.
Ciò premesso, prosegue la Lucangeli, ogni istante della nostra vita è un istante in cui abbiamo a che fare con la memoria del passato e con i processi di futuro, con la sofferenza e con il desiderio di “totalmente altro”. Se vogliamo comprendere come funzionano gli organismi viventi in immanenza, dobbiamo partire da quanto ci dicono gli scienziati che studiano il cervello distribuito: “io non sono me senza te”. Neuroni specchio. Noi siamo immersi nei pensieri degli altri, respiriamo l’aria dove respirano gli altri. A proposito del funzionamento della memoria della sofferenza e della gioia, durante la seconda fase pandemica si è scoperto che le cellule della pelle vengono cambiate dopo pochi giorni: perché l’organismo si tiene le cicatrici se la pelle è giovane? Perché in realtà conserva tutti i segnali del passato con cicatrici come “marcatore del futuro” affinché non si riproducano in esso i traumi del passato.
Ora, tutta la ricerca sull’epigenetica indica che per generazioni la genetica segna lo STOP. Ma chi decide questo STOP? Chi decide: “questo è un dolore?” e “questa è una gioia?” Siamo connessi e abbiamo un cervello distribuito, ma come funziona? I primi studiosi, sette anni fa, cambiarono la parola INTELLIGENZA con la parola INTELLIGERE. Flusso da fuori a dentro, da dentro a dentro, da dentro a fuori. Moduliamo il nostro dare sul segno del nostro intelligere: io non sono esterno al flusso. Da dentro a dentro è il mistero delle memorie. Esso traccia tutto, ma io scelgo la traccia non con le informazioni che mi dà la parte più recente della corteccia ma usando le aree limbiche, la parte più antica del cervello, le emozioni, e-movere. Il cervello antico mi dà due leggi: “mi fa bene”, “mi fa male”. Se io mentre studio, lo faccio con ansia, l’ansia manda il mio cervello in corto circuito, c’è una memoria per-vertita, ha perso il senso dell’orientamento. Se io provo un senso di giudizio da parte degli altri, io non riesco a fiorire perché il mio cervello va in reazione. Se la scuola adotta un sistema dell’intelligenza, ma non trasmette la dinamica dell’intelligere, allora bisogna forse riconoscere che abbiamo generato un sistema educativo causa di reazioni depressive e aggressive.
Non a caso, invece, la Lucangeli ha concluso il suo intervento con le testimonianze di un suo studente che le ha svelato “l’effetto moltiplicatore” (tanti più allievi raggiungo, tanto più per moltiplicazione loro raggiungeranno altri) e di altri due suoi studenti che l’hanno resa consapevole della necessità di fabbricare pillole di gioia in parole, opere e omissioni: 1) parole – tornate a dialogare con chi mettete al mondo; 2) opere – tornate a vivere con i propri figli; 3) ci vuole a-more, alfa privativo davanti a mors, mortis, “tu mi stai a cuore”(don Milani). Un docente non deve essere un verificatore ma un magister: dobbiamo smettere di appesantire le loro ali.
Anche la seconda parte dei lavori si è aperta con alcune testimonianze giovanili molto forti: essere fragile è sentirsi impotenti di fronte al flusso della vita: “la vita, per un giovane, è come stare su una corda” (Giulia). E se, dopo la pandemia, la guerra in Ucraina, l’aumento del costo della vita, l’ansia per un futuro, sognare non bastasse per superare le difficoltà? I giovani si sentono come una generazione debole e timorosa del futuro, non solo a causa delle nostre aspettative, ansie ed incertezze, ma anche perché “i social hanno cambiato i nostri valori a livello sociale. Noi giovani siamo facilmente influenzabili e suscettibili. Vorrei vivere una gioventù spensierata senza dover guardare sempre lo schermo di un cellulare” (Sasha).Il Rav Benedetto Carucci Viterbi, direttore della Scuola Ebraica di Roma, ha ripreso l’immagine di Giulia del funambulo, ricordando che un rabbino del 1800 diceva che tutto il mondo è un ponte molto stretto, l’importante è non aver paura. La fragilità è qualcosa che bisogna maneggiare con cura e spesso è preziosa. Le parole in questo ci possono aiutare se sappiamo utilizzarle. L’ebraismo utilizza quattro parole per definire questi contenuti: ELEM NAHAR ZAHIR E BAKUR.
BAKUR: dalla radice scegliere. L’adolescenza è una continua scelta, una stagione per niente semplice in cui con fatica si è chiamati a compiere le prime grandi scelte. ZAHIR: radice che significa “dolore”, sostanza di dolore nella stagione adolescenziale e non solo. NAHAR: “colui che si agita”. Agitazione costitutiva, difficoltà a stare fermi con la testa, a concentrarsi. ELEM è parente di due concetti: “il mondo” e “il nascosto”. Ogni adolescente è veramente un mondo di cui bisogna rispettare i confini e dare loro uno spazio riservato.
Importante in tal senso la metaforica biblica. Carucci cita Gn 33, 1-17, l’incontro tra Esaù e Giacobbe. Esaù domanda a Giacobbe: “Andiamo insieme e io camminerò con te”. Giacobbe risponde: “Tu sai che i bambini sono fragili, gli animali e il gregge stanno allattando, vai avanti e io camminerò secondo il passo dei miei giovani fragili, il gregge che sta allattando”. Ecco, qui si pone la questione del futuro. Per aver cura del futuro bisogna essere attenti alle fragilità e a quelle dei giovani in particolare. Tanti si sentono pressati dalle aspettative degli adulti e soccombono. Ma è come se Giacobbe stesse dicendo: “tu vorresti che io andassi al tuo passo, ma io non posso rispondere alla tua aspettativa, dammi i miei tempi ed io raggiungerò questi obiettivi, ma dammi i miei tempi”.
