In ogni epoca e ad ogni latitudine, non è mancato da parte di grandi figure il ricorso ai “potenti”, ai “grandi”, ai “ricchi” perché anche qualcosa dei loro contributi potesse giovare al sostegno delle opere caritative e sociali realizzate dai loro “fondatori”.
Il 14 giugno 2024, per la prima volta, viene invitato a un vertice dei G7 un Papa.
C’è chi si chiede se tale iniziativa giovi al Vescovo di Roma o se invece possa essere letta come un conseguente endorsment, pur non espresso, nei confronti del massimo vertice delle potenze Occidentali.
Nei giorni antecedenti e in quelli del vertice si sono tenute delle contro manifestazioni da parte di varie realtà associative afferenti al mondo dell’associazionismo sociale e pacifista denominate “Controforum G7” per controbattere e contestare i lavori dei “Grandi” e richiamare le istanze alternative in risposta ai problemi globali quali clima, immigrazioni, gestione dei conflitti bellici.
Indubbiamente la visita del Vescovo di Roma fornisce un ritorno di immagine positivo per i leader del G7.
Sembra davvero interessante la circostanza che ha portato Francesco a pubblicare il giorno stesso dell’apertura del Vertice il messaggio destinato alla celebrazione, nel prossimo novembre, di uno degli eventi voluti da questo Papa e da lui “strategicamente” offerti non solo ai fedeli e ai vertici dell’istituzione cattolica, ma a tutti coloro che lo ascoltano: la Giornata Mondiale dei poveri.
Francesco, dunque, nel suo giorno vissuto nella struttura di Torre Egnazia ha sicuramente colto l’occasione per ribadire di persona ai leader del G7 e ad altri presidenti invitati al vertice faccia a faccia nei dieci incontri previsti nel suo fitto programma quello che chiede da anni durante gli Angelus e in tutto il suo magistero in modo costante: che si rinunci alla logica delle armi e che ci si adoperi per risolvere tutti i conflitti armati, non solo quelli che opprimono Ucraina e Terra Santa.
Doveroso richiamare le motivazioni espresse dalla Premier in merito alla scelta per il vertice odierno della location in Puglia: una terra vocata da sempre ad essere un “ponte” tra Oriente ed Occidente, una terra di accoglienza e di integrazione, in cui il simbolo dell’albero dell’ulivo si propone come un richiamo alla ricerca e alla costruzione della pace.
Ci preme a tal riguardo ricordare il messaggio dei vescovi di questa regione ormai di trenta anni fa, proposto e lanciato grazie ad uno dei suoi figli più amati, quel don Tonino Bello che fu anima della marcia nonviolenta dei 500 a Sarajevo nel 1992: la Puglia deve essere una “arca di pace e non un arco di guerra”.
Il discorso di Francesco, dopo un giro di saluti cordiali e a volte calorosi con tutti i leader presenti al vertice, tratta una riflessione precisa e mirata sull’argomento dell’intelligenza artificiale. Questa viene colta nelle sue enormi potenzialità; ma si comprende come un uso sbagliato della stessa potrebbe portare a conseguenze deleterie; tra le tante, viene denunciato l’utilizzo della AI nell’industria bellica, che consegna alle macchine il potere di decisione sulla vita umana, sopressa da sistemi di armi sofisticate guidate dalla AI.
A tal riguardo, è propria dell’essere umano la capacità di discernere e di compiere delle scelte, pur se a volte in maniera sofferta; è importante che egli non rinunci a tale peculiarità delegando la scelta a quella operata secondo una serie di algoritmi dalle AI. Anche in questo nuovo campo della tecnica, la questione etica ha un ruolo imprescindibile, e Francesco cita una iniziativa da lui promossa anche con l’introduzione di un neologismo: “algoretica”.
Francesco termina il suo discorso con un apprezzamento e un invito preciso a coloro che si occupano della politica, citando Paolo VI che la definì “la forma più alta della carità”. I leader del G7 e gli altri capi di stato invitati al vertice presenti al suo discorso, sono invitati caldamente come responsabili, come gestori della politica, ad un uso etico e chiaramente orientato al bene comune dell’intelligenza artificiale.
La giornata di Francesco, lungi dal fermarsi al suo discorso sull’intelligenza artificiale e sui risvolti etici ai quali essa rimanda, deve essere considerata a nostro avviso come evangelicamente collegata col messaggio da lui pubblicato il 13 giugno. I poveri le cui esistenze e la cui dignità siamo invitati a promuovere, come ci viene chiesto (“voi 7, noi 8 miliardi!”: è uno degli slogan provocatori del “Controforum G7”) non sono più dei semplici “fratelli e sorelle sfortunati” cui provvedere con mirate iniziative. Sono in realtà il frutto, maturato in maniera sempre più drammaticamente esponenziale, delle scelte scellerate che i “Grandi della Terra” (non solo i G7…) continuano a produrre, sordi al grido delle genti: se le risorse sono destinate ai produttori di armi (e di morte), dovranno necessariamente essere negate al cibo, alla sanità, all’istruzione.
Dichiarazione del procuratore della Corte Penale Internazionale Karim A.A. Khan KC: Richieste di mandato d’arresto nella situazione nello Stato di Palestina (1)
Dichiarazione: 20 maggio 2024
Oggi presento richieste di mandato d’arresto davanti alla Camera preliminare I della Corte penale internazionale nella situazione nello Stato di Palestina.
Il procuratore della CPI Khan sulla richiesta di mandati di arresto nella situazione nello Stato di Palestina
Yahya Sinwar, Mohammed Diab Ibrahim Al-Masri (Deif), Ismail Haniyeh.
Sulla base delle prove raccolte ed esaminate dal mio Ufficio, ho fondati motivi per ritenere che Yahya SINWAR (capo del Movimento di Resistenza Islamica (“Hamas”) nella Striscia di Gaza), Mohammed Diab Ibrahim AL-MASRI, più comunemente noto come DEIF (comandante in capo dell’ala militare di Hamas, conosciuta come Brigate Al-Qassam) e Ismail HANIYEH (capo dell’ufficio politico di Hamas) sono responsabili penalmente dei seguenti crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi sul territorio di Israele e Stato di Palestina (nella Striscia di Gaza) almeno dal 7 ottobre 2023:
Lo sterminio come crimine contro l’umanità, contrario all’articolo 7, comma 1, lettera b), dello Statuto di Roma;
Omicidio come crimine contro l’umanità, contrario all’articolo 7(1)(a), e come crimine di guerra, contrario all’articolo 8(2)(c)(i);
La presa di ostaggi costituisce un crimine di guerra, contrario all’articolo 8(2)(c)(iii);
Stupro e altri atti di violenza sessuale come crimini contro l’umanità, contrari all’articolo 7, paragrafo 1, lettera g), e anche come crimini di guerra ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 2, lettera e), punto vi) nel contesto della prigionia;
Tortura come crimine contro l’umanità, contrario all’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), e anche come crimine di guerra, contrario all’articolo 8, paragrafo 2, lettera c), punto i), nel contesto della prigionia;
Altri atti disumani costituiscono un crimine contro l’umanità, contrari all’articolo 7, paragrafo 1, lettera k), nel contesto della prigionia;
Trattamento crudele come crimine di guerra contrario all’articolo 8(2)(c)(i), nel contesto della prigionia;
Oltraggi alla dignità personale come crimine di guerra, contrari all’articolo 8(2)(c)(ii), nel contesto della prigionia.
Il mio ufficio sostiene che i crimini di guerra presunti in queste domande sono stati commessi nel contesto di un conflitto armato internazionale tra Israele e Palestina e di un conflitto armato non internazionale tra Israele e Hamas che si svolgeva parallelamente. Riteniamo che i crimini contro l’umanità accusati facessero parte di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile di Israele da parte di Hamas e di altri gruppi armati in conformità con le politiche organizzative. Alcuni di questi crimini, secondo la nostra valutazione, continuano ancora oggi.
Il mio ufficio sostiene che vi sono fondati motivi per ritenere che SINWAR, DEIF e HANIYEH siano penalmente responsabili dell’uccisione di centinaia di civili israeliani negli attacchi perpetrati da Hamas (in particolare dalla sua ala militare, le Brigate al-Qassam) e da altri gruppi armati il 7 Ottobre 2023 e la presa di almeno 245 ostaggi. Nell’ambito delle nostre indagini, il mio Ufficio ha intervistato vittime e sopravvissuti, inclusi ex ostaggi e testimoni oculari provenienti da sei principali luoghi di attacco: Kfar Aza; Holit; la location del Supernova Music Festival; Be’eri; Nir Oz; e Nahal Oz. L’indagine si basa anche su prove quali filmati CCTV, materiale audio, fotografico e video autenticati, dichiarazioni di membri di Hamas compresi i presunti autori sopra menzionati e prove di esperti.
È opinione del mio Ufficio che questi individui abbiano pianificato e istigato la commissione di crimini il 7 ottobre 2023 e, attraverso le loro azioni, comprese le visite personali agli ostaggi subito dopo il rapimento, abbiano riconosciuto la loro responsabilità per tali crimini. Riteniamo che questi crimini non avrebbero potuto essere commessi senza le loro azioni. Essi sono accusati sia come esecutori sia come mandanti ai sensi degli articoli 25 e 28 dello Statuto di Roma.
Durante la mia visita al Kibbutz Be’eri e al Kibbutz Kfar Aza, nonché al sito del Supernova Music Festival a Re’im, ho visto le scene devastanti di questi attacchi e il profondo impatto dei crimini inconcepibili accusati nelle domande depositate. Parlando con i sopravvissuti, ho sentito come l’amore all’interno di una famiglia, i legami più profondi tra un genitore e un figlio, fossero distorti per infliggere un dolore insondabile attraverso una crudeltà calcolata e un’estrema insensibilità. Questi atti richiedono responsabilità.
