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Giubileo “centrifugo”: dov’è il bene comune?

Rileggere la “Caritas in veritate” di Benedetto XVI in vista del Giubileo, permette di richiamare il mondo verso alcune analisi legate al problema della realizzazione del “bene comune”

14 Agosto 2024

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Teologia

Con la sua enciclica Caritas in veritate Benedetto XVI cita, riprende e ripropone in una sintesi attualizzata al nuovo contesto della globalizzazione le encicliche sociali di Paolo VI (Popolorum progressio e Octogesia adveniens) e di Giovanni Paolo II (Laborem exercensSollicitudo rei socialisCentesimus annus).

Nell’introduzione Benedetto XVI descrive le direttive propulsive di ogni azione morale che sono la carità nella verità, “la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera” (1), insieme a due criteri orientativi, tra gli altri, quali la giustizia e il bene comune.

Se Paolo VI affermò che la giustizia è “la misura minima della carità”, in quanto la carità esige la prima, quale “riconoscimento e il rispetto dei legittimi diritti degli individui e dei popoli”, dobbiamo riconoscere che la carità supera la giustizia stessa, perché non si ferma ai rapporti normati dai diritti e dai doveri, ma arriva a relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione, completando l’esigenza della giustizia con la logica del dono e del perdono (6).

Queste parole mi hanno riportato alla memoria del discorso del giovane angolano Domingos, il quale, davanti a Giovanni Paolo II e due milioni di giovani nella veglia della GMG a Roma nel 2000, aveva affermato che l’unica via per dare una svolta al conflitto civile nel suo paese lui la coglieva nella volontà di concedere perdono agli uccisori di suo fratello: «volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità. È questa la via istituzionale — possiamo anche dire politica — della carità, non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis. In una società in via di globalizzazione, il bene comune e l’impegno per esso non possono non assumere le dimensioni dell’intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle Nazioni» (7).

Citando Paolo VI, in quella che definisce «la Rerum novarum dell’epoca contemporanea», ne ricorda l’affermazione fondamentale in Populorum progressio: l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo, quello che conduce ad uno sviluppo umano integrale (8). La Chiesa non ha soluzioni tecniche né pretese ad intromettersi nella politica degli Stati, ma una missione che la guida: la fedeltà all’uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà (Gv 8,32) e della possibilità di uno sviluppo umano integrale. Con la sua dottrina sociale, al servizio della verità che libera, può aiutare un’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano nelle sfide emerse in un mondo di progressiva e pervasiva globalizzazione (9).

Nel primo capitolo l’enciclica richiama il messaggio della Populorum progressio, nel suo legame con il Concilio Vaticano II e in particolare con la Costituzione pastorale Gaudium et spes.

Due grandi verità sono comunicate in questa lettera. La prima è che tutta la Chiesa, quando annuncia, celebra e opera, è tesa a promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo. La seconda verità è che l’autentico sviluppo dell’uomo riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione. Non la sola dimensione “storica”, ma anche la prospettiva di una “vita oltre la vita”. Senza questa, si rischia di ridursi al solo incremento “terreno” dell’avere, perdendo le motivazioni verso beni più alti quali quelli dello sviluppo dei popoli. Un tale sviluppo dipende, dunque, anche dalla dimensione trascendente dell’uomo e, si noti bene, questo è il motivo fondante per il quale le istituzioni non sono in grado da sole di poterlo garantire e realizzare. Lo sviluppo umano integrale è anzitutto vocazione e, quindi, comporta una libera e solidale assunzione di responsabilità da parte di tutti (11; cf. anche 16-18).

Paolo VI comprese chiaramente come la questione sociale fosse diventata mondiale e colse il richiamo reciproco tra la spinta all’unificazione dell’umanità e l’ideale cristiano di un’unica famiglia dei popoli, solidale nella comune fraternità (13). Con la Lettera apostolica Octogesima adveniens (1971), egli trattò il tema del senso della politica e del pericolo costituito da visioni utopistiche e ideologiche che ne pregiudicavano la qualità etica e umana. Dall’ideologia tecnocratica, particolarmente radicata oggi, Paolo VI aveva già messo in guardia (14).

Benedetto XVI cita anche altri due documenti del magistero di Paolo VI, non strettamente connessi con la dottrina sociale, l’Enciclica Humanae vitae (1968) e l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975), le quali inquadrano il legame profondo esistente tra lo sviluppo dei popoli e la difesa della vita umana e tra la promozione umana e l’evangelizzazione (15).

A questo punto, diventa decisivo domandarsi quali sono le cause del sottosviluppo. Per Paolo VI queste non sono semplicemente di ordine materiale. Una delle cause è quella della mancanza di volontà verso l’attuazione della solidarietà e la mancanza di un pensiero volto ad un nuovo umanesimo. La mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli è, oggi come ieri, il drammatico ostacolo alla realizzazione di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, di questo umanesimo integrale. La società globalizzata ci rende sempre più vicini ma questo non ci rende fratelli. La ragione da sola stabilisce le basi per una uguaglianza e una convivenza civile ma questo non basta a fondare una fraternità. Questa ha origine solo dalla dimensione trascendentale che si richiama ad un solo Padre di cui siamo tutti figli: la realizzazione di un’autentica fraternità è dunque necessaria per realizzare lo sviluppo integrale dell’uomo e dei popoli (19).

Nel secondo capitolo della Caritas in veritate Benedetto XVI aggancia il messaggio sullo sviluppo di Paolo VI al contesto del primo decennio del Terzo Millennio, a quarant’anni dalla Populorum progressio. L’analisi del papa bresciano è articolata perché, partendo dall’obiettivo di sconfiggere fame, malattie e analfabetismo (oggi tutto ritorna nell’Agenda ONU 2030), inquadra le dimensioni economica, sociale e politica, auspicando che “i popoli della fame” si affranchino dalle loro “dipendenze” per assurgere come soggetti protagonisti in tutti questi aspetti.

È innegabile che ci sia stato uno sviluppo che ha permesso a miliardi di persone di uscire dalla miseria e a diversi paesi di divenire economie “emergenti”. Ma non possono essere negati gravi distorsioni che provocano drammatici problemi: «le forze tecniche in campo, le interrelazioni planetarie, gli effetti deleteri sull’economia reale di un’attività finanziaria mal utilizzata e per lo più speculativa, gli imponenti flussi migratori, spesso solo provocati e non poi adeguatamente gestiti, lo sfruttamento sregolato delle risorse della terra, ci inducono oggi a riflettere sulle misure necessarie per dare soluzione a problemi non solo nuovi rispetto a quelli affrontati dal Papa Paolo VI» (21).

Indubbiamente, oggi, la linea di demarcazione tra Paesi ricchi e poveri non è più così netta come ai tempi della Populorum progressio. Di fatto, cresce la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità. Nei paesi ricchi aumenta il numero di coloro che cadono in povertà. In quelli emergenti e non ancora emergenti perdurano situazioni di miseria disumanizzante. I diritti dei lavoratori vengono calpestati sia da aziende locali come da grosse multinazionali. Il diritto immateriale di protezione della conoscenza intellettuale, specie in campo sanitario, pone pesanti barriere allo sviluppo da parte dei paesi ricchi nei confronti di quelli poveri (pensiamo alle multinazionali farmaceutiche) (22).

Giovanni Paolo II chiese che, dopo il crollo del sistema del comunismo reale, venisse riprogettato un nuovo modello globale di sviluppo, ma questo non è avvenuto (23). Paolo VI poteva già affermare che la questione sociale era una questione mondiale, ma al suo tempo la gestione dell’economia avveniva in gran parte all’interno delle politiche degli Stati nazionali, oggi superate dall’integrazione mondiale provocata dalla “globalizzazione” (24).

La delocalizzazione della produzione ha avuto la conseguenza di ridurre i sistemi di protezione e di previdenza sociale, con la perdita di lavoro in alcune aree, non raramente accompagnata dallo sfruttamento dello stesso in altre aree. Le stesse organizzazioni sindacali sono divenute sempre meno incisive a causa di questi sviluppi. Con conseguenze negative anche nella sfera psicologica, affettiva e familiare (25) e del rapporto sempre più “eclettico e appiattito” tra culture (26). La fame continua ad essere un fenomeno di cui soffre ancora una parte numerosa dell’umanità. Le sue cause sono in gran parte dovute all’irresponsabilità delle politiche nazionali ed internazionali non impostate sul lungo periodo e senza promozione di politiche agricole e investimenti adeguati a riguardo (27).

Benedetto XVI ritorna anche sulla necessità del rispetto della vita, perché sia garantito un pieno sviluppo dei popoli, denunciando i mali dell’aborto, delle politiche di sterilizzazione e dell’eutanasia (28). Altro aspetto di negazione dell’autentico sviluppo è quello legato alla negazione del diritto alla libertà religiosa. Fanatismo, indifferenza religiosa, ateismo pratico sottrae allo sviluppo dei popoli le loro risorse spirituali ed umane (29).