Per questo, conclude Mons. Spreafico, il brano della vocazione di Samuele è importante perché Eli a un certo punto dice “Eccomi, ti ascolto”, ma non è facile la relazione tra un vecchio e un giovane. Ciascuno di noi ha una missione. Samuele ed Eli trovano la missione. In questo noi abbiamo il compito di ricostruire il grande sogno di Dio che voleva una comunità di fratelli e di sorelle, giovani e anziani che camminano insieme.
È passato un anno dall’ingresso dell’esercito russo sul suolo ucraino, ma urge ancora lavorare perché si intavoli una trattativa…
1 marzo 2023
Il primo anniversario dell’invasione russa sul suolo ucraino è stato ampiamente ricordato su tutte le reti nazionali, riproponendo in particolare le immagini e i servizi che i giornalisti sul campo hanno reso degli orrori perpetrati dal conflitto e dall’esercito invasore. Non uguale visibilità è stata invece data alla voce di chi, riconoscendo le responsabilità di Mosca, chiede che si inizi a lavorare per una trattativa.
Tra il 24 e il 26 febbraio sono stati organizzati in 124 città italiane 131 eventi che hanno coinvolto oltre 40000 persone. La piattaforma “Europe for peace”, che ha riunito in rete centinaia di realtà associative e di cittadini italiani, si è fatta promotrice, fin dalla manifestazione nazionale in piazza San Giovanni a Roma il 5 novembre, della diffusione di una mobilitazione che coinvolgesse le altre capitali europee. In 87 città europee, da Lisbona a Madrid, da Parigi a Londra, da Berlino a Zurigo, da Vienna a Zagabria, sono state organizzate manifestazioni per dar voce alle ragioni che portino a delle vere trattative.
Tra le tante manifestazioni, menzioniamo una settimana di presidi a Perugia prima di una marcia Perugia-Assisi in notturna con arrivo all’alba del 24, una mobilitazione a Bologna col cardinale Zuppi in piazza Maggiore la sera del 24 e una fiaccolata da via dei Fori Imperiali al Campidoglio a Roma con Riccardi e Landini la sera del 25. È stato proprio il presidente della CEI a ribadire la necessità di un negoziato ma al tempo stesso a chiedere se ci sia la volontà da parte delle parti in causa nel realizzarlo.
Dopo un anno, purtroppo, pare che niente si stia muovendo a riguardo. Putin non si ritirerà a mani vuote. Biden è passato dalla debacle afgana alla guerra di liberazione ucraina (che lo sponsorizza ad un secondo mandato presidenziale); la UE è allineata (anche se con posizioni diversificate, visto che ci sono Stati che non inviano armi e Stati che non aderiscono alle sanzioni) alla causa di Kiev contro Mosca (anche se non ha mosso un dito durante gli eventi del 2014). Il grande protagonista delle finestre mediatiche nostrane, il presidente Zelens’kyj, ribadisce che la sua nazione non potrà chiedere un accordo senza che Donbass e Crimea siano lasciati all’Ucraina.
Ci sono almeno tre “mantra” nelle sue parole che non corrispondono alla realtà.
Primo: è necessario che il popolo ucraino sia armato perché, se sarà la Russia a prevalere, i suoi prossimi passi saranno invadere l’Europa; ergo, l’Ucraina difende sul campo, in prima linea e grazie alle armi occidentali, proprio la libertà dell’Europa. Sicuramente a questo messaggio sono molto sensibili Polonia e paesi baltici, a motivo della loro storia; sicuramente Georgia ed Ucraina, oltre alla regione della Transinistria in territorio moldavo, che attenzionate da Mosca per la loro posizione strategica costituiscono una evidente minaccia per la paventata presenza della NATO in questa regione. È evidente che un tale proclama, assunto in pieno a Bruxelles, sia totalmente opinabile.
Secondo: l’Ucraina difende le democrazie europee ed essa stessa si propone alle democrazie di tutto il mondo come una libera democrazia che si contrappone all’orso russo. Purtroppo, a tal proposito, occorre rammentare che da un anno a questa parte il Presidente ucraino ha provveduto a mettere a tacere e chiudere tutte le voci pacifiste, da quelle parlamentari a quelle politiche presenti in Ucraina. Attaccando sistematicamente ogni voce europea che dissentiva dalle sue idee e dai suoi programmi. Non è nemmeno un caso che ad alcuni cronisti italiani e stranieri siano stati negati i visti nel suo territorio; lo testimoniano il 25 pomeriggio, ad esempio, i fratelli Kononovich, due attivisti pacifisti ucraini la cui intervista è stata mostrata durante la serata organizzata al teatro Eliseo a Roma dal giornalista Michele Santoro. Inoltre, non dobbiamo ignorare i bombardamenti sulle popolazioni civili del Donbass, realizzati dall’esercito regolare ucraino dal 2014 sotto il silenzio della UE, proseguiti drammaticamente nello scorso anno grazie alle armi inviate a Kiev dalla stessa UE.
Terzo: il 2023 sarà l’anno della vittoria del popolo ucraino. Questa dichiarazione la ritiene impossibile lo stesso Capo di Stato Maggiore USA, il generale Mark Milley. Stante l’attuale situazione, quello sul suolo ucraino può essere un conflitto destinato a durare per decenni, senza che alcuna forza prevalga. A meno che, come ricorda Landini da piazza del Campidoglio, non si riconosca che chiedere una vittoria contro una nazione dotata di testate nucleari, necessiti dell’ampiamento del conflitto e l’uso delle armi atomiche: ma qui, è ovvia la conclusione, non esisterebbero più né vinti né vincitori.