Il mio ufficio sostiene inoltre che ci sono ragionevoli motivi per ritenere che gli ostaggi prelevati da Israele siano stati tenuti in condizioni disumane e che alcuni siano stati soggetti a violenza sessuale, compreso lo stupro, mentre erano tenuti in cattività. Siamo giunti a questa conclusione sulla base di cartelle cliniche, prove video e documentali contemporanee e interviste con vittime e sopravvissuti. Il mio ufficio continua inoltre a indagare sulle denunce di violenza sessuale commesse il 7 ottobre.
Desidero esprimere la mia gratitudine ai sopravvissuti e alle famiglie delle vittime degli attacchi del 7 ottobre, per il coraggio dimostrato nel farsi avanti per fornire i loro racconti al mio Ufficio. Rimaniamo concentrati sull’approfondimento ulteriore delle nostre indagini su tutti i crimini commessi nell’ambito di questi attacchi e continueremo a lavorare con tutti i partner per garantire che venga fatta giustizia.
Ribadisco ancora una volta il mio appello per il rilascio immediato di tutti gli ostaggi prelevati da Israele e per il loro ritorno sicuro alle loro famiglie. Questo è un requisito fondamentale del diritto internazionale umanitario.
Benjamin Netanyahu, Yoav Gallant
Sulla base delle prove raccolte ed esaminate dal mio Ufficio, ho ragionevoli motivi per ritenere che Benjamin NETANYAHU, il Primo Ministro israeliano, e Yoav GALLANT, il Ministro della Difesa israeliano, siano responsabili penalmente dei seguenti crimini di guerra e crimini contro l’umanità impegnata sul territorio dello Stato di Palestina (nella Striscia di Gaza) almeno dall’8 ottobre 2023:
La fame dei civili come metodo di guerra come crimine di guerra contrario all’articolo 8(2)(b)(xxv) dello Statuto;
Causare intenzionalmente grandi sofferenze o gravi lesioni al corpo o alla salute contrari all’articolo 8(2)(a)(iii), o trattamenti crudeli come crimine di guerra contrario all’articolo 8(2)(c)(i);
Omicidio intenzionale contrario all’articolo 8(2)(a)(i), o omicidio come crimine di guerra contrario all’articolo 8(2)(c)(i);
Dirigere intenzionalmente attacchi contro una popolazione civile come crimine di guerra contrario agli articoli 8(2)(b)(i), o 8(2)(e)(i);
Sterminio e/o omicidio contrario agli articoli 7(1)(b) e 7(1)(a), anche nel contesto di morti per fame, come crimine contro l’umanità;
Persecuzione come crimine contro l’umanità contrario all’articolo 7, paragrafo 1, lettera h);
Altri atti disumani costituiscono crimini contro l’umanità contrari all’articolo 7, paragrafo 1, lettera k).
Il mio ufficio sostiene che i crimini di guerra presunti in queste domande sono stati commessi nel contesto di un conflitto armato internazionale tra Israele e Palestina e di un conflitto armato non internazionale tra Israele e Hamas (insieme ad altri gruppi armati palestinesi) che si svolgeva in parallelo. Riteniamo che i crimini contro l’umanità accusati siano stati commessi come parte di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile palestinese in conformità alla politica statale. Questi crimini, secondo la nostra valutazione, continuano ancora oggi.
Il mio ufficio sostiene che le prove che abbiamo raccolto, comprese interviste con sopravvissuti e testimoni oculari, video autenticati, foto e materiale audio, immagini satellitari e dichiarazioni del presunto gruppo colpevole, dimostrano che Israele ha intenzionalmente e sistematicamente privato la popolazione civile in tutte le parti del Gaza di oggetti indispensabili alla sopravvivenza umana.
Ciò è avvenuto attraverso l’imposizione di un assedio totale su Gaza che ha comportato la chiusura completa dei tre valichi di frontiera, Rafah, Kerem Shalom ed Erez, dall’8 ottobre 2023 per periodi prolungati e poi limitando arbitrariamente il trasferimento di forniture essenziali – inclusi cibo e medicine – attraverso i valichi di frontiera dopo la loro riapertura. L’assedio comprendeva anche il taglio delle condutture idriche transfrontaliere da Israele a Gaza – la principale fonte di acqua pulita degli abitanti di Gaza – per un periodo prolungato a partire dal 9 ottobre 2023, e l’interruzione e l’impedimento delle forniture di elettricità almeno dall’8 ottobre 2023 fino ad oggi. Ciò è avvenuto insieme ad altri attacchi contro i civili, compresi quelli in coda per il cibo; ostacolo alla consegna degli aiuti da parte delle agenzie umanitarie; e attacchi e uccisioni di operatori umanitari, che hanno costretto molte agenzie a cessare o limitare le loro operazioni a Gaza.
Il mio ufficio sostiene che questi atti sono stati commessi come parte di un piano comune volto a utilizzare la fame come metodo di guerra e altri atti di violenza contro la popolazione civile di Gaza come mezzo per (i) eliminare Hamas; (ii) garantire il ritorno degli ostaggi che Hamas ha rapito e (iii) punire collettivamente la popolazione civile di Gaza, che percepiscono come una minaccia per Israele.
Gli effetti dell’uso della fame come metodo di guerra, insieme ad altri attacchi e punizioni collettive contro la popolazione civile di Gaza, sono acuti, visibili e ampiamente conosciuti, e sono stati confermati da numerosi testimoni intervistati dal mio Ufficio, compresi i medici locali e internazionali. Tra questi figurano malnutrizione, disidratazione, profonda sofferenza e un numero crescente di morti tra la popolazione palestinese, tra cui neonati, altri bambini e donne.
La carestia è presente in alcune zone di Gaza ed è imminente in altre. Come ha avvertito il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres più di due mesi fa, “1,1 milioni di persone a Gaza stanno affrontando una fame catastrofica – il numero più alto mai registrato – ovunque e in qualsiasi momento” a causa di un “disastro interamente causato dall’uomo”. Oggi il mio Ufficio cerca di incriminare due dei maggiori responsabili, NETANYAHU e GALLANT, sia come co-perpetratori che come superiori ai sensi degli articoli 25 e 28 dello Statuto di Roma.
Israele, come tutti gli Stati, ha il diritto di agire per difendere la propria popolazione. Tale diritto, tuttavia, non esonera Israele o qualsiasi Stato dall’obbligo di rispettare il diritto internazionale umanitario. Nonostante gli obiettivi militari che possono avere, i mezzi che Israele ha scelto per attuarli a Gaza – vale a dire causare intenzionalmente morte, fame, grandi sofferenze e gravi lesioni fisiche o alla salute della popolazione civile – sono criminali.
Dall’anno scorso, a Ramallah, al Cairo, in Israele e a Rafah, ho costantemente sottolineato che il diritto internazionale umanitario richiede che Israele intraprenda azioni urgenti per consentire immediatamente l’accesso su vasta scala agli aiuti umanitari a Gaza. Ho sottolineato in particolare che la fame come metodo di guerra e il rifiuto degli aiuti umanitari costituiscono reati previsti dallo Statuto di Roma. Non avrei potuto essere più chiaro.
Come ho più volte sottolineato anche nelle mie dichiarazioni pubbliche, chi non rispetta la legge non dovrebbe presentare reclamo successivamente quando il mio Ufficio interviene. Quel giorno è arrivato.
Nel presentare queste richieste di mandato d’arresto, il mio Ufficio agisce in conformità al mandato conferitogli dallo Statuto di Roma. Il 5 febbraio 2021, la Camera preliminare I ha deciso che la Corte può esercitare la sua giurisdizione penale sulla situazione nello Stato di Palestina e che l’ambito territoriale di tale giurisdizione si estende a Gaza e alla Cisgiordania, compresa Gerusalemme est. Questo mandato è in corso e prevede l’escalation delle ostilità e della violenza dal 7 ottobre 2023. Il mio Ufficio ha giurisdizione anche sui crimini commessi da cittadini di Stati Parte e da cittadini di non Stati Parte sul territorio di uno Stato Parte.
Le dichiarazioni di oggi sono il risultato di un’indagine indipendente e imparziale condotta dal mio Ufficio. Guidato dal nostro obbligo di indagare allo stesso modo sulle prove incriminanti e a discarico, il mio Ufficio ha lavorato scrupolosamente per separare le accuse dai fatti e per presentare con sobrietà conclusioni basate sulle prove alla Camera preliminare.
Come ulteriore salvaguardia, sono grato per il consiglio di un gruppo di esperti di diritto internazionale, un gruppo imparziale che ho convocato per supportare la revisione delle prove e l’analisi legale in relazione a queste richieste di mandato d’arresto. Il Gruppo è composto da esperti di immenso prestigio nel diritto internazionale umanitario e nel diritto penale internazionale, tra cui Sir Adrian Fulford PC, ex Lord giudice d’appello ed ex giudice della Corte penale internazionale; la Baronessa Helena Kennedy KC, Presidente dell’Istituto per i Diritti Umani dell’International Bar Association; Elizabeth Wilmshurst CMG KC, ex vice consigliere legale presso il Foreign and Commonwealth Office del Regno Unito; Danny Friedman KC; e due dei miei consiglieri speciali: Amal Clooney e Sua Eccellenza il giudice Theodor Meron CMG. Questa analisi di esperti indipendenti ha supportato e rafforzato le domande presentate oggi dal mio Ufficio. Sono stato grato anche per il contributo di molti altri miei consiglieri speciali a questa revisione, in particolare Adama Dieng e il professor Kevin Jon Heller.