Paolo VI aveva visto con chiarezza che tra le cause del sottosviluppo c’è una mancanza di sapienza, di riflessione, di pensiero in grado di operare una sintesi. L’eccessiva settorialità del sapere, la chiusura delle scienze umane alla metafisica, le difficoltà del dialogo tra le scienze e la teologia sono di danno non solo allo sviluppo del sapere, ma anche allo sviluppo dei popoli, perché, quando ciò si verifica, viene ostacolata la visione dell’intero bene dell’uomo nelle varie dimensioni che lo caratterizzano. L’«allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa» è indispensabile per riuscire a pesare adeguatamente tutti i termini della questione dello sviluppo e della soluzione dei problemi socio-economici (31).

[1^ parte]

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Giubileo “centrifugo”: il lavoro è per l’uomo!

A quarant’anni dalla “Laborem exercens” è ancora utile domandarsi cosa c’è da fare, dal punto di vista cristiano, per il lavoro ed i lavoratori.

26 Luglio 2024

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Teologia

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Stiamo riprendendo le indicazioni preziose dei vescovi di Roma, attraverso il magistero delle loro encicliche sociali, per poter realizzare un giubileo che sia vissuto in maniera centrifuga.

A Giovanni Paolo II dobbiamo il lascito di tre encicliche sociali: La Sollicitudo rei socialis pubblicata nel ventesimo anniversario della Populorum Progressio di Paolo VI, la Centesimus annus che prende nome e spunto richiamandosi al centenario della prima delle encicliche sociali (la Rerum Novarum di Leone XIII)  e la Laborem exercens, pubblicata dieci anni prima nel novantesimo anniversario della stessa.

La prima di queste sue tre encicliche sociali, quella dedicata al lavoro, ha il merito di inquadrare in maniera teologica, secondo la sua fondazione biblica, un tema fondamentale per la vita dell’uomo nella storia dell’umanità: non dunque solamente “sociale” e specificamente “umano”, ma corrispondente ad una precisa indicazione “divina” che inizia al culmine del racconto sulla creazione in Gn 1,28 e trova come suo massimo esempio l’esperienza dello stesso Gesù come lavoratore:

Il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l’uomo dal resto delle creature, la cui attività, connessa col mantenimento della vita, non si può chiamare lavoro; solo l’uomo ne è capace e solo l’uomo lo compie, riempiendo al tempo stesso con il lavoro la sua esistenza sulla terra. Così il lavoro porta su di sé un particolare segno dell’uomo e dell’umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone; e questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce, in un certo senso, la stessa sua natura (1).

Fondamentale la distinzione tra il lavoro “oggettivo” (visto dallo sguardo della scienza e della tecnica) e “soggettivo” (che riguarda l’uomo come persona e la sua stessa piena realizzazione): il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso, il suo soggetto (6). Dunque, le concezioni che vedono il lavoro come una “merce” escono dall’attenzione al suo valore soggettivo per rimanere intrappolate nella sua visione oggettiva (7).

In tal senso, è importante ricordare storicamente la “questione operaia” o “questione proletaria” (8). Il lavoro, infatti, non produce i soli risultati, materiali od intellettuali che siano, ma “nobilita l’uomo”, realizzandolo più pienamente nella sua umanità, ecco la “dignità del lavoro”. Se è vero che la “laboriosità” è una virtù, bisogna impegnarsi perché moralmente il lavoro aumenti la dignità dell’uomo, senza diminuirla, come avviene nel caso di lavori forzati o sfruttamento dei lavoratori (9). Il lavoro è inoltre il fondamento su cui si forma la vita familiare, la quale è un diritto naturale ed una vocazione dell’uomo (10).

Giovanni Paolo II ricorda, poi, il conflitto tra il lavoro e il capitale, che ha portato storicamente alla contrapposizione tra il liberismo e il collettivismo, con la cosiddetta “lotta di classe”. A tal riguardo, il magistero conferisce un primato al bene che è il lavoro, rispetto al capitale (12). L’antinomia lavoro-capitale è in realtà sbagliata perché i due termini non sono separabili né gli uomini che li rappresentano devono contrapporsi; ma nasce da un pensiero che trae le sue radici nel materialismo che porta all’economismo (13). Decisivo, allora, riconoscere i diritti dei lavoratori: il problema della disoccupazione, il salario, le persone disabili, l’emigrazione legata al lavoro, il ruolo dei sindacati (16-23).

L’enciclica si chiude con la traccia di alcuni elementi per una spiritualità del lavoro. Innanzitutto la sua vocazione di collaborazione all’opera creatrice di Dio; poi, l’esempio di Gesù che ha condiviso l’esperienza del lavoro umano facendola sua per gran parte della sua vita; infine, la luce che viene all’esperienza del lavoro e dei lavoratori dalla Croce e dalla Risurrezione di Cristo (24-27).

A oltre quarant’anni da questa enciclica sociale sul lavoro, quali considerazioni possiamo fare perché anche questo tema sia ripreso e promosso dal prossimo giubileo?

Intanto, è interessante ricordare che il lavoro è una delle “tre T” (tierra, techo y trabajo) proposta da papa Francesco come riferimenti cardine degli incontri mondiali dei movimenti popolari da lui promossi. Ho sempre pensato che l’equazione fondamentale che sintetizza tutta l’opera di Karl Marx, ossia che gli interessi del capitale sono inversamente proporzionali a quelli del lavoro e dei lavoratori, è purtroppo tragicamente vera non solo per le sue realizzazioni storiche, ma anche e soprattutto per la realtà diffusa che è sotto gli occhi di tutti e che riguarda le esperienze del lavoro, nella nostra nazione come in tutto il mondo. Un articolo dell’economista Rodrigo Andrea Rivas illustra come in realtà il capitale finanziario sia oggi quello che dirige gli investimenti reali, a danno della realizzazione di nuovi posti reali di lavoro. Come non ricordare, in tal senso, l’accorata “Lettera a don Piero”, pubblicata su “Esperienze pastorali” nel 1957 da don Lorenzo Milani, in cui viene denunciato l’utilizzo del progresso tecnico riguardante i nuovi telai nell’industria tessile fiorentina, sfruttati a beneficio del proprietario e a danno disumano dei lavoratori? Come non accostarla alle interviste di Silvestro Montanaro ai bambini brasiliani che lavorano nelle cave di pietra proposte nel documentario “Con il cuore coperto di neve”?

Se è vero che gli italiani sono stati negli ultimi due secoli un “popolo di emigranti”, oggi è impressionante la lettura mondiale legata al “mercato del lavoro”. Nell’esperienza vissuta da cinque anni da me, da mia moglie e da altri docenti volontari con la “scuola di italiano L2 don Mimmo Amato”, stiamo avendo l’opportunità di incontrare e conoscere immigrati che arrivano in Italia per costruirsi un futuro migliore. Ci sono padri e madri di famiglia, spesso laureati, che accettano di lasciare le loro famiglie nelle nazioni sudamericane, africane ed asiatiche, per recarsi in Italia a compiere lavori spesso manuali, nell’agricoltura, nella zootecnia, nelle industrie, nelle ditte di manovalanza edile e non solo. Se lo fanno, è evidente che le rimesse in euro che possono inviare alle loro famiglie in patria sono per loro vantaggiose a motivo del cambio con le valute delle loro nazioni. Di contro, i giovani italiani, spesso laureati, si vedono costretti a scegliere di emigrare all’estero per trovare migliori condizioni di lavoro e di riconoscimento economico e dunque nuove prospettive di vita. Forse c’è qualcosa che non funziona in tutto questo.

In effetti, sono proprio i diritti dei lavoratori che sembrano ancora una volta oggi negati dai vari sfruttamenti che avvengono nel mondo con il lavoro minorile, i bassi salari, l’assenza di adeguati riconoscimenti legislativi e voci sindacali; purtroppo questo riguarda anche la nostra nazione, non solo con le situazioni illegali legate alle gestioni dei vari “caporali” di turno. Ciò che deve chiamare in causa le istituzioni e le coscienze dei cittadini sono le condizioni “legali”, quali, ad esempio, lo sfruttamento del lavoro usurante dei “raider” o degli operai delle varie aziende dove si continua a morire in maniera impressionante e sotto il più diffuso silenzio.

Nel percorso di riflessione svolto quest’anno all’Auxilium sull’intelligenza artificiale non mi sono sfuggite due considerazioni, tra le altre, da parte di uno dei relatori: ad oggi i motori che mandano in rete l’AI hanno bisogno a livello industriale di essere raffreddati da condutture idriche di acqua potabile, e questo significa che c’è un costo ecologico enorme di questi sistemi; l’altro punto, che riguarda il nostro tema, è quello del lavoro: certamente si creeranno nuove tipologie di posti di lavoro ma, nel complesso, gli analisti prevedono che l’utilizzo delle AI sia destinata non solo a sveltire il lavoro ma anche ad eliminare centinaia di migliaia di posti di lavoro reali! Le analisi di Marx e la denuncia di don Milani rimangono dunque enormemente attuali.