È dal palco montato in piazza del Campidoglio che intervengono Rosa Miccio, responsabile di Emergency, il sindaco Gualtieri per un saluto, Sergio Bassoli, responsabile della Rete italiana Pace Disarmo che presenta gli interventi e che ricorda come siamo ugualmente vicini non solo al popolo ucraino e agli obiettori di coscienza russi ma anche agli altri popoli ugualmente vittime di gravi conflitti: i popoli di Palestina, Afghanistan, Iran, Saharawi, Sud Sudan, Haiti, Siria, Myanmar. Andrea Riccardi invita a lavorare per una trattativa, giacché dopo un anno di conflitto e centomila morti da entrambe le parti, il proseguo della belligeranza non risolverebbe ma peggiorerebbe le cose:
«Sia chiaro che quando parliamo di pace chiediamo la pace per l’Ucraina. Questa terra ha avuto come profughi un ucraino su tre, sedici milioni di ucraini sono senza lavoro, una economia ridotta del 30%. Nel 2023, undici milioni saranno nel bisogno alimentare, altri avranno bisogno dell’aiuto umanitario, che purtroppo, nonostante l’enorme impegno, sta diminuendo, mentre aumentano le sofferenze della popolazione. Ogni guerra disumanizza, come ricordava Simone Weil. Dobbiamo imparare dalla lezione della Storia. Un anno di questa guerra ce lo conferma. Noi siamo i più realisti e i più sensibili al dramma della popolazione ucraina. Non siamo secondi a nessuno nel nostro affetto verso queste persone. Vogliamo forzare il blocco della politica e lo stallo militare chiedendo l’alternativa: attivare la diplomazia e la politica, non si può vivere senza diplomazia. Come ricorda Papa Francesco: ogni guerra lascia il mondo peggiore di come l’ha trovato. Non possiamo permettere che l’Ucraina continui a vivere un nuovo anno in guerra».
Landini ricorda che dietro ogni conflitto ci sono degli interessi. Quest’anno le spese militari sono aumentate del 110 per cento, cosa che non ha precedenti, e ci sono aziende energetiche che stanno facendo extraprofitti, mentre vengono meno gli investimenti per le popolazioni civili nazionali. Cita la “bellissima Costituzione italiana”, e dice che queste manifestazioni stanno dando voce ai due terzi degli italiani che chiedono sia interrotto questo flusso di armi sine die:
«Noi non abbiamo mai smesso ti portare sostegno al popolo ucraino, lo abbiamo manifestato concretamente. A noi risulta che in questo momento in Ucraina non viene dato il visto per alcuni che portano aiuti umanitari, ma che non ricevono il permesso per restare lì a realizzare questi progetti. Siamo alla follia che si possono mandare le armi ma vengono negati i visti per portare l’aiuto del sostegno. Ci appelliamo al Governo italiano e al Ministro degli Esteri, che affrontino anche questa questione».
Siamo noi i veri realisti, afferma ancora Landini, e impegnarsi per una trattativa significa lavorare per un nuovo modello di sviluppo e una nuova cultura della pace che bandisca la produzione e l’utilizzo delle armi, mai risolutive per i conflitti ma solo distruttive. Significa aderire realmente alla nostra Costituzione, democratica ed antifascista, che si fa garante della pace, del lavoro e della dignità non solo dei cittadini italiani ma di tutti gli esseri umani.
Il 24 febbraio è passato naturalmente nel dimenticatoio l’anniversario di un grande interprete del cinema italiano: Alberto sordi. Magistrale la sua regia e la sua interpretazione di un film che l’anno prossimo farà cinquanta anni: “Finché c’è guerra c’è speranza”. Il titolo, beffardo e irriverente a prima vista, ben rappresenta invece quelle che sono le motivazioni che portano alla produzione, al commercio delle armi e alla genesi di ogni conflitto armato, come Alberto Sordi dimostra nella scena finale con la sua borghese, occidentale e italianissima famiglia. Consiglio la visione e del film e invito chi legge ad una attenzione rinnovata verso soluzioni che possano portare a una trattativa seria e dignitosa.
Oggi comincia un Sanremo in cui si ascolterà in qualche modo il presidente ucraino Zelens’kyj, mentre è appena terminato il viaggio di Francesco in Africa dove sono risuonate al riguardo parole molto chiare…
Se non ci saranno ulteriori precisazioni dell’ultima ora, gli italiani ascoltaranno un testo del presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj durante la serata finale del prossimo Festival di Sanremo.
Il dramma dell’Ucraina e della sua popolazione è costantemente richiamato dal Vescovo di Roma e sui media vaticani ci sono servizi giornalistici che riferiscono in maniera aggiornata il susseguirsi degli eventi.
Ciò nondimeno gli appelli di Francesco pare vadano controcorrente rispetto alla linea adoperata dagli attori di questo tragico conflitto, che ormai da quasi un anno continuano a ritenere che la soluzione dello stesso debba passare attraverso il continuo invio di armi e il dispiegamento muscolare di forze, leit-motiv tragico e, forse, sempre meno credibile.
Per questo, mettere in relazione l’annunciato intervento sanremese con il viaggio apostolico che il Vescovo di Roma ha vissuto nelle martoriate nazioni della Repubblica Democratica del Congo e del Sud Sudan[1] significa, a mio parere, raccogliere un messaggio che può dare più di una risposta a quel che si sta consumando in terra ucraina.