Oggi sottolineiamo ancora una volta che il diritto internazionale e le leggi sui conflitti armati si applicano a tutti. Nessun soldato di fanteria, nessun comandante, nessun leader civile – nessuno – può agire impunemente. Niente può giustificare la privazione volontaria di esseri umani, tra cui tante donne e bambini, dei beni di prima necessità necessari alla vita. Niente può giustificare la presa di ostaggi o l’attacco contro i civili.
I giudici indipendenti della Corte penale internazionale sono gli unici arbitri riguardo al rispetto degli standard necessari per l’emissione di mandati di arresto. Se dovessero accogliere le mie richieste ed emettere i mandati richiesti, lavorerò a stretto contatto con il cancelliere in tutti gli sforzi per arrestare le persone nominate. Conto su tutti gli Stati parti dello Statuto di Roma affinché prendano queste richieste e la conseguente decisione giudiziaria con la stessa serietà che hanno dimostrato in altre situazioni, adempiendo ai loro obblighi ai sensi dello Statuto. Sono inoltre pronto a collaborare con i non-Stati parti nella nostra comune ricerca di responsabilità.
È fondamentale in questo momento che al mio Ufficio e a tutte le parti della Corte, compresi i suoi giudici indipendenti, sia consentito di svolgere il proprio lavoro con piena indipendenza e imparzialità. Insisto affinché tutti i tentativi di ostacolare, intimidire o influenzare indebitamente i funzionari di questa Corte debbano cessare immediatamente. Il mio Ufficio non esiterà ad agire ai sensi dell’articolo 70 dello Statuto di Roma se tale condotta dovesse continuare.
Rimango profondamente preoccupato per le continue accuse e le prove emergenti di crimini internazionali avvenuti in Israele, Gaza e in Cisgiordania. La nostra indagine continua. Il mio ufficio sta portando avanti ulteriori linee di indagine molteplici e interconnesse, tra cui quelle relative alle denunce di violenza sessuale durante gli attacchi del 7 ottobre e in relazione ai bombardamenti su vasta scala che hanno causato e continuano a causare così tante morti, feriti e sofferenze tra i civili in Gaza. Incoraggio coloro che dispongono di informazioni pertinenti a contattare il mio ufficio e a inviare informazioni tramite OTP Link.
Il mio Ufficio non esiterà a presentare ulteriori richieste di mandati di arresto se e quando riterremo che sia stata raggiunta la soglia di una prospettiva realistica di condanna. Rinnovo il mio appello a tutte le parti coinvolte nell’attuale conflitto affinché rispettino subito la legge.
Desidero inoltre sottolineare che il principio di complementarità, che è al centro dello Statuto di Roma, continuerà a essere valutato dal mio Ufficio mentre agiamo in relazione ai presunti crimini e ai presunti autori sopra elencati e andiamo avanti con altre linee di indagine. La complementarità, tuttavia, richiede un rinvio alle autorità nazionali solo quando queste si impegnano in processi giudiziari indipendenti e imparziali che non proteggano i sospettati e non siano una farsa. Richiede indagini approfondite a tutti i livelli che affrontino le politiche e le azioni alla base di queste applicazioni.
Cerchiamo oggi di essere chiari su una questione fondamentale: se non dimostriamo la nostra volontà di applicare la legge in modo equo, se viene vista come applicata in modo selettivo, creeremo le condizioni per il suo crollo. In tal modo, allenteremo i restanti legami che ci tengono uniti, le connessioni stabilizzanti tra tutte le comunità e gli individui, la rete di sicurezza a cui tutte le vittime guardano nei momenti di sofferenza. Questo è il vero rischio che corriamo in questo momento.
Ora più che mai dobbiamo dimostrare collettivamente che il diritto internazionale umanitario, la base fondamentale della condotta umana durante i conflitti, si applica a tutti gli individui e si applica equamente nelle situazioni affrontate dal mio Ufficio e dalla Corte. Dimostreremo così, concretamente, che la vita di tutti gli esseri umani ha lo stesso valore.
Fonte: Ufficio del Procuratore | Contatto: OTPNewsDesk@icc-cpi.intI
(1) Traduzione dal sito https://www.icc-cpi.int/news/statement-icc-prosecutor-karim-aa-khan-kc-applications-arrest-warrants-situation-state
La storia di Anna non è un romanzo. Ma è molto di più.
È un racconto di vita vissuta che diventa “nostro”.
Entrando con Anna in quei luoghi dove ha vissuto il suo travolgente amore prima e il suo drammatico incubo poi, ciascuno di noi “vede” i suoi protagonisti, percepisce i loro stati d’animo, comprende le loro tensioni, vive il dramma della loro mancanza di comunicazione, rimane col fiato sospeso fino all’epilogo della vicenda.
Al termine di questo viaggio, ma anche durante il suo percorso, ne siamo certi, quasi ciascuno di noi sarà portato da una solidarietà profonda con la nostra protagonista a schierarsi con lei, a mettersi nei suoi panni, a condividere i passaggi del suo “incubo”, a dire in maniera solidale: “Sono con Anna. Anna sono io!”.
Quale messaggio e quali indicazioni possono arrivarci da questo racconto nel quale ci siamo immersi?
Partiamo dalle cronache.
Le statistiche ci consegnano il dramma di una vittima per femminicidio ogni tre giorni in Italia negli ultimi anni.
Il fenomeno è certamente allarmante e richiede una attenta riflessione perché ne vengano messe a fuoco le cause.
Gli studiosi ci dicono che a volte la scintilla della violenza che porta all’omicidio arriva perché la donna non intuisce la deriva che porta l’uomo al gesto estremo, sfociato dall’esasperazione e dalla disperazione mosse dalla consapevolezza di una relazione ormai negata, con una separazione minacciata o anche già realizzata.
Naturalmente il fenomeno non coinvolge solo le vittime del femminicidio ma si estende a tutte quelle violenze, fisiche e psicologiche, subite fra le mura domestiche.
Potremmo richiamare il racconto della “rana bollita” di Noam Chomsky.
Allo spettatore sembra incredibile come sia potuto avvenire che Anna non si sia “svegliata” prima, come non abbia potuto rendersi conto della trappola nella quale si era introdotta, come non abbia potuto reagire in maniera più subitanea per liberarsi in tempo, evitando la spirale delle violenze.
Nel far questo, noi ci poniamo come si pone lo spettatore davanti allo schermo televisivo seguendo un qualche programma “dall’esterno” e individuando le “soluzioni” protetto dalla virtuale e reale distanza e dallo scudo che questa posizione ci consente.
Per comprendere più a fondo la psicologia di Anna e Manlioe le loro conseguenti azioni e reazioni, non dobbiamo fermarci solo a un personale coinvolgimento emotivo.
Dobbiamo fare la fatica di “entrare nel set” e far nostre le dinamiche dei protagonisti.
Facciamo dunque un duplice passaggio. Iniziamo con una analisi esterna, quella legata agli studi su casi simili presi in esame.
Successivamente, entriamo nel “set” e immedesimiamoci nei panni dei protagonisti e delle loro dinamiche.
Gli studiosi ci parlano delle fasi cicliche della violenza:
1) Costruzione della tensione
2) Maltrattamento
3) Luna di miele
Nella prima fase la costruzione della tensione non è necessariamente realizzata in modo violento ma mediante comportamenti che si dimostrano ostili. Il protagonista del ciclo della violenza in questa fase utilizza come mezzi il controllo del partner, il suo isolamento, lo sottopone a continue umiliazioni, minaccia di usare la violenza fisica.
Dimostra nervosismo e ha difficoltà a gestire la rabbia.
La risposta a questi input che riceve dal partner sono quelle di venir assecondato, perché si cerca di risolvere la tensione in questo modo.
Alla prima fase segue quella delmaltrattamento con l’esplosione della violenza, fisica o psicologica, ma anche economica e sessuale. È una violenza graduale, che inizia con spintoni o schiaffi e che può degenerare anche nella violenza sessuale e nel femminicidio.
La terza fase viene denominata “luna di miele”. L’autore delle violenze si scusa per l’accaduto e cerca di ripararvi con varie azioni, inclusa la minaccia di suicidarsi. In questa fase le azioni riparatorie sono accompagnate dallo scarico della responsabilità. Le violenze sono motivate da tensioni dovute a problematiche sul lavoro, a qualche difficoltà economica, infine accusando comportamenti sbagliati adottati dal partner.
Queste tre fasi si susseguono ripresentandosi secondo questo ciclo. La fase del pentimento si abbrevia man mano che le fasi si ripetono e le stesse fasi si susseguono sempre più velocemente, anche l’intensità e le forme di violenza possono cambiare.
Questa teoria del ciclo della violenza è stata proposta per la prima volta nel 1979 dalla psicologa Lenore Walker.
Oltre alla teoria del ciclo della violenza, la Walker sviluppò una ulteriore teoria, quella della “impotenza appresa”.
La studiosa prende spunto dal paradigma di Seligman riferito agli animali che vivono in cattività e che entravano in depressione non reagendo difronte allo stimolo delle scariche elettriche che subivano qualsiasi comportamento operassero. Questo li portava a sviluppare un comportamento passivo e apatico, al punto di non fuggire neanche quando la gabbia veniva lasciata aperta fino a opporre resistenza verso il tentativo dello studioso che prova a spingerli fuori della stessa.
Queste dinamiche sono in egual modo, secondo la teoria della “impotenza appresa”, drammaticamente assunte dalle donne vittime di violenza all’interno di una relazione di coppia che, sotto abusi ripetuti, minacce non solo di violenza ma persino di morte, arrivano ad arrendersi, isolandosi completamente e reagendo in maniera passiva e apatica.
Dopo uno sguardo su questi studi, mettiamoci nei panni dei protagonisti del nostro romanzo.