Probabilmente i governi nazionali e gli organismi sovranazionali dovranno studiare una qualche forma di alternativa, perché, se è vero che il lavoro realizza più pienamente la dignità dell’uomo, come ben afferma la Laborem exercens, è anche vero che milioni di esseri umani, abili allo stesso, sono di fatto “tagliati fuori” dal “mercato del lavoro”. Se quella del “reddito di cittadinanza” è stata un’esperienza che ha avuto anche i suoi limiti, è necessario politicamente provvedere a coloro che vivono la situazione della disoccupazione, anche in ossequio all’Art. 1 della nostra Costituzione.

In conclusione, mi sembra opportuno ricordare lo sfogo di una giovane famiglia dove entrambi lavoravano dalla mattina alla sera per portare a casa i soldi e ripagare, insieme con le varie spese, il debito del mutuo col quale avevano acquistato la loro abitazione. Fortunatamente, potevano contare sui loro genitori, i quali, da nonni volenterosi, si occupavano dei loro piccoli nipoti; la sera, stanchi, al ritorno dal lavoro, dovevano gestire in poche ore tutta la loro esperienza di coniugalità e di genitorialità, con ovvie problematiche legate al poco tempo a disposizione. Anche chi ha l’opportunità di lavorare, a volte, vive il dramma e la stortura di essere costretto a vivere per lavorare e non a lavorare per vivere!

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Giubileo “centrifugo”: quale sviluppo dei popoli?

Rileggendo la “Populorum progressio”, alla luce dell’Agenda ONU 2030, è doveroso chiedersi a che punto sia lo sviluppo dei popoli

16 Luglio 2024

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Teologia

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Il 26 marzo 1967, Pasqua di Risurrezione, Paolo VI pubblica la lettera enciclica “Populorum progressio”.  A quasi 60 anni è ancora attuale rileggere questo scritto, come già avvenuto con la Pacem in terris (qui e qui), alla luce del nostro avvicinamento ad un Giubileo che sia vissuto in maniera “centrifuga”.

Nell’introduzione il Pontefice interpella i “popoli dell’opulenza”, presentando la questione sociale di un giusto sviluppo dei “popoli della fame” che lottano contro la fame, la miseria, l’assenza di assistenza sanitaria, e dei quali si fece “avvocato” presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (1-3), dopo aver già costituito in Vaticano la commissione pontificia “Giustizia e Pace” (5).

Paolo VI, definendo la Chiesa come “esperta di umanità”, afferma che essa non pretende d’intromettersi nella politica degli Stati, ma solo “scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo”, per aiutare i popoli a raggiungere la loro piena fioritura (12-13). La visione cristiana dello sviluppo è quella di uno “sviluppo integrale”, volto necessariamente e imprescindibilmente alla “promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo” (14), perché “ogni vita è vocazione” (15) a un “umanesimo nuovo” (20) e “plenario” (42), a uno “sviluppo solidale dell’umanità” (43; 48).  Affinché, però, si costruisca tale “sviluppo integrale” dell’uomo, è necessario promuovere: l’istruzione e l’“avere di più per essere di più” (6; 35), sollecitando uno “sforzo della sua intelligenza e della sua volontà” (15); la destinazione universale dei beni (22, 23), anche a costo di utilizzare l’espropriazione dei beni (24); Il lavoro “umano” intelligente e libero (27-28); la lotta decisa contro la piaga della fame (45-47); la realizzazione di un Fondo mondiale per lo sviluppo (51); la subordinazione della libertà degli scambi all’orizzonte della giustizia sociale (59); la costruzione di un ordine giuridico universalmente riconosciuto (78).

D’altra parte, se non vogliamo limitarci a ricordare solo le opere buone dei colonizzatori (scuole, ospedali, strade, ecc.), non si possono non denunciare le storture del colonialismo, come la monocoltura (7) e il razzismo (63), e del neocolonialismo (52); le scandalose diseguaglianze, sia in termini di beni (in primis alimentari) che di potere (8-9; 21); il rigetto delle tradizioni locali (10); l’avarizia come “forma più evidente del sottosviluppo morale” (19; 41; 49); l’industrializzazione sottoposta alla dittatura del capitalismo liberale e all’imperialismo internazionale del denaro, con profitti, concorrenza e proprietà privata dei mezzi di produzione senza limiti né obblighi sociali (25-26); la legge del libero scambio con condizioni di partenza troppo disparate (58); il nazionalismo autoreferenziale (62). Anche perché, come già è stato sperimentato in passato (34), i pericoli che ne derivano, per l’avvenire pacifico della civiltà mondiale (44; 55; 87), sono quelli di reazioni popolari violente e agitazioni insurrezionali (11), sì da condannare, ma continuando a riconoscere e combattere queste enormi ingiustizie sociali (29ss.).

Possiamo ora chiederci in che modo questa enciclica, il cui appello accorato è ancora drammaticamente attuale, possa illuminarci sulla correlazione, fondamentale, tra la pace e lo sviluppo dei popoli. Prendiamo in considerazione solamente gli obiettivi 1, 2 e 6 presentati nell’ultimo Report 2024 delle Nazioni Unite sull’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.

Nel 2022 circa 735 milioni di persone hanno sofferto la fame. Fame globale, misurata dalla prevalenza della denutrizione è rimasta relativamente è ancora molto al di sopra dei livelli pre-pandemia COVID-19, che colpiscono circa il 9,2% della popolazione mondiale nel 2022 rispetto al 7,9% nel 2019. Circa il 29,6% della popolazione mondiale – 2,4 miliardi persone – soffrivano di insicurezza alimentare moderata o grave nel 2022, di cui circa 900 milioni (11,3 per cento delle persone nel mondo) soffrivano di grave insicurezza alimentare. La malnutrizione tra i bambini sotto i 5 anni rimane una preoccupazione significativa, comportando rischi maggiori per la loro crescita e il loro sviluppo. A livello globale nel 2022, si stima che lo fossero il 22,3% dei bambini sotto i 5 anni, ovvero 148 milioni colpiti da arresto della crescita (troppo bassi per la loro età), in calo rispetto al 24,6%. nel 2015. Sulla base delle tendenze attuali, 1 su 5 (19,5%) dei bambini sotto l’età di 5 anni sarà colpita dall’arresto della crescita nel 2030.

Nel 2022, quasi il 60% dei paesi di tutto il mondo si è trovato ad affrontare condizioni di prezzi alimentari anormalmente elevati a causa degli effetti di propagazione dei conflitti, come ad esempio gravi interruzioni della logistica e delle catene di approvvigionamento alimentare dopo lo scoppio della guerra in Ucraina che ha comportato un aumento dei prezzi dei prodotti alimentari ed energetici. La guerra ha esercitato una forte pressione al rialzo anche sui prezzi dei fertilizzanti, aggiungendo incertezza alle decisioni degli agricoltori in materia di semina.

Nonostante alcuni miglioramenti, i progressi nel campo dell’acqua e dei servizi igienico-sanitari rimangono insufficienti. Al ritmo attuale, nel 2030, 2 miliardi di persone vivranno ancora senza acqua potabile gestita in modo sicuro, 3 miliardi senza servizi igienico-sanitari gestiti in modo sicuro e 1,4 miliardi senza servizi igienici di base. Nel 2022, circa la metà della popolazione mondiale ha sperimentato una grave scarsità d’acqua per almeno una parte dell’anno. Un quarto ha dovuto affrontare livelli “estremamente elevati” di stress idrico. Il cambiamento climatico peggiora questi problemi, comportando rischi significativi per la stabilità sociale. Sebbene 153 Stati membri condividano le acque transfrontaliere, solo una regione è sulla buona strada per coprire tutti i fiumi, i laghi e le falde acquifere transfrontaliere con accordi di cooperazione entro il 2030.

La gestione sostenibile delle risorse idriche è alla base della prosperità e della pace per tutti. Richiede maggiori finanziamenti, un processo decisionale più basato sui dati, sviluppo della forza lavoro qualificata, tecnologia innovativa, compresa l’intelligenza artificiale (AI), e una solida collaborazione intersettoriale. Il degrado della qualità dell’acqua dal 2017 è una tendenza preoccupante basata sui dati provenienti da paesi con ampi programmi di monitoraggio. Questa tendenza potrebbe essere globale, dati i tassi di trattamento delle acque reflue più bassi in molti paesi a basso reddito, ma la conferma insufficiente dei dati limite. La mancanza di dati oscura i primi segnali di allarme, ostacola gli sforzi di ripristino e mette a repentaglio i servizi eco-sistemici di acqua dolce.