Nel suo incontro con le autorità, con la società civile e con il corpo diplomatico nel giardino del “Palais de la Nation” a Kinshasa, martedì 31 gennaio 2023[2] Francesco utilizza l’immagine del diamante che ritorna ben dieci volte nelle sue parole.
L’abbondanza di diamanti presenti in questa terra non è meno preziosa delle ricchezze spirituali racchiuse nei cuori umani. Francesco invita ad attuare quelle capacità insite nel cuore dell’uomo, realizzando la giustizia e il perdono, la concordia e la riconciliazione, bandendo ogni violenza ed odio presenti nel cuore e sulle labbra, che sono sentimenti antiumani ed anticristiani.
Purtroppo il veleno dell’avidità ha reso gli stessi diamanti di questo pase insanguinati, giungendo al paradosso che i frutti della sua terra lo rendono “straniero” ai suoi abitanti.
Altra osservazione: il diamante lavorato presenta numerose facce armonicamente disposte. La poliedricità è una ricchezza che va custodita, senza cadere nei tribalismi e nelle contrapposizioni. Ogni interesse di parte porta ad entrare in spirali di odio e di violenza, a svantaggio di tutti.
Molto suggestivo quello che la chimica ci insegna: a seconda della disposizione degli atomi di carbonio, la pietra può realizzare un diamante lucente o, viceversa, una oscura grafite.
Fuor di metafora, il problema non è la natura degli uomini o dei gruppi etnici e sociali, ma il modo in cui si decide di stare insieme: la volontà o meno di venirsi incontro, di riconciliarsi e di ricominciare segna la differenza tra l’oscurità del conflitto e un avvenire luminoso di pace e prosperità
La trasparenza del diamante che rifrange la luce in modo meraviglioso viene paragonata agli esempi di limpidezza cristallina di chi seve la società con incarichi civili e di governo non con lo spirito del potere ma con quello del servizio.
Altra immagine è quella del lavoro necessario perché il diamante grezzo venga lavorato, Qui c’è un appello al valore fondamentale dell’educazione per la promozione delle giovani generazioni, unito alla sofferenza per la constatazione che in questa nazione tanti bambini muoiono, sottoposti a lavori schiavizzanti nelle miniere.
Gli ultimi due richiami sono all’immagine del diamante come dono della terra e dunque l’impegno alla custodia del creato e alla protezione dell’ambiente, di cui Francesco è continuo paladino, come si evince in particolare nella sua enciclica Laudato Sii[3] e nell’ultimo lavoro “The Letter”[4] e, infine, quella del minerale di origine naturale con la durezza più elevata, presa a spunto per un invito alla resistenza pur nelle avversità, per costruire un futuro pacifico, armonioso e prospero.
Nell’omelia all’aeroporto Ndolo[5] il saluto pasquale del Risorto: «Pace a voi!» (Gv 20,19) più che un saluto, è una vera e propria consegna. Egli indica tre sorgenti di pace: il perdono, la comunità e la missione. Cristo mostra le piaghe, insegnandoci che il perdono nasce dalle ferite. Nasce quando le ferite subite non lasciano cicatrici d’odio, ma diventano il luogo in cui fare posto agli altri e accoglierne le debolezze. Allora le fragilità diventano opportunità e il perdono diventa la via della pace.
L’odio e la violenza non sono mai accettabili, mai giustificabili, mai tollerabili, a maggior ragione per chi è cristiano. L’odio genera solo altro odio e la violenza altra violenza.[6]
Riconciliarsi è generare il domani: è credere nel futuro anziché restare ancorati al passato; è scommettere sulla pace anziché rassegnarsi alla guerra; è evadere dalla prigione delle proprie ragioni per aprirsi agli altri e assaporare insieme la libertà.
Nell’incontro con i giovani e i catechisti molto interessante l’immagine della mano operosa e le sue cinque dita: preghiera, comunità, onestà, perdono, servizio [7].
Ritengo che uno dei discorsi più ricchi di spunti sia stato quello alle autorità, alla società civile e al corpo diplomatico a Giuba[8].
Innanzitutto egli sottolinea la condivisione di questo “Pellegrinaggio Ecumenico di Pace” con l’Arcivescovo di Canterbury e con il Moderatore dell’Assemblea generale della Chiesa di Scozia, «perché nella pace, come nella vita, si cammina insieme».
Cita Erodoto, che afferma come in guerra non sono più i figli a seppellire i padri, ma i padri a seppellire i figli (cfr Storie, I,87).
Poi si rifà all’incontro dei due fiumi che genera nel territorio sud sudanese il Nilo Bianco.
La limpida chiarezza delle acque scaturisce dunque dall’incontro. Questa è la via, fratelli e sorelle: rispettarsi, conoscersi, dialogare. Perché, se dietro ogni violenza ci sono rabbia e rancore, e dietro a ogni rabbia e rancore c’è la memoria non risanata di ferite, umiliazioni e torti, la direzione per uscire da ciò è solo quella dell’incontro, la cultura dell’incontro: accogliere gli altri come fratelli e dare loro spazio, anche sapendo fare dei passi indietro. Questo atteggiamento, essenziale per i processi di pace, è indispensabile anche per lo sviluppo coeso della società.
Altra interessante metafora è quella legata alla necessità di mantenere pulito il letto del fiume per prevenire le inondazioni. Egli qui indica la necessità per la vita sociale della lotta alla corruzione: giri iniqui di denaro, trame nascoste per arricchirsi, affari clientelari, mancanza di trasparenza.
Ma la metafora ancora più attuale è quella legata alla necessità di dotare il fiume di argini adeguati.