Manlio vive tutte le fasi del ciclo della violenza. Giustifica il suo operato, colpevolizza la sua vittima.
In realtà, egli non è un partner “sano”, perché già segnato dalla malattia psichiatrica, nascosta e negata, con lucidità tenuta fuori dalla sua nuova storia, memore di esperienze affettive già fallite in precedenza.
Qui la sua famiglia d’origine si fa complice, con l’unica, improbabile, giustificazione di una poco ragionevole speranza che questa nuova storia di coppia potesse avere migliore soluzione.
Detto legalmente, qui siamo di fronte alle condizioni di un matrimonio nullo fin dalle sue origini.
La “particolarità” della situazione di Manlio non deve però impedirci di accostare le sue dinamiche a tanti altri protagonisti delle violenze domestiche.
Queste, mai giustificabili, nascono nel modo in cui il “ciclo delle violenze” ben descrive, e accomunano senz’altro personaggi “malati” come il nostro protagonista ad altri che, clinicamente, sarebbero stati ritenuti sani.
Qui si potrebbe aprire una interessante riflessione su quanto le dinamiche di comportamenti ritenuti patologici o rilevanti sotto una osservazione psichiatrica appartengano a entrambi i tipi di soggetti; questo pone la domanda: chi reagisce facendosi trasportare dal demone della violenza è ancora definibile come “lucido e sano di mente” o viceversa dovrebbe essere posto sotto il supporto competente e necessario di psicologi e psichiatri?
Il caso di Anna è molto più complesso.
Anche lei subisce tutto il ventaglio delle fasi del ciclo della violenza, come visto.
Probabilmente la nostra protagonista è arrivata sulla soglia stessa della situazione della “impotenza appresa” ma è riuscita ad essere reattiva quanto le occorreva per uscire dall’incubo che l’aveva travolta.
Ciò che “tiene legata” Anna al suo aguzzino sono i suoi meccanismi di negazione dell’evidenza delle violenze mediante i tentativi di trovarne una qualche giustificazione.
Tutto questo trova fondamento nel primo capitolo di questa storia di coppia, quello della favola, quella del sogno e al conseguente “salto nel vuoto” che ella è arrivata a fare.
Anna “ha investito” “ha scommesso” su questo amore in maniera radicale, chiedendo alla sua famiglia di origine di aderire al suo progetto, ragionevolmente azzardato, facendo una scelta pubblica davanti a tutti e tutto.
Ora l’opzione di “tornare indietro” si dimostra dolorosamente fallimentare.
Questo è il motivo che la porta a cercare opzioni diverse.
La sua opzione è dunque quella di tacere e nascondere l’accaduto, davanti alla sua famiglia di origine e davanti a quella del marito, cercando di gestire gli eventi “navigando a vista”.
Cerca dunque di assecondare e non contrariare Manlio in ogni modo.
Il silenzio e il tentativo di celare le violenze all’esterno si accompagnano con sentimenti di vergogna, finanche sensi di colpa, nella spirale psicologica di chi giunge a negare e giustificare le stesse violenze, addossandosi una qualche responsabilità personale che le abbia causate.
Ma ogni sforzo di Anna nel gestire e salvare il suo rapporto si rivela contropruducente e drammaticamente inutile.
La spirale delle violenze di ripresenta in maniera sempre più avvolgente e mortale.
La nostra protagonista dovrà via via convincersi della tremenda verità e trovare tutte le forze mentali e fisiche per progettare e realizzare la fuga da questa prigione.
Il fatto che questa sia una storia “a lieto fine” non significa che non sia una storia che ha scavato solchi profondi e lasciato ferite indelebili nella vita non solo della vittima ma anche in quella di tutti gli altri protagonisti, compreso quella dell’autore delle violenze.
I bambini che a Gaza muoiono di fame e quelli che a Zaporižžja muoiono sotto le bombe sono segni drammatici di una «Passione»; se gli ordigni esplosivi ne hanno provocato la morte, le cause certamente dimorano nelle mani di chi decide che la pace non debba avere diritto di parola. Eppure da duemila anni le vicende dell’Uomo della Croce possono dare un senso a quelle di tutti i crocifissi della storia; non tanto perché abbia un senso vivere la nostra passione umana unendoci alla sua; quanto perché l’offerta della sua vita può dare una luce nuova ad ogni nostro dolore.
I segni della passione del Crocifisso sono il suo “biglietto da visita”, quello con il quale si è presentato ai suoi nelle apparizioni pasquali, chiedendo a Tommaso di verificare in maniera cruda e reale tutto ciò.
Nella geografia dell’”uomo della Sindone” è impressionante come il lino di Torino sia segnato non dalle impronte del sangue di un crocifisso qualsiasi, ma da ferite che riproducono in maniera fedele quelle della Passione del Cristo descritte in maniera minuziosa dai racconti evangelici: i segni della flagellazione, la coronazione di spine, le trafitture dei chiodi, le gambe non spezzate, la ferita da taglio nel costato.
Da sempre l’iconografia presenta accanto alla rappresentazione del crocifisso anche i particolari di alcuni strumenti utilizzati per realizzare gli eventi descritti: la croce, la colonna della flagellazione, la corona di spine, la tunica, i chiodi, martello e tenaglia, fino al gallo che cantò dopo il rinnegamento di Pietro.
Nel capitolo enorme delle reliquie sparse nelle chiese di tutto il mondo, qualcuno nota che con i frammenti del legno della croce si potrebbe mettere insieme una foresta. Nel calendario liturgico la festa della sua Esaltazione è legata alla tradizione del suo rinvenimento da parte di Elena, madre dell’imperatore Costantino.
Dietro ogni studio ci sono però tracce interessanti. Così, nel capitolo delle reliquie, la tradizione vuole che la corona di spine (che non era di per sé a forma di “aureola” come normalmente è raffigurata; ma era come le corone orientali, un vero e proprio casco, che doveva avvolgere tutta la parte superiore della testa fin dietro la nuca) sarebbe stata in larga parte privata delle sue spine, che si trovano sparse in varie cattedrali di tutta l’Europa.
Fra queste, molto interessanti sono le ricognizioni fotografiche e filmografiche sulla Sacra Spina donata alla cattedrale di Andria (BAT) da Beatrice, figlia di Carlo II d’Angiò. Secondo la tradizione, quando la Festa dell’Annunciazione del Signore, il 25 marzo, cade nel giorno del Venerdì Santo, la spina andrebbe a ravvivarsi, mostrando una specie di sudorazione. Ciò è documentato dalle riprese video del 2005 e nel 2015.
I segni della Passione, le “Sacre Piaghe”, provocate dai vari strumenti con cui è stata attuata, sono registrati, come detto, da tutta l’iconografia cristiana, culminando con la catechesi visiva tracciata da quell’icona che è la Sacra Sindone di Torino.
Anche nella mistica cristiana è interessante notare come lo studio su quei personaggi che hanno subito la stigmatizzazione somatica, dei quali Francesco d’Assisi è il primo caso conosciuto, è estremamente interessante il confronto con quel che l’osservazione medica ha rilevato. A riguardo, ci sono i casi di chi ha riportato i segni delle trafitture nel palmo delle mani ed altri sotto i polsi, dove, storicamente, è provato che i chiodi venissero conficcati.
Se la lettura dei Vangeli della Passione, la partecipazione alle rappresentazioni sacre o la visione della trasposizione di un film fedele ai racconti evangelici come The Passion di Mel Gibson possono introdurci sulla scena e aiutarci a vivere il messaggio conseguente a quegli eventi, è interessante altresì soffermarsi non solo sui dolori fisici, a partire dalla sudorazione di sangue nell’orto degli ulivi.
Gesù di Nazareth avrebbe infatti non solo sofferto fisicamente le fasi più cruente della sua passione, descritte in maniera visiva e celebrate nella tradizione millenaria delle Vie Crucis, ma ancor di più per la consapevolezza che il dono libero cruento della sua vita non sarebbe stato accolto e riconosciuto da tutti.
Torniamo a chiarire quello che abbiamo accennato all’inizio.
Ogni volta che ciascuno di noi vive il dolore legato alle sue sconfitte, alle sue sofferenze, al dramma di una prova o di una grave malattia con la quale doversi confrontare, un messaggio fuorviante è quello di chi ci propone: “Come Cristo si è caricato sulle spalle la sua croce, così anche noi dobbiamo fare lo stesso!”
In realtà, il messaggio evangelico, è esattamente il contrario: non siamo noi che dobbiamo imitare o condividere la croce di Cristo. È Cristo che, potendo evitare la sua dolorosa Passione e la sua Morte in croce, ha invece deciso, liberamente e per amore, di andare fino in fondo, di donare la sua vita e, dunque, di condividere le nostre croci per dare un senso, con il suo esempio, al modo in cui possiamo affrontare il dolore e le sofferenze che la vita ci propone.
È questa la luce che fa risplendere il Mistero della Passione, della Morte e poi della Risurrezione di Cristo.
Relazione di padre Giulio Albanese, comboniano e Direttore dell’Ufficio per la Cooperazione Missionaria tra le Chiese della Diocesi di Roma al Convegno annuale delle diocesi del Lazio organizzato dall’Ufficio per l’Ecumenismo, il Dialogo Interreligioso e i Nuovi Culti della Diocesi di Roma sul tema: “La forza umile dei cristiani”
Padre Giulio Albanese cita come incipit il messaggio di Paolo VI per la Giornata Missionaria Mondiale del 1971 in cui descrisse in modo profetico il tempo presente: il nostro tempo è segnato dalla contrapposizione per vertici di progresso mai prima raggiunti ai quali si associano abissi di perplessità e di disperazione anch’essi senza precedenti. https://www.vatican.va/content/paul-vi/it/messages/missions/documents/hf_p-vi_mes_19710625_world-day-for-missions-1971.html
Ancora oggi noi viviamo le contrapposizioni tra progresso/regresso, benessere/malessere, ricchezza/povertà. Il nostro è un tempo senza precedenti: oggi meno dell’1% ha una ricchezza superiore al 99% degli abitanti del Pianeta. Nonostante le enormi diseguaglianze sociali, siamo certi che questo è il nostro tempo per gridare la buona notizia. La missione non è questione dei numeri, anche se sono in pochi gli “operai della messe”: siamo tutti chiamati a rimboccarci le maniche.