Dopo l’assistenza tecnica e il lavoro svolto dalle agenzie specializzate nei primi anni della fondazione delle Nazioni Unite, si pose problema dello sviluppo. Man mano che sempre più Stati membri, a livello internazionale, aderirono alle Nazioni Unite, espressero nuovi interessi e preoccupazioni sulla questione dello sviluppo che sono state successivamente considerati nel quadro delle Nazioni Unite. Ricordiamo che nel 1958, l’Assemblea Generale istituì un Fondo Speciale in virtù della risoluzione A/RES/1219 (XII), precedente al Fondo di Sviluppo delle Nazioni Unite. La risoluzione afferma parzialmente:

L’Assemblea Generale, in conformità con la determinazione delle Nazioni Unite, espressa nella Carta, di promuovere il progresso sociale e l’innalzamento del tenore di vita all’interno di un concetto più ampio di libertà e, a tal fine, utilizzare le istituzioni per promuovere la progresso economico e sociale di tutti i popoli… [decide di istituire un] Fondo speciale separato con il quale verrà fornita assistenza sistematica e duratura in aree fondamentali per lo sviluppo tecnico, economico e sociale integrato dei paesi meno sviluppati“.

Per questo chiudiamo con il rimando alla voce “Sottosviluppo” dell’Enciclopedia Treccani che presenta interessanti riflessioni. Rispetto agli stadi della caccia e pesca, della pastorizia e agricoltura, e dell’economia fondata sul lavoro degli schiavi, nell’epoca moderna distinguiamo tre stadi ulteriori: agricoltura feudale, capitalismo mercantile e capitalismo industriale. Il “sottosviluppo” di cui soffrono buona parte delle nazioni dei continenti africano, asiatico e sudamericano è dovuto, storicamente, al loro passato coloniale – oggi trasformatosi in quel “neocolonialismo” delle multinazionali già denunciato da Paolo VI. Riuscirà il Giubileo, alla luce delle motivazioni bibliche della sua istituzione, ad essere una preziosa “vetrina” per dar voce a questi “popoli della fame” – ai “poveri” tanto cari a Papa Francesco – e a convincere – soprattutto noi “popoli dell’opulenza” – ad agire per la risoluzione degli insensati conflitti armati che sono tra le prime cause di negazione del giusto sviluppo dei popoli?

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La forza storica dei poveri e degli oppressi

Pubblico la traduzione in italiano di un articolo in portoghese di Leonardo Boff dal suo sito

15/02/2024 Leonardo BoffLascia un commento

                              Leonardo Boff

Mi ha sempre colpito una piccola storia raccontata nel libro dell’Ecclesiaste del Primo Testamento (o dell’Antico). Ecclesiaste presume di essere il saggio re Salomone. Sarebbe quello che oggi chiameremmo un accademico o un professore universitario (in ebraico Qohelet). È conosciuto con l’espressione “vanità, pura vanità, tutto è vanità”(1,2). Alcune traduzioni moderne traducono: “illusione, pura illusione; tutto è illusione”.

Ogni libro è una ricerca instancabile della felicità che però si trova di fronte all’inevitabile morte che rende tutte le ricerche illusioni, pure illusioni. Ciò non significa che smetta di essere timorato di Dio ed etico quando si indigna di fronte all’oppressione: “quante sono le lacrime degli oppressi che non hanno nessuno che li consoli quando sono sotto il potere degli oppressori…felice è colui che non è mai nato perché non ha visto il male che si commette sotto il sole” (4,1.3).

La breve storia è questa:

” C’era una città con pochi abitanti. Un re potente marciò su di essa, la circondò e alzò contro di essa grandi rampe d’attacco. C’era un uomo povero ma saggio in città che avrebbe potuto salvare la città con la sua saggezza. Ma nessuno si ricordava di quel poveretto. La sapienza del povero è disprezzata e le sue parole non vengono mai ascoltate » (9,14-16).

Questa osservazione mi riporta alla teologia della liberazione latinoamericana. È una teologia il cui asse articolante è l’opzione non esclusiva per i poveri e la loro liberazione”. Dà centralità ai poveri come nel vangelo del Gesù storico: «beati i poveri, perché a voi appartiene il Regno di Dio» (Lc 6,20). Ma c’è qualcosa di senza precedenti nella Teologia della Liberazione che supera il tradizionale welfare e paternalismo che dava carità ai poveri ma li lasciava nella loro situazione di povertà.

La Teologia della Liberazione ha aggiunto qualcosa di unico: riconoscere la forza storica dei poveri. Hanno cominciato a prendere coscienza che la loro povertà non è voluta da Dio, né è naturale, ma è conseguenza di forze sociali e politiche che li sfruttano per arricchirsi a loro spese, rendendoli così poveri. Quindi non sono semplicemente poveri, sono oppressi. Contro ogni oppressione, vale la pena liberarsi. Consapevoli di questo fatto e organizzate, si costituiscono forze sociali capaci, insieme ad altre forze, di cambiare la società affinché sia ​​migliore, non così ingiusta, oppressiva e diseguale.

I cristiani si ispirano alla tradizione dell’Esodo (“Ho udito il grido del mio popolo oppresso, sono sceso per liberarlo”: Es 3,7), quella dei profeti che, contro gli oppressori dei poveri e delle vedove, ha denunciato le élite dominanti e i re (Isaia, Amos, Osea, Geremia), facendo dire a Dio: “Voglio misericordia e non sacrifici; cercate la giustizia, correggete l’oppressore, giudicate la causa dell’orfano e difendete la vedova» (Isaia, 1,17). Ma soprattutto nella pratica del Gesù storico che evidentemente è sempre stato dalla parte della vita sofferente, soprattutto dei poveri, dei malati, degli emarginati, delle donne, guarendo e portando avanti una pratica veramente liberatrice dalla sofferenza umana. Annunciava loro il progetto di Dio, una rivoluzione assoluta: un Regno di amore, di pace, di perdono, di compassione e anche di dominio sulla natura ribelle.

Questa è la base della teologia della liberazione. Marx non è stato né il padre né il padrino di questo tipo di teologia, come molti lo accusano ancora oggi. Ma si basa sulla tradizione profetica e sulla pratica del Gesù storico. Non dimentichiamo che fu giudicato, condannato ed eretto in croce da religiosi dell’epoca legati al potere politico romano. A causa della libertà presa di fronte a leggi oppressive e all’immagine di un Dio vendicatore. Ha messo tutto sotto il vaglio dell’amore e della misericordia. Se non serviva all’amore e non portava alla misericordia, rompeva con usi e costumi che gravavano sulla vita di un intero popolo.

La Teologia della Liberazione ha dato un voto di fiducia nei poveri, considerandoli protagonisti della propria liberazione e attori di una società come la nostra che crea sempre più poveri e li disprezza vergognosamente e li relega alla marginalità. Si basa sullo sfruttamento delle persone, sulla competizione e non sulla solidarietà e sulla depredazione irresponsabile della natura e non sulla cura.

L’esperienza che abbiamo fatto è esattamente quella raccontata nel libro dell’Ecclesiaste: i poveri sono saggi, ci insegnano, perché la loro conoscenza viene dall’esperienza; Scambiamo conoscenza, tra la nostra conoscenza scientifica e la loro conoscenza esperienziale, e così uniamo le forze. Abbiamo scoperto che quando si organizzano in comunità, in movimenti e come cittadini partecipano a partiti che cercano la giustizia sociale, rivelano la loro capacità di fare pressione e persino di imporre trasformazioni sociali. Ma quanti politici nei parlamenti, pochi governi li ascoltano e soddisfare le tue richieste? In genere contano solo quando ci sono le elezioni per sedurli nei loro progetti, che sono generalmente fittizi.

Vi racconto, non senza un certo imbarazzo, cosa mi è successo. Il grande filosofo e giurista Norberto Bobbio dell’Università “degli Studii” di Torino ha voluto onorare la Teologia della Liberazione, conferendomi il titolo di “doctor honoris causa” in politica. Settori del Vaticano e il cardinale di Torino esercitarono forti pressioni perché questo evento non accadesse, cosa che irritò molto il filosofo-giurista Bobbio. L’evento avvenne alla sua presenza, già vecchio e malato. Nel diploma universitario si legge: “La personalità del francescano Leonardo Boff si distingue sia nella ricerca nelle scienze politiche e teologiche, sia nell’impegno etico e sociale. I suoi scritti e la sua riflessione, fortemente originali e animati da passione civica, sono al centro di un fervente dibattito politico ed ecclesiale nel mondo contemporaneo”. Il 27 novembre 1990 mi è stato concesso il suddetto titolo.

Noberto Bobbio rimase talmente colpito dalla masterclass che tenni, come ringraziamento per il titolo, che commentò: «Noi, a sinistra, dovremmo aspettare che un teologo ci ricordi che i poveri sono soggetti della storia» (cfr. M.Losano, Norberto Bobbio: una biografia culturale , E.Unesp 2022, pp 460-463).