Anzitutto va arginato l’arrivo di armi che, nonostante i divieti, continuano a giungere in tanti Paesi della zona e anche in Sud Sudan: qui c’è bisogno di molte cose, ma non certo di ulteriori strumenti di morte… tutti i bambini di questo Continente e del mondo, hanno il diritto di crescere tenendo in mano quaderni e giocattoli, non strumenti di lavoro e armi.
Infine, l’esempio del fiume che non conosce confini, ci insegna che «per raggiungere uno sviluppo adeguato è essenziale, oggi più che mai, coltivare relazioni positive con altri Paesi, a cominciare da quelli circostanti.»
Nell’incontro con i vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i consacrati, le consacrate e i seminaristi a Giuba[9] Francesco richiama Il ritiro spirituale per le autorità civili ed ecclesiastiche del Sud Sudan presso Santa Marta l’11 aprile 2019, del quale tutti noi ricordiamo il segno incredibile che egli volle fare baciando i piedi dei presenti[10]
Nell’incontro con gli sfollati interni presso la “Freedom Hall” [11] Francesco, accogliendo le storie drammatiche e ricordando il dramma che registra la più grande crisi di rifugiati del Continente, con almeno quattro milioni di sfollati, con l’insicurezza alimentare e la malnutrizione che colpiscono i due terzi della popolazione invita i giovani a
una nuova narrativa dell’incontro, dove quanto si è patito non sia dimenticato, ma venga abitato dalla luce della fraternità; una narrativa che metta al centro non solo la tragicità della cronaca, ma il desiderio ardente della pace. Siate voi, giovani di etnie diverse, le prime pagine di questa narrativa! Se i conflitti, le violenze e gli odi hanno strappato via dai buoni ricordi le prime pagine di vita di questa Repubblica, siate voi a riscriverne la storia di pace!
Il viaggio apostolico si conclude con una significativa omelia durante la celebrazione eucaristica presso il Mausoleo “John Garang” (Giuba) domenica 5 febbraio[12].
Egli invita a riflettere su tre verbi: pregare, operare e camminare.
Gesù ci vuole «operatori di pace» (Mt 5,9), Ecco la pace di Dio: non solo una tregua tra i conflitti, ma una comunione fraterna, che viene dal congiungere, non dall’assorbire; dal perdonare, non dal sovrastare; dal riconciliarsi, non dall’imporsi. Talmente grande è il desiderio di pace del Cielo, che fu annunciato già al momento della nascita di Cristo: «sulla terra, pace agli uomini, che egli ama» (Lc 2,14)
Carissimi, chi si dice cristiano deve scegliere da che parte stare. Chi segue Cristo sceglie la pace, sempre; chi scatena guerra e violenza tradisce il Signore e rinnega il suo Vangelo. Lo stile che Gesù ci insegna è chiaro: amare tutti, in quanto tutti sono amati come figli dal Padre comune che è nei cieli. L’amore del cristiano non è solo per i vicini, ma per ognuno, perché ciascuno in Gesù è nostro prossimo, fratello e sorella, persino il nemico (cfr Mt 5,38-48)
…chi si professa credente non vi sia più spazio per una cultura basata sullo spirito di vendetta; perché il Vangelo non sia solo un bel discorso religioso, ma una profezia che diventa realtà nella storia. Operiamo per questo: lavoriamo per la pace tessendo e ricucendo, mai tagliando o strappando
nel nome di Gesù, delle sue Beatitudini, deponiamo le armi dell’odio e della vendetta per imbracciare la preghiera e la carità; superiamo quelle antipatie e avversioni che, nel tempo, sono diventate croniche e rischiano di contrapporre le tribù e le etnie; impariamo a mettere sulle ferite il sale del perdono, che brucia ma guarisce. E, anche se il cuore sanguina per i torti ricevuti, rinunciamo una volta per tutte a rispondere al male con il male, e staremo bene dentro; accogliamoci e amiamoci con sincerità e generosità, come fa Dio con noi. Custodiamo il bene che siamo, non lasciamoci corrompere dal male!
Alla speranza vorrei associare un’altra parola, la parola di questi giorni: pace. Con i miei Fratelli Justin e Iain, che ringrazio di cuore, siamo venuti qui e continueremo ad accompagnare i vostri passi, tutti e tre insieme, facendo tutto quello che possiamo perché siano passi di pace, passi verso la pace. Vorrei affidare questo cammino di tutto il popolo con noi tre, questo cammino della riconciliazione e della pace a un’altra donna. È la nostra tenerissima Madre Maria, la Regina della pace. Ci ha accompagnato con la sua presenza premurosa e silenziosa. A lei, che ora preghiamo, affidiamo la causa della pace in Sud Sudan e nell’intero Continente africano. Alla Madonna affidiamo anche la pace nel mondo, in particolare i numerosi Paesi che si trovano in guerra, come la martoriata Ucraina.
I drammi del continente africano, non hanno niente di meno drammatico e di meno ingiusto del dramma che sta vivendo il martoriato popolo ucraino (insieme con quelli delle popolazioni del Sud Sudan, dello Yemen, della Siria, della Palestina, del Myanmar e non solo, più volte ricordate nei mesi scorsi negli interventi di Francesco).
Ma la ricetta del Vescovo di Roma è un’altra. Non armi, odio, conflitto. Piuttosto “giustizia, perdono, concordia, riconciliazione”.
Vale per le etnie martoriate delle nazioni della Repubblica Democratica del Congo e del Sud Sudan e con esse per quelle dell’intero continente africano, idealmente abbracciato da questo “Pellegrinaggio Ecumenico di Pace” con l’Arcivescovo di Canterbury e con il Moderatore dell’Assemblea Generale della Chiesa di Scozia.
Ma vale anche per i popoli fratelli russo e ucraino.