Son passati sessanta anni dal Concilio Vaticano II ma dobbiamo considerare come l’impianto mentale per ciò che concerne la missione è spesso preconciliare. La preoccupazione di nostro Signore era di segno diverso. Prima del Concilio l’”extra Ecclesia nulla salus” portava gli evangelizzatori a battezzare a più non posso. Quel che ci viene chiesto: la spiritualità missionaria è vita secondo lo Spirito.
Il rischio, sempre in agguato, è quello o di cadere nell’intimismo o nel filantropismo.
Papa Francesco ha spiegato molto bene nell’Evangelii Gaudium, il suo documento programmatico, che il tempo è superiore allo spazio, i cambiamenti in 60 anni hanno superato le conoscenze dell’ultimo milione di anni. Egli ha affermato che la nostra non è un epoca di cambiamenti ma un cambiamento d’epoca.
La sfida è spirituale e culturale, un cambio di mentalità cui siamo chiamati.
Papa Francesco quando parla della Missione nell’Evangelii Gaudium, dice fondamentalmente quattro cose, quattro aspetti fondamentali che ci riguardano.
Dare ragione della speranza che è nei nostri cuori. Questi martiri erano missionari ma su cosa si fondava la loro testimonianza?
Per Papa Francesco, innanzitutto, la missione ha una valenza comunitaria. I Comboniani pubblicarono un opuscolo “Insieme fuori le mura”. Papa Francesco è chiaro: come Chiesa dobbiamo essere inclusivi, dobbiamo accogliere quell’umanità dolente della quale anche noi facciamo parte; spalancare le porte, non chiuderle; questo ha fatto Gesù, venuto per le “pecore perdute”. Ad esempio quella della mobilità umana è una delle sfide che sono sotto i nostri occhi.
Seconda cosa: uscire dalle mura. La nostra è una fede da beduini, è una fede nomadica, la missione non è in Chiesa ma fuori le mura.
Questo dobbiamo dirlo in particolare a quei personaggi che si definiscono “tradizionalisti”. Attenzione! Il “tradere” è il “trasmettere” in maniera dinamica la fede.
Dobbiamo mettere in discussione il nostro stesso linguaggio, Papa Francesco questo lo ha chiesto esplicitamente! Siamo consapevoli che i giovani parlano altri linguaggi e il nostro diventa spesso per loro non comprensibile?
Terzo: il locus per eccellenza della missione è la periferia, i luoghi che hanno bisogno di essere raggiunti. I poveri devono essere il nostro riferimento.
Il cardinal Lercaro quando parlò della povertà disse che è il locus magnum della Chiesa.
Dobbiamo intenderci sul significato attribuito alla povertà, ai poveri.
La povertà è un valore o un disvalore? Nel 2013 Papa Francesco disse che i poveri sono la carne di Cristo. Queste sono categorie teologali, non solo economiche e sociologiche.
Attenzione: da un punto di vista Evangelico le Beatitudini sono il nostro orizzonte. La povertà non può essere intesa come mistica della miseria ma come affermazione della condivisione del bene comune.
Papa Francesco ci chiede di non fare proselitismo ma come Chiesa di dare il buon esempio per agognare l’auspicato cambiamento.
Quarto: fondamentale non delegare.
È evidente, guardando alle nostre realtà diocesane, che dobbiamo evitare la tentazione di delegare la missione a qualcun altro; da una parte è importante la ministerialità ma ricordiamoci che la Missione è una; l’8.12.1990 nella Redemptoris Missio Giovanni Paolo II distinse la missione in tre parti, oggi andrebbero riviste: pastorale, nuova evangelizzazione, ad gentes. Per Martini da un punto di vista biblico questa distinzione è superata: la missione è una, e deve avere un orizzonte globale, la globalizzazione intelligente di Dio.
Ogni anno la Settimana Santa celebra il dono della vita di Gesù per noi, con la meditazione della sua Passione durante la Domenica delle Palme e il Venerdì Santo. Questo Vangelo trova sicuramente riverbero nelle odierne testimonianze di tutti quei seguaci del maestro di Nazareth che hanno testimoniato la sua sequela con il dono della loro vita.
È quello che è stato approfondito presso il Santuario del Divino Amore in Roma nel Convegno annuale delle diocesi del Lazio organizzato dall’Ufficio per l’Ecumenismo, il Dialogo Interreligioso e i Nuovi Culti della Diocesi di Roma sul tema: “La forza umile dei cristiani”. A partire dal ricordo di suor Giordana Bertacchini (delle Missionarie di Maria, Saveriane) del decimo anniversario dell’uccisione delle consorelle Olga (83), Lucia (75), Bernadetta (79) di Bujumbura in Burundi. Alcuni dei sicari assoldati per compiere questo atroce delitto hanno confessato: si è trattato di un omicidio legato ad un rito satanico propiziatorio a favore del Presidente della Repubblica su indicazione di un santone. Ma questo sacrificio ha portato dei frutti: la casa è diventata una cappella che è casa di preghiera e di perdono; ogni mese il 7 e l’8 i laici continuano l’apostolato promosso dalle martiri tra i poveri. C’è una crescita delle vocazioni. In 30 anni non c’era stata una vocazione, ora ce ne sono diverse.
Ieri, martedì Santo, si è tenuta la consueta veglia di preghiera per i Missionari Martiri presso la Basilica di San Bartolomeo sull’isola Tiberina (diventata Santuario per i Nuovi Martiri del Novecento), affidata da San Giovanni Paolo II alla Comunità di Sant’Egidio. Negli anni ,delegazioni delle Chiese Anglicane ed Ortodosse hanno donato reliquie di loro Martiri alla Basilica, custodite nelle sei cappelle. Il Martirio diventa un elemento fondamentale nell’ambito del percorso del Dialogo Ecumenico. Il lavoro della Commissione sui Nuovi Martiri del XX secolo ha portato a uno specifico Giubileo dei Martiri celebrato durante il Giubileo del 2000 al Colosseo. E un lavoro analogo compirà la nuova commisisone per il Giubileo del 2025, ma ora a tutto campo, esteso a tutte le confessioni cristiane, senza limitarsi al cattolicesimo.
“Oggi, però, come è cambito il martirio?” – si chiede don Angelo Romano, Rettore della Basilica. Nella storia, infatti, conosciamo Gli Atti dei Martiri dei primi secoli in cui essi venivano uccisi a causa della loro professione di fede, da parte dell’autorità imperiale romana, così come è testimoniato nei processi. Oggi, al contrario, tante volte il persecutore si nasconde, non vuole che si capisca che è il protagonista della strage, come nel caso drammatico delle tre suore in Burundi o nel caso di don Puglisi, dove Cosa Nostra ha cercato di nascondersi, presentandolo non come un omicidio di Mafia. Se il primo problema è che il persecutore cerca di nascondersi, il secondo problema è che l’odio alla fede non chiede di rinnegare la professione, ma chiede di rinunciare alla sua azione sociale, alla giustizia, alla carità vissuta, alla fortezza; come nel caso dell’opera educativa di don Puglisi o a quella dei cristiani che difendono gli indios dell’Amazzonia.
Non è un caso che i cristiani siano diffusi dove ci sono situazioni che essi vanno a contrastare per motivi legati alla giustizia e al rifiuto della corruzione. Le strade dei martiri sono attrattive, sono storie che misteriosamente cambiano la storia. Giovanni Paolo II racconta che aveva un compagno seminarista che venne fucilato mentre faceva il seminario. Se non lo avesse scritto nella sua biografia, non lo avremmo mai conosciuto. Si chiamava Szczęsny Zachuta. La sorella, una signora di 65 anni, ha contattato il Santuario di San Bartolomeo e ha donato la lettera del cardinale di Cracovia, Wojtyla, indirizzata alla famiglia del suo compagno seminarista. Giovanni Paolo II in “Dono e Mistero” afferma che il suo sacerdozio già ai suoi inizi aveva un debito verso tutti i martiri che hanno vissuto accanto a lui.
Il sangue dei martiri cambia la storia. Bisogna fare parlare i martiri. In Basilica c’è la memoria di 50 di loro e nella cripta oltre 100. Il mondo va da un’altra parte? Bene! Il martire va controcorrente, e per questo diventa attrattivo! La dott.ssa Monica Attias ha raccontato la storia di sette umili confratelli laici anglicani, i Melanesian Brothers, martirizzati nel 2003 dopo una guerra civile iniziata nel 1998 nell’Isola di Guadalcanal, ma diventati germe per un processo di pacificazione in tutte le isole Salomone. Il 5 novembre milioni persone hanno seguito i loro funerali. L’amore ha vinto per la passione, la gioia e la speranza della resurrezione testimoniata dai sette confratelli. Il loro ricordo è presente nella Basilica San Bartolomeo. L’Arcivescovo di Chanterbury Welby e 17 vescovi anglicani hanno celebrato i Melasian Brothers a San Bartolomeo.