Per me è stata la conferma della verità del racconto dell’Ecclesiaste: dobbiamo ascoltare i poveri (per questo mi hanno onorato del titolo) che prima di leggere il testo, leggono correttamente il mondo. Senza la loro saggezza e quella dei popoli originari, non salveremo le nostre società e non eviteremo le catastrofi della nostra civiltà.

Leonardo Boff ha scritto: Brasile: completare la rifondazione o prolungare la dipendenza, Vozes 2018; La ricerca della giusta misura: come bilanciare il pianeta Terra , Vozes 2023.

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L’Ucraina a un bivio: porre fine alla guerra o rischiare la sconfitta

Pubblico traduzione dellarticolo su The National Interest del 9 luglio 2024 di  Daniel L. Davis


https://nationalinterest.org/feature/ukraine-crossroads-end-war-or-risk-defeat-211780


L’Ucraina a un bivio: porre fine alla guerra o rischiare la sconfitta


L’Ucraina ha una finestra molto ristretta per volgere lo slancio della guerra a proprio favore. Anche in questo caso, però, la maggior parte delle carte sono ancora in mano ai russi.


di  Daniel L. Davis


Nel maggio 2022, a soli tre mesi dall’inizio della guerra Russia-Ucraina, ho scritto una serie in tre parti 

https://www.19fortyfive.com/2022/05/ukraine-plan-to-win/

https://www.19fortyfive.com/2022/05/how-ukraine-can-drive-russia-out-part-ii-deepening-the-defense/

https://www.19fortyfive.com/2022/05/counterattack-how-ukraine-can-drive-russia-out-part-iii-building-an-offensive-army/

in cui ho identificato la strategia militare che avrebbe dato all’Ucraina le migliori possibilità di ottenere una sorta di successo tattico sulla Russia. Non avrebbe garantito il successo, avevo avvertito, ma era una strada percorribile. Alla fine, l’Ucraina non ha fatto praticamente nulla di ciò che avevo raccomandato mentre, per ironia della sorte, la Russia ha utilizzato con successo diversi elementi chiave del percorso da me tracciato.

Ora, mentre ci avviciniamo ai due anni e mezzo di guerra e l’Ucraina viene respinta su tutti i fronti,   https://www.bbc.com/news/world-europe-60506682

riprenderò i miei sforzi e traccerò un percorso realistico ma difficile attraverso il quale l’Ucraina potrebbe ancora rubare qualche successo militare alla Russia.

Avvertirò fin dall’inizio che non esiste alcun percorso, per quanto dotato di risorse adeguate, attraverso il quale l’Ucraina possa infliggere una sconfitta militare definitiva alla Russia nel prossimo futuro. La Russia è troppo grande, troppo dotata di risorse e di personale per poter essere battuta dall’Ucraina. Tuttavia, se gestite abilmente, a volte anche le sconfitte tattiche di un avversario più debole possono essere sfruttate per ottenere un successo strategico. Il seguente piano rappresenta una tale opportunità.

Il centro di gravità russo

La Russia è un colosso che ha molti punti di forza: enormi quantità di risorse naturali, diversi alleati vitali che possono fornire materiale bellico, una base industriale militare ampia e in espansione e più di tre volte più uomini in età militare dell’Ucraina. Uno dei maggiori vantaggi che hanno potrebbe essere un’elevata tolleranza al sacrificio e alla sofferenza. Storicamente parlando, la Russia ha sostenuto un tasso di vittime spaventoso nel corso di numerose guerre e ha comunque mantenuto il sostegno o l’acquiescenza dell’opinione pubblica. Ma ciò non significa che la Russia non abbia punti deboli.

Nel gergo militare, “centro di gravità” è un termine che rappresenta la “caratteristica, capacità o posizione da cui le forze nemiche e amiche traggono la loro libertà di azione, forza fisica o volontà di combattere”. Il centro di gravità della Russia poggia su due pilastri: la sua capacità di condurre fisicamente la guerra (manodopera, armamenti, munizioni e capacità industriale) per un lungo periodo e il sostegno politico della sua popolazione. 

Senza entrambi, Putin non può combattere o vincere una guerra. Per strappare qualsiasi successo strategico alla Russia, l’Ucraina dovrà sbilanciare il centro di gravità della Russia abbastanza da costringere Putin ad accettare un risultato tutt’altro che auspicabile. Sarà estremamente difficile.

L’obiettivo strategico principale della Russia è ridurre la minaccia convenzionale al confine occidentale a un livello gestibile. Sembrano convinti che la NATO al confine con l’Ucraina rappresenti una “minaccia esistenziale” e disposti a pagare qualunque prezzo finanziario o politico necessario per realizzarla.

Allo stato attuale, Putin crede chiaramente che la Russia sia al posto di guida e possa raggiungere i suoi obiettivi politici con le risorse militari e finanziarie di cui dispone. L’Ucraina deve cambiare questo calcolo. Per accertare se questa sia una possibilità valida, tuttavia, è necessario considerare la capacità dell’Ucraina e dei suoi sostenitori occidentali di condurre e vincere una simile battaglia.

Centro di gravità e capacità ucraino 

Il centro di gravità dell’Ucraina è essenzialmente lo stesso. Il presidente Volodymyr Zelenskyj deve sostenere contemporaneamente la capacità di fare la guerra nel tempo, il sostegno politico interno e l’assistenza economica, diplomatica e militare internazionale. Senza nessuna di queste componenti (soprattutto la terza), l’Ucraina non può vincere.

La Russia ha una ricchezza di risorse naturali in tutto il suo paese e la capacità industriale interna di sostenersi quasi indefinitamente in una guerra. L’Ucraina ha gravi limitazioni nella sua fornitura di risorse naturali e rappresenta solo una frazione della capacità produttiva interna della Russia. Senza un massiccio e duraturo sostegno materiale e diplomatico da parte del resto del mondo, l’Ucraina non può intraprendere una battaglia di logoramento a lungo termine. Anche con questo sostegno esterno, Kiev potrebbe non essere in grado di vincere a causa della sua vulnerabilità più importante: la manodopera.

Manodopera militare non significa semplicemente quante persone un paese può far indossare alle uniformi, ma quanti professionisti addestrati può mobilitare in unità di combattimento organizzate ed efficaci. In un recente studio del Royal United Services Institute, l’autore Alex Vershinin evidenzia qualcosa che pochi non veterani capiscono. L’idea “che ai civili possano essere impartiti corsi di addestramento di tre mesi, i gradi di sergente e poi ci si aspetta che si comportino allo stesso modo di un veterano di sette anni”, scrive Vershinin, “è una ricetta per il disastro. Solo il tempo può generare leader capaci di mettere in pratica la dottrina della NATO, e il tempo è una cosa che le massicce esigenze della guerra di logoramento non danno”.

Eppure, come ha recentemente riportato il Washington Post, l’Ucraina ha una grave carenza di nuove reclute, e quelle che riesce ad ottenere sono tristemente poco addestrate. Anche la gara di ritorno è in bilico, con il sostegno di Zelenskyj in calo precipitoso sia in patria che tra i sostenitori occidentali. Gli aiuti internazionali, nonostante le recenti infusioni, si scontrano con la strategia di logoramento della Russia. La finestra di opportunità per Kiev per invertire questa situazione si sta chiudendo rapidamente. Sono necessarie azioni coraggiose e decisive – e rapide – se l’Ucraina avrà mai la possibilità di raggiungere il successo.

Definire il successo ucraino

È fondamentale, tuttavia, definire quale “successo” sia ottenibile a questo punto. Come notato all’inizio, una vittoria militare assoluta per Kiev è attualmente il più vicino allo zero di quanto potrebbe esserlo qualsiasi sforzo umano. La Russia ha troppa potenza (e un asso nella manica nucleare) che non può essere superata, date le circostanze attuali. Il percorso molto stretto che esiste per l’Ucraina è quello di imporre alla Russia un costo così alto che Putin ritiene che sia nel suo interesse accontentarsi di qualcosa di meno dei suoi obiettivi massimalisti.

Putin ha esposto i suoi requisiti minimi il 14 giugno quando ha detto che per porre fine alla guerra, l’Ucraina deve cedere le quattro province annesse illegalmente nel 2022, ritirare tutte le truppe ucraine da quei territori e adottare uno “status neutrale, non allineato e non nucleare”. Zelenskyj considerava questo elenco di richieste – giustamente – come un “ultimatum” alla resa. Come potrebbe, allora, l’Ucraina evitare questo risultato indesiderabile, e cosa può produrre Zelenskyj con il dato squilibrio di forze?

Senza grandi cambiamenti negli obiettivi di guerra occidentali e ucraini, l’“ultimatum” di Putin ha una possibilità inquietantemente alta di realizzarsi. La speranza più realistica dell’Ucraina è quella di cercare di mantenere tutti i territori che possiede attualmente, di non cedere altra terra e di negoziare la fine delle ostilità. Ma dobbiamo riconoscere che potrebbe essere già troppo tardi per aspettarsi anche questo risultato limitato.