Purché i responsabili delle parti inizino a parlare di negoziati, ormai interrotti dieci mesi fa.
Sabato 5 novembre sono state realizzate due manifestazioni nazionali di piazza, una a Milano e una a Roma. I mezzi di informazione hanno intervistato i politici che vi hanno partecipato, mossi da una linea opposta. A Milano si chiede di non interrompere l’invio delle armi a Kiev, linea sostenuta da Washington, dalla NATO, dalla UE e dal governo italiano. Manifestazione di piazza organizzata da Calenda e da Renzi. Improprio il confronto con la grande manifestazione di Roma, perché, pur se tra i partecipanti erano presenti anche diverse formazioni della sinistra italiana, a nessun politico è stata data la parola, i nomi delle compagini partitiche non risultano tra gli aderenti ed è stato chiesto alle stesse di non mostrare bandiere di partito. L’intera manifestazione si è definita e si è svolta come una manifestazione apartitica.https://www.vinonuovo.it/attualita/societa/molte-prospettive-per-un-unico-sguardo-di-pace/
La piattaforma “EUROPE FOR PEACE”, così chiamata perché gli organizzatori vogliono rivolgersi all’Europa oltre che alle istituzioni italiane, è stata coordinata come capofila dalla Rete Italiana Pace e Disarmo e da quella di Sbilanciamoci! e ad essa hanno aderito oltre 500 realtà associative italiane. Il corteo è partito da piazza della Repubblica e ha sfilato fin sotto il palco montato in piazza san Giovanni in Laterano, dove ci sono state testimonianze ed interventi, introdotti da Sergio Bassoli (Rete italiana Pace Disarmo) e Francesca Giuliani (Sbilanciamoci!).
La Giuliani ha letto l’appello che la piattaforma vuole presentare al Governo e al Parlamento per chiedere una trattativa di pace. Sono poi stati mostrati due video messaggi (entrambi sottotitolati) di Katrin (Katya) Cheshire (attivista del Movimento Pacifista Ucraino) che parlava in ucraino e Alexander Belik (Coordinatore del Movimento degli Obiettori di Coscienza Russi) che parlava in inglese. Don Tonio Dell’Olio ha letto la lettera rivolta dal presidente della CEI, il Cardinal Zuppi, ai manifestanti.
Dopo queste testimonianze sono iniziati gli interventi dei rappresentanti delle organizzazioni promotrici ed organizzatrici della manifestazione. Raffaella Bolini (ARCI), si è rivota ai giovani, invitandoli a stare “sempre dalla parte delle vittime… Non consentite che la guerra torni ad essere un valore… Imparate invece il diritto internazionale che dà forza a chi non ha potere… Per l’art. 51 della carta dell’ONU la comunità internazionale ha il dovere di ristabilire la pace: non di partecipare alla guerra, non di farla proseguire, non di armarla!”. Senza dimenticare le carovane di aiuti promosse dai volontari in Ucraina, portando aiuti alle popolazioni di Odessa, Mykolaiv e di altre città – come ha testimoniato Gianpiero Cofano di Stop the War Now.
Gianfranco Pagliarulo (ANPI) ricorda che per la prima volta si parla della guerra atomica come di una possibilità reale, e in Italia si cambiano e aggiornano le testate nucleari. Le “armi nucleari tattiche” sono più potenti di quelle che caddero in Giappone. Non scordiamoci che in Italia le 120 basi NATO non sono solo avamposti militari, sono bersagli. A tal proposito, per la campagna “Italia ripensaci” sulla proibizione delle armi nucleari, Lisa Clark legge un messaggio della hibakusha (sopravvissuta) di Hiroshima Setsuko Thurlow (che ha pronunciato il discorso di accettazione del Premio Nobel per la Pace 2017 assegnato alla International Campaign to Abolish Nuclear Weapons). E Rossella Miccio (Emergency – Associazione ONG Italiane) afferma che Gino Strada sarebbe sato molto contento nel vedere questa piazza: “metteremo fine alla guerra o l’umanità sarà spazzata via dalla guerra”. Dà la sua testimonianza anche Nicolas Marzolino (giovane consigliere Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra) vittima di un ordigno inesploso che evidenzia l’impatto devastante a lungo termine delle guerre e delle armi.
Giuseppe De Marzo (Rete dei Numeri Pari) ha ricordato che “l’antidoto alle guerre sono i diritti… Agire per la pace significa lottare per la giustizia sociale”. Don Ciotti (Libera), evocando don Tonino Bello a Sarajevo nel dicembre 1992, accenna ad un importante iniziativa, quella della Campagna “Sei per la pace, sei per mille”, e denuncia la logica competitiva del mercato economico come anticamera delle guerre: “tre sole multinazionali detengono il 63% del mercato delle sementi e il 75% degli agrofarmaci, mettendo milioni di contadini nella totale disperazione… Si muore di fame e la fame determina, con le altre 59 guerre, migrazioni epocali. 828 milioni sono coloro che soffrono la fame, 2 miliardi e 300 milioni vivono l’insicurezza alimentare. L’accesso all’acqua potabile è difficile per 4 miliardi di persone. Le mafie vivono, come l’industria delle armi, sui conflitti… La pace si costruisce innanzitutto nel pensiero, occorre pensare la pace e pensarla possibile. Si costruisce anche nel linguaggio. La pace si costruisce nella pratica. I veri pacifisti sono i costruttori di pace, che lavorano per realizzare i diritti, la giustizia, la libertà, la dignità per ogni essere umano”.