S. E. Mons. Azad Sabri Shaba, Vescovo caldeo della Diocesi di Duhok, in Iraq condivide in video un suo intervento, ricordando che fin dai tempi di Sassanidi, Arabi, Mongoli e Ottomani ci sono cristiani iracheni martiri. Anche nello scorso secolo, anche nel 2003, 2006, 2008, 2010. Liturgicamente, la Chiesa Caldea il venerdì dopo la Pasqua ricorda i suoi martiri. Nel 2025 ci sarà l’anniversario del Concilio di Nicea in Turchia, che si spera possa rilanciare le loro chiese. Tra il 2003 e il 2017-18 ci sono stati moltissimi attentati che hanno decimato queste chiese. Il sangue di questi martiri ci parla della speranza della coabitazione in zone dove i cristiani sono arrivati prima dell’Islam.
Dopo la relazione di padre Giulio Albanese, si è data voce alle testimonianze viventi di quel che i cristiani costruiscono, con due video molto significativi propositi da parte di S. Em. Card. Giorgio Marengo (e i cristiani della Chiesa di Mongolia) e S. E. Mons. Christian Carlassare, comboniano, dal Sud Sudan, testimone di un attentato poco dopo la sua elezione a vescovo. Ha poi chiuso gli interventi suor Antonietta Papa, compagna di padre Ezechiele Ramin in Brasile e testimone del suo martirio, già Generale della Congregazione delle Figlie di Maria Missionaria, che testimonia la missione a servizio dei migranti a Lampedusa e racconta come arrivano e da dove arrivano sui moli dell’isola queste migliaia di profughi, tremanti e claudicanti. La polizia mette loro i bracciali e le suore li abbracciano per scaldare loro il cuore quanto indossano le coperte termiche, perché arrivano con solo la t-shirt addosso, senza neanche scarpe. I ragazzi della Chiesa Evangelica forniscono il thé e i croissant. Non si può nascondere che al momento dello sbarco c’è molta tensione, perché non si sa chi arriva. Non è semplice sostenere queste persone che hanno il dramma del lutto perché hanno visto gli amici morire davanti agli occhi.
Per questo, come ha ricordato mons. Marco Gnavi, Segretario della Commissione “Nuovi Martiri – Testimoni della fede” e Segretario della Commissione per l’Ecumenismo e il Dialogo – C.E.L., non dobbiamo dimenticare che nel Vangelo è tutto capovolto, ma anzi viverne il paradosso: gli umili saranno esaltati. Gesù ha cambiato il mondo attraverso la volontà divina di salvare, soccorrere, guarire, portare la pace che ci è stata donata, come in questa Pasqua ancora una volta celebriamo.
La città di Napoli rischia la catastrofe umanitaria.
La stessa ONU ha accusato il Governo italiano di condotta inaccettabile che mette a rischio l’interna popolazione del capoluogo campano; il caso ha avuto un’eco mediatica internazionale, visto che verso l’inquilino di Palazzo Chigi è stato mosso un procedimento disciplinare presso il Tribunale di Giustizia dell’Aja.
I fatti sono noti. Per poter risolvere in modo definitivo la perniciosa azione di tutte le Mafie, alle quali si devono 1013 vittime https://www.wikimafia.it/wiki/Categoria:Vittime_innocenti_delle_mafie
è stato giudicato inevitabile dover entrare con l’Esercito e i suoi corpi speciali: battaglione San Marco, Granatieri di Sardegna, coadiuvati dalla Guardia di Finanza e dalle truppe scelte dei Carabinieri, coordinate dalla DIA.
Per poter celebrare la giornata della memoria delle vittime per le mafie il 21 marzo, le operazioni sono state aperte cinque mesi prima; sono state chiuse le vie di accesso alla città, le truppe scelte hanno rastrellato Spaccanapoli e i quartieri spagnoli, i camorristi sono stati snidati e soppressi.
Per tagliare loro i rifornimenti è stato necessario far saltare le condutture di acqua, gas ed energia elettrica, entrare nei cunicoli della Napoli sotterranea, bombardare gli ospedali cittadini, per evitare che i camorristi vi si potessero rifugiare.
Dopo cinque mesi senza luce, gas ed acqua potabile, i tre milioni di abitanti del capoluogo sono piombati nella disperazione più nera.
Molti di loro si sono riuniti nello stadio “Maradona” e si sono viste scene tragiche nell’assalto ai pochi aiuti che le organizzazioni umanitarie son riuscite a far entrare in città. Purtroppo il 24 febbraio scorso 114 abitanti partenopei hanno visto la morte perché, nella ressa, le forze antisommossa del Governo Italiano si son viste costrette ad aprire il fuoco.
Il Governo resiste alle critiche dell’ONU e finanche degli alleati della NATO e dello stesso Presidente degli Stati Uniti.
Purtroppo, Roma insiste, non si può fare diversamente: per estirpare una volta per tutte l’azione delle Mafie è necessario che le forze speciali dell’Esercito non si ritirino dal territorio partenopeo finché l’ultimo camorrista non sia stato reso innocuo. Che poi tre milioni di napoletani siano senza acqua, cibo, luce e senza un tetto dopo cinque mesi dall’inizio dell’operazione, è un male inevitabile.
In fondo, sono tutti omertosi, dunque complici delle Mafie e dei mafiosi. Per celebrare efficacemente il 21 marzo era giusto andare sino in fondo.
Settembre 1991. Pontificio Seminario “Pio XI” di Molfetta. Il seminario regionale con gli studenti più numeroso d’Italia. Al rientro dalle vacanze in famiglia, i 180 giovani trovano i lavori in corso con i muratori all’opera. Qualcuno ha smontato le tazze dei water dai bagni di un’ala della struttura. Cosa è successo?
“Ragazzi, non avete idea – racconta Corrado, il mai dimenticato portiere dello stabile – non si può descrivere cosa significhi andare in prima linea tutti i giorni, rischiare di finire in ospedale o, addirittura, la vita stessa”.
L’8 agosto 1991 la nave “Vlora” sbarca nel porto di Bari. Proviene dall’Albania dove è stata presa d’assalto nel porto di Durazzo ed occupata da oltre ventimila profughi albanesi, imbarcatisi con la forza nell’intento di lasciare il “paese delle aquile” verso “lamerica”, la dolce Italia che loro conoscono attraverso i nostri programmi televisivi.
Non ci saranno nella storia delle immigrazioni nel Bel Paese né prima né ad oggi numeri simili nell’arrivo di immigrati con un solo viaggio.
Le autorità, nell’assolato ferragosto barese, sono colte impreparate. I ventimila vengono condotti e rinchiusi fra le mura del vecchio “Stadio della Vittoria” nell’attesa delle disposizioni che porteranno al forzato espatrio di quasi il 90% dei malcapitati.
Naturalmente sono giorni di stenti e di tensioni che passano dall’iniziale speranza alla rabbia fino alla disperazione quando i protagonisti comprendono che per la maggior parte di loro non ci sarà accoglienza ma rimpatrio. Le strutture dello stadio ne fanno le spese: gradinate, infissi, bagni divelti e devastati dalla rabbia, ringhiere e tubature usate e brandite a mo’ di armi per gli scontri con le forze dell’ordine.
La folla diviene ingestibile e si arriva a decidere di fornire cibo e medicinali catapultandoli per via aerea.
Per prelevare i profughi e imbarcarli su 11 aerei militari C130 e G222, assieme a tre Super80 dell’Alitalia e a motonavi come la Tiepolo, la Palladio e la Tiziano per il rimpatrio, sono necessarie le forze dell’ordine in tenuta antisommossa, che ingaggiano cariche di contenimento e eseguono le direttive per realizzare l’operazione.
Un centinaio di questi militari che provengono da fuori regione trovano appunto ospitalità presso la struttura ricettiva del Seminario Regionale.
I racconti del custode sono densi di particolari: questi ragazzi, giovani come i “naturali” ospiti del “Pio XI”, rientravano la sera dopo ore di corpo a corpo in assetto da battaglia verso una folla inferocita di disperati che doveva essere prelevata con la forza. Molti fra loro sono finiti in ospedale con le ossa rotte.
Quelli che erano presenti all’appello in quelle sere, sfogavano l’adrenalina con mangiate, bevute, feste e bravate come quella che li aveva portati a fare qualche danno anche al “Pio XI”.
Domenica 20 agosto 2000. Oltre due milioni di giovani, provenienti da 163 paesi, hanno appena finito di partecipare alla celebrazione eucaristica presieduta da Giovanni Paolo II al termine della GMG a Roma, su un’area di Tor Vergata, uno dei raduni della cristianità cattolica più numerosi della storia.
Secondo le indicazioni fornite dagli organizzatori sulla piantina dell’area, ciascuno dei partecipanti avrebbe dovuto defluire in orari e da punti diversi a seconda del settore dove si era allocato. Ma coordinare in maniera disciplinata due milioni di persone fu impossibile. Al termine della manifestazione scene che potremmo paragonare a quelle di un “esodo biblico” o comunque a quelle dei profughi che con i loro stracci si spostano a decine di migliaia tra un paese e l’altro del martoriato continente africano in fuga dai vari conflitti intestini si riproposero all’uscita della folla dai prati di Tor Vergata.
I giovani formavano plasticamente un vero e proprio fiume in piena, in alcuni tratti ci si poteva anche lasciar andare, sperimentando che non si sarebbe caduti a terra, perché tale era la ressa che ti comprimeva trasportandoti senza quasi bisogno di alzare i piedi dal suolo.
Ai cigli della strada i volontari della Giornata Mondiale della Gioventù, in T-SHIRT blu con il logo della GMG 2000, innaffiavano a mano con centinaia di litri d’acqua dalle bottiglie di plastica i giovani trasportati da questo fiume in piena, per dar loro sollievo dalla calura estiva del sole di agosto.
In quelle 48 ore, dalla veglia del 19 alla messa del 20, sono stati migliaia gli interventi delle ambulanze che hanno soccorso nell’ospedale da campo e nelle tende del pronto soccorso allestite nei diversi settori vari giovani malcapitati.