La tabella di marcia verso il successo ucraino

Lo scorso aprile il Congresso degli Stati Uniti ha approvato un pacchetto di aiuti da 61 miliardi di dollari all’Ucraina, ma i dettagli di ciò che quel pacchetto includeva hanno tardato ad arrivare. Gli Stati Uniti hanno annunciato un pacchetto da 6 miliardi di dollari in aprile e un altro da 2,3 miliardi di dollari la scorsa settimana, ma entrambi includono principalmente munizioni, non nuovi veicoli blindati. Fondamentalmente, tuttavia, la maggior parte del ricavato di tali accordi non si concretizzerà per anni, a causa della necessità di sviluppare capacità aggiuntiva e di eseguire nuovi contratti. L’Ucraina dovrà quindi cercare di riuscire con ciò che ha a disposizione o che potrebbe ottenere nei prossimi mesi.

Prima di considerare la componente militare di questo obiettivo, però, dobbiamo individuare lo specifico obiettivo politico. L’Ucraina dovrà prima comunicare alla Russia l’intenzione di trovare una fine negoziata alla guerra. I loro negoziatori dovrebbero comunicare che le richieste massimaliste di Putin del 14 giugno sono inaccettabili e lanciare invece la risposta di congelare il conflitto sulle sue linee attuali e accettare di risolvere la questione della sovranità sulle quattro regioni cinque anni dopo la fine delle ostilità, utilizzando la mediazione internazionale.

Per raggiungere anche questo risultato obiettivo limitato, l’Ucraina dovrà mobilitare con successo altre 300.000 truppe nei prossimi mesi, ricevere almeno mezzo milione di proiettili di artiglieria, altri sette sistemi di difesa aerea Patriot, diverse centinaia di veicoli corazzati aggiuntivi di vario tipo e decine di migliaia di droni in più. Questa nuova potenza di combattimento dovrebbe quindi rafforzare tutte le linee difensive lungo il fronte in modo che il costo per Putin per catturare le restanti province sia superiore a quello che otterrebbe dai negoziati, costringendolo ad accontentarsi dell’attuale linea di ostilità.

Costo elevato, ricompensa bassa

Il costo del personale per l’Ucraina sarebbe molto elevato per raggiungere anche questo risultato molto modesto, e ritengo che ci siano non più del cinquanta per cento di possibilità che Kiev ce la faccia. L’alleanza occidentale dovrebbe fare di tutto per fornire all’Ucraina quantità di munizioni superiori a quelle attualmente contemplate e impegnare un gran numero di veicoli da combattimento attualmente non sul tavolo. 

Tuttavia, senza che l’Ucraina aumenti in modo massiccio i suoi obiettivi mobilitati e senza che la NATO fornisca molto più di quanto offre attualmente, anche questo obiettivo limitato ha poche possibilità di successo. C’è una probabilità molto più alta che la NATO si soddisfi con molti grandi discorsi e promesse di finanziamenti futuri, ma faccia poco per aumentare la produzione immediata. Stando così le cose, l’Ucraina trarrebbe un servizio molto migliore se cambiasse i suoi obiettivi. Ciò comporterebbe una politica che pochi occidentali e nessuno nell’amministrazione Zelenskyj vuole contemplare: un cessate il fuoco immediato sulla falsariga di quanto suggerito dal primo ministro ungherese Viktor Orban e una soluzione negoziata alle migliori condizioni possibili.

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Francesco incontra i “grandi” per parlare dei “poveri”

di ALESSANDRO MANFRIDI

E se il grido dei poveri riuscisse a mettere a tacere le sirene dei grandi?

15 giugno 2024

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ATTUALITÀ

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Filippo Neri, Giovanni Bosco, Teresa di Calcutta.

In ogni epoca e ad ogni latitudine, non è mancato da parte di grandi figure il ricorso ai “potenti”, ai “grandi”, ai “ricchi” perché anche qualcosa dei loro contributi potesse giovare al sostegno delle opere caritative e sociali realizzate dai loro “fondatori”.

Il 14 giugno 2024, per la prima volta, viene invitato a un vertice dei G7 un Papa.

C’è chi si chiede se tale iniziativa giovi al Vescovo di Roma o se invece possa essere letta come un conseguente endorsment, pur non espresso, nei confronti del massimo vertice delle potenze Occidentali.

Nei giorni antecedenti e in quelli del vertice si sono tenute delle contro manifestazioni da parte di varie realtà associative afferenti al mondo dell’associazionismo sociale e pacifista denominate “Controforum G7” per controbattere e contestare i lavori dei “Grandi” e richiamare le istanze alternative in risposta ai problemi globali quali clima, immigrazioni, gestione dei conflitti bellici.

Indubbiamente la visita del Vescovo di Roma fornisce un ritorno di immagine positivo per i leader del G7.

Sembra davvero interessante la circostanza che ha portato Francesco  a pubblicare il giorno stesso dell’apertura del Vertice il messaggio destinato alla celebrazione, nel prossimo novembre, di uno degli eventi voluti da questo Papa e da lui “strategicamente” offerti non solo ai fedeli e ai vertici dell’istituzione cattolica, ma a tutti coloro che lo ascoltano: la Giornata Mondiale dei poveri.

Francesco, dunque, nel suo giorno vissuto nella struttura di Torre Egnazia ha sicuramente colto l’occasione per ribadire di persona ai leader del G7 e ad altri presidenti invitati al vertice faccia a faccia nei dieci incontri previsti nel suo fitto programma quello che chiede da anni durante gli Angelus e in tutto il suo magistero in modo costante: che si rinunci alla logica delle armi e che ci si adoperi per risolvere tutti i conflitti armati, non solo quelli che opprimono Ucraina e Terra Santa.

Doveroso richiamare le motivazioni espresse dalla Premier in merito alla scelta per il vertice odierno della location in Puglia: una terra vocata da sempre ad essere un “ponte” tra Oriente ed Occidente, una terra di accoglienza e di integrazione, in cui il simbolo dell’albero dell’ulivo si propone come un richiamo alla ricerca e alla costruzione della pace.

Ci preme a tal riguardo ricordare il messaggio dei vescovi di questa regione ormai di trenta anni fa, proposto e lanciato grazie ad uno dei suoi figli più amati, quel don Tonino Bello che fu anima della marcia nonviolenta dei 500 a Sarajevo nel 1992: la Puglia deve essere una “arca di pace e non un arco di guerra”.

Il discorso di Francesco, dopo un giro di saluti cordiali e a volte calorosi con tutti i leader presenti al vertice, tratta una riflessione precisa e mirata sull’argomento dell’intelligenza artificiale. Questa viene colta nelle sue enormi potenzialità; ma si comprende come un uso sbagliato della stessa potrebbe portare a conseguenze deleterie; tra le tante, viene denunciato l’utilizzo della AI nell’industria bellica, che consegna alle macchine il potere di decisione sulla vita umana, sopressa da sistemi di armi sofisticate guidate dalla AI.

A tal riguardo, è propria dell’essere umano la capacità di discernere e di compiere delle scelte, pur se a volte in maniera sofferta; è importante che egli non rinunci a tale peculiarità delegando la scelta a quella operata secondo una serie di algoritmi dalle AI. Anche in questo nuovo campo della tecnica, la questione etica ha un ruolo imprescindibile, e Francesco cita una iniziativa da lui promossa anche con l’introduzione di un neologismo: “algoretica”.

Francesco termina il suo discorso con un apprezzamento e un invito preciso a coloro che si occupano della politica, citando Paolo VI che la definì “la forma più alta della carità”. I leader del G7 e gli altri capi di stato invitati al vertice presenti al suo discorso, sono invitati caldamente come responsabili, come gestori della politica, ad un uso etico e chiaramente orientato al bene comune dell’intelligenza artificiale.

La giornata di Francesco, lungi dal fermarsi al suo discorso sull’intelligenza artificiale e sui risvolti etici ai quali essa rimanda, deve essere considerata a nostro avviso come evangelicamente collegata col messaggio da lui pubblicato il 13 giugno. I poveri le cui esistenze e la cui dignità siamo invitati a promuovere, come ci viene chiesto (“voi 7, noi 8 miliardi!”: è uno degli slogan provocatori del “Controforum G7”) non sono più dei semplici “fratelli e sorelle sfortunati” cui provvedere con mirate iniziative. Sono in realtà il frutto, maturato in maniera sempre più drammaticamente esponenziale, delle scelte scellerate che i “Grandi della Terra” (non solo i G7…) continuano a produrre, sordi al grido delle genti: se le risorse sono destinate ai produttori di armi (e di morte), dovranno necessariamente essere negate al cibo, alla sanità, all’istruzione.