Perciò Andrea Riccardi (Comunità di Sant’Egidio) contesta il fatto che “con incredibile leggerezza si è parlato della ricerca di pace come velleitarismo, come buonismo, ancora peggio, come tradimento. Certo, la pace dovrebbe essere giusta, ma la pace è impura perché nasce dalla guerra… Le guerre non finiscono e i popoli si spengono. Vogliamo questo per il popolo ucraino? Bisogna investire di più sul dialogo e sulla diplomazia, coinvolgendo l’ONU e la UE”. E, in conclusione, Maurizio Landini (CGIL) ha gridato con forza che “dopo otto mesi, se non riparte la diplomazia, il rischio è quello della guerra nucleare… Bisogna superare ed eliminare le armi nucleari. Non c’è altra strada che quella di ridurre gli armamenti… Basta con la spesa per le armi, ma investiamo in sanità, cura delle persone, della scuola”.
Da questa piazza, dunque, è venuta una forte richiesta di cambiamento. Perciò è stato molto importante condividere questa manifestazione e farlo con oltre centomila persone presenti in piazza: un’“unità nelle diversità”. Ora bisogna continuare ad operare come “costruttori di pace” e spingere il governo italiano e le istituzioni europee a rivedere la linea finora seguita e iniziare a parlare di pace e a proporre passi concreti perché le parti possano sedersi al tavolo delle trattative e negoziare.
Lunedì 2 maggio, in diretta streaming dal teatro Ghione di Roma, Michele Santoro ha presentato una serata intitolata “La pace proibita”, con una serie di ospiti intervenuti per ribadire le ragioni della pace.
«Viviamo nell’era dell’“ARMICENE”: da quando l’uomo ha fatto la sua comparsa sulla Terra, ha iniziato ad armarsi con armi da taglio fino all’era dell’Atomica e sono le armi a determinare il suo destino, oggi come non mai». Con questo testo scritto e narrato dallo street artist Sirante si è aperta la serata condotta da Michele Santoro presso il teatro Ghione in Roma, dal titolo provocatorio ma reale: “La pace proibita”. Elio Germano, poi, ha ricordato nel suo intervento la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, rifacendosi alla testimonianza di Gino Strada, mentre Luciana Castellina, co-fondatrice de Il Manifesto, ha concluso il suo lungo monologo con l’affermazione: «il nostro primo obiettivo non è fermare Putin quanto realizzare la pace».
Perciò la riflessione di Sabina Guzzanti si è concentrata innanzitutto sulla dinamica di un’informazione dettata dalla propaganda. È vero che in ogni dibattito è sempre presente il rappresentante della posizione pacifista o di quella, comunque, critica verso l’operato dell’Occidente. Ciò però avviene per le esigenze dei talk show, che hanno bisogno di mostrare un interlocutore verso cui dibattere. È a questa logica che risponde tale presenza, più che a quella di chi voglia dar voce, indifferentemente, a visioni anche opposte e a proposte diverse per arrivare alla soluzione del conflitto. Coloro che gestiscono la regia della trasmissione sono gli scrittori della sceneggiatura della stessa. La libertà dell’informazione è dunque inficiata dal modo di gestirla e di indirizzarla. È vero, in Italia non si va in carcere per aver espresso la propria opinione, ma si può sempre rischiare di perdere il lavoro per questo motivo.
Per questo Fiorella Mannoia ha eseguito la canzone “Il disertore” di Boris Vian, scritta per protestare contro la gestione della Francia che passava dalla guerra in Indocina a quella in Algeria, ma che illustra bene le ragioni della popolazione che chiede al suo Presidente di non portarla a morire in guerra sui campi di battaglia. Tommaso Montanari (rettore dell’Università di Siena) ha ripreso il testo di Boris Vian nella traduzione, ancora più cruda, che ne ha fatto Luigi Tenco: i destinatari del grido della povera gente mandata a morire in guerra e vittima della guerra non sono chiamati come: “Signor Presidente” ma come “I Padroni della Terra”. Lo stesso Montanari, dopo aver recitato Trilussa e citato don Milani, si è allineato con gli appelli che Papa Francesco sta rivolgendo alle parti da due mesi per la cessazione di questo conflitto.
D’altronde sono reazioni comprensibili se pensiamo alle affermazioni lucide e chirurgiche del generale Fabio Mini, intervistato da Guido Ruotolo, sulle dinamiche del conflitto e dei protagonisti che lo muovono. In ogni caso, se in Italia l’80% degli italiani è contro questa guerra e l’80% dell’informazione è a favore di questa guerra o comunque la ritiene inevitabile, quindi è a favore della sua prosecuzione, c’è qualcosa che non va. Nel mondo ad oggi ci sono 138 guerre in via di svolgimento. Se il servizio informativo ce le mostrasse tutte raccoglierebbe lo stesso orrore, la stessa solidarietà con le vittime e la stessa indignazione che gli spettatori italiani esprimerebbero, chiedendo che sia trovata una soluzione per la pace.
Per questo Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, ribalta le accuse rivolte a chi chiede la pace. E alle domande – «Come lo fermate voi Putin? Con le preghiere? Con le manifestazioni? Con i cortei?» – risponde: «Perché? Voi come lo fermate? Con le armi? Con il braccio di ferro? Con la lotta “fino all’ultimo ucraino”?». E cita Gandhi, Martin Luther King, Mandela, Tonino Bello, Capitini, «tutta gente morta ammazzata o morta troppo presto».