Che non ci sia stata, tra quei due milioni, neanche una vittima, potremmo statisticamente oggi definirlo un “miracolo”.
Torino, piazza San Carlo, 3 giugno 2017. Finale di Champions League Juventus – Real Madrid.
I tifosi spagnoli hanno avuto l’opportunità di seguire la partita sui maxi schermi appositamente installati nello stadio “Santiago Bernabeu” a Madrid. Quelli torinesi si sono invece riuniti davanti agli schermi allestiti in piazza San Carlo.
Durante la partita, qualcuno tira fuori ed utilizza uno spray al peperoncino. La folla, terrorizzata, inizia a scappare. Le migliaia di bottiglie di vetro presenti tra i tifosi cadono in terra e vanno in frantumi, producendo un tappeto di cocci. Al termine della serata, saranno 1672 le persone ricoverate per ferite da taglio subite dopo essere state travolte dalla folla su questo tappeto tagliente. Tre le vittime.
Stadio Heysel, Bruxelles, 29 maggio 1985. Finale Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool. Sono 39 le vittime tra i tifosi juventini, dovute al cedimento di una gradinata per l’assembramento degli stessi che erano in fuga dai tifosi inglesi.
Questi sono solo alcuni episodi che toccano la nostra storia.
Quando ci sono assembramenti numerosi, le misure di sicurezza possono essere vane, soprattutto se la folla esce fuori da ogni controllo. L’immagine plastica di una mandria di bisonti americani che fugge travolgendo ed uccidendo tutto ciò che incontra ben rappresenta il dramma delle vittime della calca in mezzo ad una folla impazzita.
Nella storia delle manifestazioni sportive abbiamo non solo il caso recente di Malang in Indonesia con oltre 180 vittime il 2 ottobre 2022 ma numeri come quelli di Lima in Perù il 24 maggio 1964 con 320 morti.
Ogni tipo di raduni, da quelli sportivi, ai concerti, a quelli religiosi, possono portare a sviluppi tali se si verificano simili circostanze, come nel caso della festa di Halloween a Seul il 4 novembre 2022 con 153 vittime.
Arriviamo alla cronaca.
Nel conflitto che sta sfociando in un disastro umanitario a Gaza, il 29 febbraio 2024, dopo quattro mesi senza luce, gas e acqua potabile, una folla disperata ha assaltato l’ennesimo carico di aiuti umanitari introdotto via camion, aiuti che che stanno arrivando nella Striscia in maniera totalmemente insufficiente. L’esercito israeliano ha sparato. Risultato: 114 morti.
I palestinesi incolpano gli israeliani. Le autorità ebraiche respingono le accuse: le vittime sarebbero rimaste uccise a causa della calca. Purtroppo molte di esse risultano essere cadute per ferite da armi da fuoco. Vedremo se e quando ci sarà una commissione d’inchiesta che possa riuscire a ricostruire i fatti.
13 aprile 1919, Amritsar, nel Punjab, India.
Il generale Reginald Dyer ordina di aprire il fuoco su una folla di uomini, donne e bambini, senza alcun preavviso, per dare una dimostrazione di forza nei confronti delle manifestazioni non violente promosse da Gandhi e dal Partito del Congresso Indiano contro il Rowlatt Act, una legge promulgata dall’autorità britannica che disponeva l’incarcerazione dei dissidenti senza permettere loro alcun processo. Il 6 aprile erano iniziate le manifestazioni con una giornata di digiuno e di preghiera e con l’astensione dal lavoro di 350 milioni di indiani. Le tensioni avevano portato alla legge marziale nel Punjab il 13 aprile, con il divieto di assembramenti, sfociato nel massacro di Amritsar in risposta alla violazione dello stesso: almeno 379 morti ed oltre 1200 feriti, secondo le fonti ufficiali.
Il generale fu processato e sollevato dal servizio ma non vide il carcere.
L’episodio è rappresentato in modo drammatico nel film “Gandhi” (1982).
Che relazione possiamo leggere tra Amritsar e Gaza?
Certamente nel primo caso l’azione militare si è rivolta contro una folla di civili disarmata, inerme e pacifica, provocando un massacro che è configurabile come un crimine.
Nel caso del massacro di Gaza del 29 febbraio 2024, viceversa, non è provato che l’esercito israeliano abbia sparato contro la folla allo scopo di uccidere. Non possiamo sapere quante tra le 114 vittime siano morte perché travolte nella calca o a causa delle ferite da armi da fuoco. Dobbiamo attendere i risultati di una commissione d’inchiesta, se e quando questa verrà realizzata.
Certamente i paralleli con gli episodi sopra citati sono chiari: la presenza di una folla incontrollata, mossa dalla disperazione, può indurre risposte di forza e finanche di violenza da parte delle forze chiamate all’ordine, come nel caso dei profughi della Vlora stipati nello stadio della Vittoria a Bari nel 1991.
La folla può uccidere. Come all’Heysel, come a Torino, come a Malang, come a Lima, come a Seul. Come ad Amritsar e a Gaza.
Sta poi alle autorità preposte cercare le responsabilità. Che siano autorità nazionali od internazionali, di parte o ancora meglio indipendenti.
Il desiderio dell’antica regola pedagogia rimane però sempre valido ed auspicabile: prevenire sarebbe molto meglio che reprimere.
Perché questo possa realizzarsi a Gaza, c’è bisogno naturalmente che si spinga verso una tregua che impedisca alla popolazione palestinesi di dover drammaticamente scegliere tra il morire di fame o il morire sotto bombe o proiettili.
Provo a sintetizzare le opinioni che ogni giorno mi giungono da chi ritiene quella dei negoziati una proposta impraticabile e quella dell’invio delle armi sine die a Kiev l’unica strada percorribile.
Non voglio offendere od attaccare alcuno e rispetto l’idea di chi la pensa in modo diverso da quel che penso io, visto che abbiamo libertà di pensiero e di dibattito.
Personalmente ritengo necessario un cambio di direzione, a due anni dal conflitto in corso.
Queste le motivazioni di chi ritiene necessario proseguire sulla via delle armi:
1) Putin vuole invadere l’Europa;
2) il popolo ucraino fa la fila per arruolarsi, ogni ucraino vuole andare in prima linea a combattere contro l’invasore russo;
3) i morti civili nel Donbass dal 2014 e dal 2022 provocati dall’utilizzo delle armi ucraine inviate dalla UE e dagli USA sono filoputiniani, questo è solo un “effetto collaterale” del conflitto;
4) Santoro, Della Valle e tutti i pacifisti sono indifendibili e filoputiniani o già filosovietici; naturalmente tutti coloro che lavorano per la pace, compresi papa Francesco, don Tonino Bello, Giovanni XXIII, Gandhi e Gesù Cristo… non lo si dice ma lo si pensa;
5) gli accordi ucraino-russi silurati da Biden nel marzo 2022 sono una fake e chiunque è critico verso il main Stream è filoputiniano;
6) parlare di Palestina o allargare il discorso oltre l’Ucraina significa passare di palo in frasca, cambiare argomento e ignorare l’attenzione al nemico mondiale n.1 che abita in Cremlino e che è spalleggiato dai BRICS;
7) se in Ucraina l’uso di bombe a grappolo o di munizioni all’uranio impoverito di provenienza britannica e statunitense rendono radioattivi i terreni è un effetto collaterale necessario;
8) l’Ucraina vincerà e se passeranno ancora anni senza che la Russia sia sconfitta la colpa sarà di noi cittadini occidentali e italiani, che non abbiamo il coraggio di schierarci e abbiamo l’indecenza di lamentarci perché non arriviamo a metà mese, mentre Zelensky e il suo popolo sta combattendo in vece nostra perché Putin non ci invada.
Sento solo di dire che la pace, in un mondo in guerra, non è solo urgente ma necessaria, in Ucraina, in Palestina come in tante altre nazioni offese dalle logiche dell’industria bellica.
Perché la preparazione ad un giubileo che sia “centrifugo” può trovare ancora spunti dall’enciclica sulla pace di Giovanni XXIII
di Alessandro Manfridi
L’11 aprile 1963, il giovedì della Settimana Santa, papa Giovanni XXIII consegna la sua quarta ed ultima lettera Enciclica, la PACEM IN TERRIS, che sarà, di fatto, il suo “testamento spirituale” visto che, già segnato dal cancro alo stomaco, due mesi dopo, il 3 giugno 1963, il pontefice bergamasco avrebbe concluso la sua esistenza terrena. Vogliamo rileggerla e cogliere, tra le righe, indicazioni preziose a sessanta anni di distanza. Le “parole d’ordine” che ritornano continuamente nel documento sono: “Verità, giustizia, amore, libertà”. Sappiamo il ruolo determinate di Giovanni XXIII nella risoluzione della “crisi di Cuba” nell’ottobre 1962. Egli già da tempo aveva concepito e volle realizzare un’enciclica sul tema della pace. “Con l’ordine mirabile dell’universo continua a fare stridente contrasto il disordine che regna tra gli esseri umani e tra i popoli; quasicché i loro rapporti non possono essere regolati che per mezzo della forza”. (n. 3) Ogni essere umano è persona, soggetto di diritti e di doveri che sono universali, inviolabili, inalienabili. Ogni essere umano ha il diritto all’esistenza, all’integrità fisica, ai mezzi indispensabili e sufficienti per un dignitoso tenore di vita (6) alla libertà nella ricerca del vero, nella manifestazione del pensiero e nella sua diffusione, nel coltivare l’arte, ad un’istruzione di base (7) ha il diritto di onorare Dio secondo il dettame della retta coscienza; ha il diritto al culto di Dio privato e pubblico (8); ha il diritto alla libertà nella scelta del proprio stato (9); il diritto di libera iniziativa in campo economico e il diritto al lavoro (10). “Torna opportuno ricordare che al diritto di proprietà privata è intrinsecamente inerente una funzione sociale”. Drammaticamente attuale il richiamo al diritto all’emigrazione e all’immigrazione, con l’affermazione che ogni essere umano, pur lontano dalla propria comunità nativa, appartiene alla comune famiglia umana e quindi è cittadino della comunità mondiale (12) Importanti anche il diritto di riunione e di associazione e quelli relativi alla partecipazione alla vita pubblica e sociale. Indissolubile il rapporto fra diritti e doveri nella stessa persona, fondati entrambi nella legge naturale.