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Richieste d’arresto per Nethanyau e i Leader di Hamas

ALESSANDRO MANFRIDI

   :

20 Maggio 2024

Dichiarazione del procuratore della Corte Penale Internazionale Karim A.A. Khan KC: Richieste di mandato d’arresto nella situazione nello Stato di Palestina (1)

Dichiarazione: 20 maggio 2024

Oggi presento richieste di mandato d’arresto davanti alla Camera preliminare I della Corte penale internazionale nella situazione nello Stato di Palestina.

Il procuratore della CPI Khan sulla richiesta di mandati di arresto nella situazione nello Stato di Palestina

Yahya Sinwar, Mohammed Diab Ibrahim Al-Masri (Deif), Ismail Haniyeh.

Sulla base delle prove raccolte ed esaminate dal mio Ufficio, ho fondati motivi per ritenere che Yahya SINWAR (capo del Movimento di Resistenza Islamica (“Hamas”) nella Striscia di Gaza), Mohammed Diab Ibrahim AL-MASRI, più comunemente noto come DEIF (comandante in capo dell’ala militare di Hamas, conosciuta come Brigate Al-Qassam) e Ismail HANIYEH (capo dell’ufficio politico di Hamas) sono responsabili penalmente dei seguenti crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi sul territorio di Israele e Stato di Palestina (nella Striscia di Gaza) almeno dal 7 ottobre 2023:

Lo sterminio come crimine contro l’umanità, contrario all’articolo 7, comma 1, lettera b), dello Statuto di Roma;

Omicidio come crimine contro l’umanità, contrario all’articolo 7(1)(a), e come crimine di guerra, contrario all’articolo 8(2)(c)(i);

La presa di ostaggi costituisce un crimine di guerra, contrario all’articolo 8(2)(c)(iii);

Stupro e altri atti di violenza sessuale come crimini contro l’umanità, contrari all’articolo 7, paragrafo 1, lettera g), e anche come crimini di guerra ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 2, lettera e), punto vi) nel contesto della prigionia;

Tortura come crimine contro l’umanità, contrario all’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), e anche come crimine di guerra, contrario all’articolo 8, paragrafo 2, lettera c), punto i), nel contesto della prigionia;

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Altri atti disumani costituiscono un crimine contro l’umanità, contrari all’articolo 7, paragrafo 1, lettera k), nel contesto della prigionia;

Trattamento crudele come crimine di guerra contrario all’articolo 8(2)(c)(i), nel contesto della prigionia;

Oltraggi alla dignità personale come crimine di guerra, contrari all’articolo 8(2)(c)(ii), nel contesto della prigionia.

Il mio ufficio sostiene che i crimini di guerra presunti in queste domande sono stati commessi nel contesto di un conflitto armato internazionale tra Israele e Palestina e di un conflitto armato non internazionale tra Israele e Hamas che si svolgeva parallelamente. Riteniamo che i crimini contro l’umanità accusati facessero parte di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile di Israele da parte di Hamas e di altri gruppi armati in conformità con le politiche organizzative. Alcuni di questi crimini, secondo la nostra valutazione, continuano ancora oggi.

Il mio ufficio sostiene che vi sono fondati motivi per ritenere che SINWAR, DEIF e HANIYEH siano penalmente responsabili dell’uccisione di centinaia di civili israeliani negli attacchi perpetrati da Hamas (in particolare dalla sua ala militare, le Brigate al-Qassam) e da altri gruppi armati il 7 Ottobre 2023 e la presa di almeno 245 ostaggi. Nell’ambito delle nostre indagini, il mio Ufficio ha intervistato vittime e sopravvissuti, inclusi ex ostaggi e testimoni oculari provenienti da sei principali luoghi di attacco: Kfar Aza; Holit; la location del Supernova Music Festival; Be’eri; Nir Oz; e Nahal Oz. L’indagine si basa anche su prove quali filmati CCTV, materiale audio, fotografico e video autenticati, dichiarazioni di membri di Hamas compresi i presunti autori sopra menzionati e prove di esperti.

È opinione del mio Ufficio che questi individui abbiano pianificato e istigato la commissione di crimini il 7 ottobre 2023 e, attraverso le loro azioni, comprese le visite personali agli ostaggi subito dopo il rapimento, abbiano riconosciuto la loro responsabilità per tali crimini. Riteniamo che questi crimini non avrebbero potuto essere commessi senza le loro azioni. Essi sono accusati sia come esecutori sia come mandanti ai sensi degli articoli 25 e 28 dello Statuto di Roma.

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Durante la mia visita al Kibbutz Be’eri e al Kibbutz Kfar Aza, nonché al sito del Supernova Music Festival a Re’im, ho visto le scene devastanti di questi attacchi e il profondo impatto dei crimini inconcepibili accusati nelle domande depositate. Parlando con i sopravvissuti, ho sentito come l’amore all’interno di una famiglia, i legami più profondi tra un genitore e un figlio, fossero distorti per infliggere un dolore insondabile attraverso una crudeltà calcolata e un’estrema insensibilità. Questi atti richiedono responsabilità.

Il mio ufficio sostiene inoltre che ci sono ragionevoli motivi per ritenere che gli ostaggi prelevati da Israele siano stati tenuti in condizioni disumane e che alcuni siano stati soggetti a violenza sessuale, compreso lo stupro, mentre erano tenuti in cattività. Siamo giunti a questa conclusione sulla base di cartelle cliniche, prove video e documentali contemporanee e interviste con vittime e sopravvissuti. Il mio ufficio continua inoltre a indagare sulle denunce di violenza sessuale commesse il 7 ottobre.

https://edaeb4eaa745d93a0849dfd8ff67970a.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-40/html/container.html

Desidero esprimere la mia gratitudine ai sopravvissuti e alle famiglie delle vittime degli attacchi del 7 ottobre, per il coraggio dimostrato nel farsi avanti per fornire i loro racconti al mio Ufficio. Rimaniamo concentrati sull’approfondimento ulteriore delle nostre indagini su tutti i crimini commessi nell’ambito di questi attacchi e continueremo a lavorare con tutti i partner per garantire che venga fatta giustizia.

Ribadisco ancora una volta il mio appello per il rilascio immediato di tutti gli ostaggi prelevati da Israele e per il loro ritorno sicuro alle loro famiglie. Questo è un requisito fondamentale del diritto internazionale umanitario.

Benjamin Netanyahu, Yoav Gallant

Sulla base delle prove raccolte ed esaminate dal mio Ufficio, ho ragionevoli motivi per ritenere che Benjamin NETANYAHU, il Primo Ministro israeliano, e Yoav GALLANT, il Ministro della Difesa israeliano, siano responsabili penalmente dei seguenti crimini di guerra e crimini contro l’umanità impegnata sul territorio dello Stato di Palestina (nella Striscia di Gaza) almeno dall’8 ottobre 2023:

La fame dei civili come metodo di guerra come crimine di guerra contrario all’articolo 8(2)(b)(xxv) dello Statuto;

Causare intenzionalmente grandi sofferenze o gravi lesioni al corpo o alla salute contrari all’articolo 8(2)(a)(iii), o trattamenti crudeli come crimine di guerra contrario all’articolo 8(2)(c)(i);

Omicidio intenzionale contrario all’articolo 8(2)(a)(i), o omicidio come crimine di guerra contrario all’articolo 8(2)(c)(i);

Dirigere intenzionalmente attacchi contro una popolazione civile come crimine di guerra contrario agli articoli 8(2)(b)(i), o 8(2)(e)(i);

Sterminio e/o omicidio contrario agli articoli 7(1)(b) e 7(1)(a), anche nel contesto di morti per fame, come crimine contro l’umanità;

Persecuzione come crimine contro l’umanità contrario all’articolo 7, paragrafo 1, lettera h);

Altri atti disumani costituiscono crimini contro l’umanità contrari all’articolo 7, paragrafo 1, lettera k).

Il mio ufficio sostiene che i crimini di guerra presunti in queste domande sono stati commessi nel contesto di un conflitto armato internazionale tra Israele e Palestina e di un conflitto armato non internazionale tra Israele e Hamas (insieme ad altri gruppi armati palestinesi) che si svolgeva in parallelo. Riteniamo che i crimini contro l’umanità accusati siano stati commessi come parte di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile palestinese in conformità alla politica statale. Questi crimini, secondo la nostra valutazione, continuano ancora oggi.

Il mio ufficio sostiene che le prove che abbiamo raccolto, comprese interviste con sopravvissuti e testimoni oculari, video autenticati, foto e materiale audio, immagini satellitari e dichiarazioni del presunto gruppo colpevole, dimostrano che Israele ha intenzionalmente e sistematicamente privato la popolazione civile in tutte le parti del Gaza di oggetti indispensabili alla sopravvivenza umana.