Passando all’analisi storica, Fiammetta Cucurnia, vedova di Giulietto Chiesa, ha offerto una lettura degli eventi che hanno portato la Russia ai passaggi degli ultimi decenni: dalla politica di Gorbaciov per una nuova URSS che si relazionasse con le altre Nazioni (con una apertura impensabile prima di lui) alla promessa fatta dalla NATO di non entrare nei paesi limitrofi; dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica all’ingresso di Polonia, Ungheria, Bulgaria e Romania nella NATO; dal disastro provocato a causa del passaggio violento da un’economia socialista ad una economia di mercato, riducendo alla fame milioni di russi sotto Eltsin, al potere consegnato nelle mani dell’attuale presidente Putin. Per quanto riguarda l’Europa, la filosofa Donatella Di Cesare ha evidenziato che il concetto di Stato ha finito per diventare divisivo e dividente: l’Europa che volevamo e che vogliamo deve andare oltre gli Stati e oltre i nazionalismi, per realizzare una politica di coabitazione dei popoli.
Moni Ovadia, dal canto suo, si è rifatto ad una giornalista americana che si era chiesta come mai le forze armate ucraine, a partire dal battaglione Azov, fossero contraddistinte dai simboli e dalle svastiche naziste (e perché questo venga sminuito dai mezzi di informazione occidentali); come mai da decenni un paese NATO come la Turchia “macella” il popolo curdo e nessuno fa nulla. Una giornalista protesta: concentriamoci sul presente! Vauro Senesi, allora, ricorda il giornalista fotoreporter Andy Rocchelli, ucciso in Donbass nel 2014 da un colpo di mortaio che si pensa sia stato volutamente lanciato dall’esercito ucraino, ma che è rimasto impunito. Mentre Santoro ricorda gli eventi che portarono alla “strage di Odessa” (con l’uccisione di 42 ucraini russofoni) nel maggio 2014, video-documentata da Paul Moreira nel 2016, e si chiede come mai Macron e Merkel, che dovevano essere i garanti per la UE, non abbiano fatto sentire la loro voce a Kiev per questi fatti. Fino a due settimane prima dell’invasione russa dell’Ucraina, d’altronde, la stessa UE ha negato la possibile soluzione prevista dalla attuazione degli accordi di Minsk, considerandoli “carta straccia”.
I tre intermezzi con i dati del giornalista del Sole 24 Ore, Gianni Dragoni, ci hanno presentto però, in maniera concreta ed inequivocabile (grazie alle proiezioni Onu), le più profonde ragioni della pace: la guerra sta producendo in primo luogo una drammatica crisi alimentare per la crescita dei prezzi del grano e di tutti gli altri prodotti (a fine mese la Tunisia non avrà più farina!). La crisi economica, dovuta alla crescita dei prezzi, si tradurrà in una inevitabile recessione. Tutto questo porta aa una previsione drammatica: un miliardo e settecento milioni di persone rischiano di finire in povertà! Da notare, invece, che se il PIL degli USA e dell’Italia sono crollati, “tiene” il settore delle armi: Lockeed Martin + 20 miliardi $ (+22%), Raytheon +11,8 miliardi $ (+9%); la Leonardo + 2 miliardi € (+56%).
Se non sono questi dati, da soli, sufficienti a farci considerare che la guerra non è la soluzione ma la causa di mali più gravi e catastrofici, allora, è indubbio dirlo, dobbiamo convenire che abitiamo in un’era che non può non essere riconosciuta come l’ARMICENE.
Mettiamo da parte la fede religiosa e limitiamoci allo spessore morale.
Per tutti coloro che ritengono che Gesù di Nazareth sia un personaggio il cui messaggio non si ferma ai soli credenti ma arriva a chiunque voglia coglierne la proposta, l’esempio, l’appello.
La domanda oggi diretta è: il soldato russo omicida e stupratore ha una madre come ce l’abbiamo io e tu? Ha una compagna, dei figli, una casa, una famiglia dalla quale tornare come la nostra?
Di più: possiamo dire che egli è un “figlio di Dio” come me e te?
Che io sia un credente o meno, se le mie risposte sono positive, allora devo concludere che egli non è diverso da me.
La portata “rivoluzionaria” delle parole del capitolo 6 del vangelo di Luca sono quelle che mi invitano a fare del mio nemico l’oggetto delle mie preghiere; quelle che mi invitano all’impegno di perdonarlo (perché “non sa quello che fa!”, cfr. Lc 23,34); quelle che mi chiedono di arrivare ad AMARLO!
Ma come è possibile amare chi fa del male non tanto a me quanto ai miei cari[1]?
È chiaro che un amore simile è umanamente impossibile.
Ma se siamo disponibili a percorrere questa via, chiedendo che la forza che umanamente non abbiamo ci arrivi con un aiuto “ulteriore”, quale quello che solo l’esperienza del limite ci può consegnare, vedremo cose che non avremo mai immaginato.
Per poter varcare questa soglia e passare dall’esperienza dell’ombra a quella di una nuova luce, promessa dalla speranza che abita in ognuno di noi, è necessario cogliere l’invito di Luca 6 in tutti i suoi passaggi.
Io DEVO convincermi che accogliere questo invito è vitale. Io POSSO mettere in pratica quello che umanamente pare ben altro che una “umana” rivoluzione. Io devo VOLERE che tale rivoluzione possa compiersi, iniziando a porre un seme di cui non vedo ancora i frutti ma la cui promessa potrà portare a farli sbocciare, prima di quanto possa immaginare.
Il pregare, il perdonare, l’amare il mio nemico questo sì, lo disarmerebbe, lo sconfiggerebbe, lo convertirebbe. Come non possono fare le armi, la violenza, la guerra, le vendette, gli omicidi.
E se questa azione fosse non solo dei singoli, ma dei popoli e delle nazioni, vedremo una “rivoluzione” come non abbiamo mai visto sulla faccia della terra.
Siamo sempre in tempo per iniziare a compierla. Oggi più che mai.