Gli uomini sono sociali per natura, nati per convivere in modo ordinato, cooperando per “operare gli uni al bene degli altri”, in modo che ci si adoperi perché ciascuno, ad esempio, disponga dei mezzi di sussistenza sufficienti ad una vita dignitosa (16) La convivenza fra gli esseri umani, oltre che ordinata, è necessario che sia per essi feconda di bene. Da notare: “Una convivenza fondata soltanto su rapporti di forza non è umana. In essa infatti è inevitabile che le persone siano coartate o compresse, invece di essere facilitate e stimolate a sviluppare e perfezionare se stesse”.(17) Una convivenza fondata nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà. Tre fenomeni caratterizzano l’epoca moderna: l’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici; l’ingresso della donna nella vita pubblica (21-22). Il terzo fenomeno parla di un passo avanti, dopo la storia del colonialismo, con popoli con sono più dominati ma indipendenti (23-24). Purtroppo dobbiamo rilevare che di fatto non è così, perché il cosiddetto “Sud del mondo” è quello che diventa sempre più numericamente rilevante, con popolazioni intere ridotte alla fame. Nel capitolo secondo si parla della necessità della preseza di un’autorità che assicuri l’ordine e contribuisca all’attuazione del bene comune in grado sufficiente “L’autorità non è una forza incontrollata: è invece la facoltà di comandare secondo ragione. Trae quindi la virtù di obbligare dall’ordine morale: il quale si fonda in Dio”(27) “L’autorità che si fonda solo o principalmente sulla minaccia o sul timore di pene o sulla promessa e attrattiva di premi, non muove efficacemente gli esseri umani all’attuazione del bene comune; e se anche, per ipotesi, li movesse, ciò non sarebbe conforme alla loro dignità di persone, e cioè di esseri ragionevoli e liberi. L’autorità è, soprattutto, una forza morale; deve, quindi, in primo luogo, fare appello alla coscienza, al dovere cioè che ognuno ha di portare volonterosamente il suo contributo al bene di tutti. Sennonché gli esseri umani sono tutti uguali per dignità naturale: nessuno di esso può obbligare gli altri interiormente. Soltanto Dio lo può, perché egli solo vede e giudica gli atteggiamenti che si assumono nel segreto del proprio spirito.” (28). Naturalmente un’ordine legale che violasse l’ordine che deriva da Dio chiamerebbe ad una obiezione di coscienza poiché “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29). “Quando invece una legge è in contrasto con la ragione, la si denomina legge iniqua; in tal caso però cessa di essere legge e diviene piuttosto un atto di violenza” (30). La ragione d’essere dei poteri pubblici sta propriamente nell’attuazione del bene comune (32).
“È inoltre un’esigenza del bene comune che i poteri pubblici contribuiscano positivamente alla creazione di un ambiente umano nel quale a tutti i membri del corpo sociale sia reso possibile e facilitato l’effettivo esercizio degli accennati diritti, come pure l’adempimento dei rispettivi doveri. Infatti l’esperienza attesta che qualora manchi una appropriata azione dei poteri pubblici, gli squilibri economici, sociali e culturali tra gli esseri umani tendono, soprattutto nell’epoca nostra, ad accentuarsi; di conseguenza i fondamentali diritti della persona rischiano di rimanere privi di contenuto; e viene compromesso l’adempimento dei rispettivi doveri” (38). “È perciò indispensabile che i poteri pubblici si adoperino perché allo sviluppo economico si adegui il progresso sociale; e quindi perché siano sviluppati, in proporzione dell’efficienza dei sistemi produttivi, i servizi essenziali, quali: la viabilità, i trasporti, le comunicazioni, l’acqua potabile, l’abitazione, l’assistenza sanitaria, l’istruzione, condizioni idonee per la vita religiosa, i mezzi ricreativi. E devono anche provvedere a che si dia vita a sistemi assicurativi in maniera che, al verificarsi di eventi negativi o di eventi che comportino maggiori responsabilità familiari, ad ogni essere umano non vengano meno i mezzi necessari ad un tenore di vita dignitoso; come pure affinché a quanti sono in grado di lavorare sia offerta una occupazione rispondente alle loro capacità; la rimunerazione del lavoro sia determinata secondo criteri di giustizia e di equità; ai lavoratori, nei complessi produttivi, sia acconsentito svolgere le proprie attività in attitudine di responsabilità; sia facilitata la istituzione dei corpi intermedi che rendono più articolata e più feconda la vita sociale; sia resa accessibile a tutti, nei modi e gradi opportuni, la partecipazione ai beni della cultura” (39). È importante la divisione dei poteri nelle tre funzioni legislativa, amministrativa, giudiziaria (41). Fondamentale la regolazione dei rapporti tra i cittadini e l’autorità pubblica, a partire dalla formulazione delle carte costituzionali (45). Nel capitolo terzo si affronta i rapporti tra le comunità politiche “Anche i loro rapporti vanno regolati nella verità, nella giustizia, nella solidarietà operante, nella libertà… La stessa legge morale, che regola i rapporti fra i singoli esseri umani, regola pure i rapporti tra le rispettive comunità politiche.” (47). Nel n. 57 si parla della questione dei profughi politici. Oggi a questi, oltre agli immigrati per fame, possiamo aggiungere l’enorme numero degli “immigrati climatici”. Dal n. 59 si affronta la questione della corsa agli armamenti, la deterrenza, le testate nuceari. Necessaria “giustizia, saggezza ed umanità” che arrivi a mettere al bando le armi nucleari
“Occorre però riconoscere che l’arresto agli armamenti a scopi bellici, la loro effettiva riduzione, e, a maggior ragione, la loro eliminazione sono impossibili o quasi, se nello stesso tempo non si procedesse ad un disarmo integrale; se cioè non si smontano anche gli spiriti, adoprandosi sinceramente a dissolvere, in essi, la psicosi bellica: il che comporta, a sua volta, che al criterio della pace che si regge sull’equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia. Noi riteniamo che si tratti di un obiettivo che può
essere conseguito. Giacché esso è reclamato dalla retta ragione, è desideratissimo, ed è della più alta utilità” (61). “È un obiettivo reclamato dalla ragione. È evidente, o almeno dovrebbe esserlo per tutti, che i rapporti fra le comunità politiche, come quelli fra i singoli esseri umani, vanno regolati non facendo ricorso alla forza delle armi, ma nella luce della ragione; e cioè nella verità, nella giustizia, nella solidarietà operante. È un obiettivo desideratissimo. Ed invero chi è che non desidera ardentissimamente che il pericolo della guerra sia eliminato e la pace sia salvaguardata e consolidata? È un obiettivo della più alta utilità. Dalla pace tutti traggono vantaggi: individui, famiglie, popoli, l’intera famiglia umana. Risuonano ancora oggi severamente ammonitrici le parole di Pio XII: “Nulla è perduto con la pace. Tutto può essere perduto con la guerra” (62). “Si diffonde sempre più tra gli esseri umani la persuasione che le eventuali controversie tra i popoli non debbono essere risolte con il ricorso alle armi; ma invece attraverso il negoziato” (67). Nel quarto capitolo si parla dei rapporti degli esseri umani e delle comunità politiche con la comunità mondiale “L’unità della famiglia umana è esistita in ogni tempo, giacché essa ha come membri gli esseri umani che sono tutti uguali per dignità naturale. Di conseguenza esisterà sempre l’esigenza obiettiva all’attuazione, in grado sufficiente, del bene comune universale, e cioè del bene comune della intera famiglia umana” (69). “Come è noto, il 26 giugno 1945, venne costituita l’Organizzazione delle Nazione Unite (ONU); alla quale, in seguito, si collegarono gli istituti intergovernativi aventi vasti compiti internazionali in campo economico, sociale, culturale, educativo, sanitario. Le Nazioni Unite si proposero come fine essenziale di mantenere e consolidare la pace fra i popoli, sviluppando fra essi le amichevoli relazioni, fondate sui principi della uguaglianza, del vicendevole rispetto, della multiforme cooperazione in tutti i settori della convivenza. Un atto della più alta importanza compiuto dalle Nazioni Unite è la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata in assemblea generale il 10 dicembre 1948. Nel preambolo della stessa dichiarazione si proclama come un ideale da perseguirsi da tutti i popoli e da tutte le nazioni l’effettivo riconoscimento e rispetto di quei diritti e delle rispettive libertà” (75). Fondamentale è lo sviluppo integrale degli esseri umani in formazione “L’istruzione scientifica continua ad estendersi fino ad attingere gradi superiori, mentre l’istruzione religiosa rimane di grado elementare. È perciò indispensabile che negli esseri umani in formazione, l’educazione sia integrale e ininterrotta; e cioè che in essi il culto dei valori religiosi e l’affinamento della coscienza morale procedano di pari passo con la continua sempre più ricca assimilazione di elementi scientifico-tecnici; ed è pure indispensabile che siano educati circa il metodo idoneo secondo cui svolgere in concreto i loro compiti” (80).
L’enciclica si conclude con quel richiamo al Principe della Pace il cui mistero pasquale viene celebrato dalla comunità dei credenti.