Ciò è avvenuto attraverso l’imposizione di un assedio totale su Gaza che ha comportato la chiusura completa dei tre valichi di frontiera, Rafah, Kerem Shalom ed Erez, dall’8 ottobre 2023 per periodi prolungati e poi limitando arbitrariamente il trasferimento di forniture essenziali – inclusi cibo e medicine – attraverso i valichi di frontiera dopo la loro riapertura. L’assedio comprendeva anche il taglio delle condutture idriche transfrontaliere da Israele a Gaza – la principale fonte di acqua pulita degli abitanti di Gaza – per un periodo prolungato a partire dal 9 ottobre 2023, e l’interruzione e l’impedimento delle forniture di elettricità almeno dall’8 ottobre 2023 fino ad oggi. Ciò è avvenuto insieme ad altri attacchi contro i civili, compresi quelli in coda per il cibo; ostacolo alla consegna degli aiuti da parte delle agenzie umanitarie; e attacchi e uccisioni di operatori umanitari, che hanno costretto molte agenzie a cessare o limitare le loro operazioni a Gaza.

Il mio ufficio sostiene che questi atti sono stati commessi come parte di un piano comune volto a utilizzare la fame come metodo di guerra e altri atti di violenza contro la popolazione civile di Gaza come mezzo per (i) eliminare Hamas; (ii) garantire il ritorno degli ostaggi che Hamas ha rapito e (iii) punire collettivamente la popolazione civile di Gaza, che percepiscono come una minaccia per Israele.

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Gli effetti dell’uso della fame come metodo di guerra, insieme ad altri attacchi e punizioni collettive contro la popolazione civile di Gaza, sono acuti, visibili e ampiamente conosciuti, e sono stati confermati da numerosi testimoni intervistati dal mio Ufficio, compresi i medici locali e internazionali. Tra questi figurano malnutrizione, disidratazione, profonda sofferenza e un numero crescente di morti tra la popolazione palestinese, tra cui neonati, altri bambini e donne.

La carestia è presente in alcune zone di Gaza ed è imminente in altre. Come ha avvertito il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres più di due mesi fa, “1,1 milioni di persone a Gaza stanno affrontando una fame catastrofica – il numero più alto mai registrato – ovunque e in qualsiasi momento” a causa di un “disastro interamente causato dall’uomo”. Oggi il mio Ufficio cerca di incriminare due dei maggiori responsabili, NETANYAHU e GALLANT, sia come co-perpetratori che come superiori ai sensi degli articoli 25 e 28 dello Statuto di Roma.

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Israele, come tutti gli Stati, ha il diritto di agire per difendere la propria popolazione. Tale diritto, tuttavia, non esonera Israele o qualsiasi Stato dall’obbligo di rispettare il diritto internazionale umanitario. Nonostante gli obiettivi militari che possono avere, i mezzi che Israele ha scelto per attuarli a Gaza – vale a dire causare intenzionalmente morte, fame, grandi sofferenze e gravi lesioni fisiche o alla salute della popolazione civile – sono criminali.

Dall’anno scorso, a Ramallah, al Cairo, in Israele e a Rafah, ho costantemente sottolineato che il diritto internazionale umanitario richiede che Israele intraprenda azioni urgenti per consentire immediatamente l’accesso su vasta scala agli aiuti umanitari a Gaza. Ho sottolineato in particolare che la fame come metodo di guerra e il rifiuto degli aiuti umanitari costituiscono reati previsti dallo Statuto di Roma. Non avrei potuto essere più chiaro.

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Come ho più volte sottolineato anche nelle mie dichiarazioni pubbliche, chi non rispetta la legge non dovrebbe presentare reclamo successivamente quando il mio Ufficio interviene. Quel giorno è arrivato.

Nel presentare queste richieste di mandato d’arresto, il mio Ufficio agisce in conformità al mandato conferitogli dallo Statuto di Roma. Il 5 febbraio 2021, la Camera preliminare I ha deciso che la Corte può esercitare la sua giurisdizione penale sulla situazione nello Stato di Palestina e che l’ambito territoriale di tale giurisdizione si estende a Gaza e alla Cisgiordania, compresa Gerusalemme est. Questo mandato è in corso e prevede l’escalation delle ostilità e della violenza dal 7 ottobre 2023. Il mio Ufficio ha giurisdizione anche sui crimini commessi da cittadini di Stati Parte e da cittadini di non Stati Parte sul territorio di uno Stato Parte.

Le dichiarazioni di oggi sono il risultato di un’indagine indipendente e imparziale condotta dal mio Ufficio. Guidato dal nostro obbligo di indagare allo stesso modo sulle prove incriminanti e a discarico, il mio Ufficio ha lavorato scrupolosamente per separare le accuse dai fatti e per presentare con sobrietà conclusioni basate sulle prove alla Camera preliminare.

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Come ulteriore salvaguardia, sono grato per il consiglio di un gruppo di esperti di diritto internazionale, un gruppo imparziale che ho convocato per supportare la revisione delle prove e l’analisi legale in relazione a queste richieste di mandato d’arresto. Il Gruppo è composto da esperti di immenso prestigio nel diritto internazionale umanitario e nel diritto penale internazionale, tra cui Sir Adrian Fulford PC, ex Lord giudice d’appello ed ex giudice della Corte penale internazionale; la Baronessa Helena Kennedy KC, Presidente dell’Istituto per i Diritti Umani dell’International Bar Association; Elizabeth Wilmshurst CMG KC, ex vice consigliere legale presso il Foreign and Commonwealth Office del Regno Unito; Danny Friedman KC; e due dei miei consiglieri speciali: Amal Clooney e Sua Eccellenza il giudice Theodor Meron CMG. Questa analisi di esperti indipendenti ha supportato e rafforzato le domande presentate oggi dal mio Ufficio. Sono stato grato anche per il contributo di molti altri miei consiglieri speciali a questa revisione, in particolare Adama Dieng e il professor Kevin Jon Heller.

Oggi sottolineiamo ancora una volta che il diritto internazionale e le leggi sui conflitti armati si applicano a tutti. Nessun soldato di fanteria, nessun comandante, nessun leader civile – nessuno – può agire impunemente. Niente può giustificare la privazione volontaria di esseri umani, tra cui tante donne e bambini, dei beni di prima necessità necessari alla vita. Niente può giustificare la presa di ostaggi o l’attacco contro i civili.

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I giudici indipendenti della Corte penale internazionale sono gli unici arbitri riguardo al rispetto degli standard necessari per l’emissione di mandati di arresto. Se dovessero accogliere le mie richieste ed emettere i mandati richiesti, lavorerò a stretto contatto con il cancelliere in tutti gli sforzi per arrestare le persone nominate. Conto su tutti gli Stati parti dello Statuto di Roma affinché prendano queste richieste e la conseguente decisione giudiziaria con la stessa serietà che hanno dimostrato in altre situazioni, adempiendo ai loro obblighi ai sensi dello Statuto. Sono inoltre pronto a collaborare con i non-Stati parti nella nostra comune ricerca di responsabilità.

È fondamentale in questo momento che al mio Ufficio e a tutte le parti della Corte, compresi i suoi giudici indipendenti, sia consentito di svolgere il proprio lavoro con piena indipendenza e imparzialità. Insisto affinché tutti i tentativi di ostacolare, intimidire o influenzare indebitamente i funzionari di questa Corte debbano cessare immediatamente. Il mio Ufficio non esiterà ad agire ai sensi dell’articolo 70 dello Statuto di Roma se tale condotta dovesse continuare.

Rimango profondamente preoccupato per le continue accuse e le prove emergenti di crimini internazionali avvenuti in Israele, Gaza e in Cisgiordania. La nostra indagine continua. Il mio ufficio sta portando avanti ulteriori linee di indagine molteplici e interconnesse, tra cui quelle relative alle denunce di violenza sessuale durante gli attacchi del 7 ottobre e in relazione ai bombardamenti su vasta scala che hanno causato e continuano a causare così tante morti, feriti e sofferenze tra i civili in Gaza. Incoraggio coloro che dispongono di informazioni pertinenti a contattare il mio ufficio e a inviare informazioni tramite OTP Link.

Il mio Ufficio non esiterà a presentare ulteriori richieste di mandati di arresto se e quando riterremo che sia stata raggiunta la soglia di una prospettiva realistica di condanna. Rinnovo il mio appello a tutte le parti coinvolte nell’attuale conflitto affinché rispettino subito la legge.

Desidero inoltre sottolineare che il principio di complementarità, che è al centro dello Statuto di Roma, continuerà a essere valutato dal mio Ufficio mentre agiamo in relazione ai presunti crimini e ai presunti autori sopra elencati e andiamo avanti con altre linee di indagine. La complementarità, tuttavia, richiede un rinvio alle autorità nazionali solo quando queste si impegnano in processi giudiziari indipendenti e imparziali che non proteggano i sospettati e non siano una farsa. Richiede indagini approfondite a tutti i livelli che affrontino le politiche e le azioni alla base di queste applicazioni.

Cerchiamo oggi di essere chiari su una questione fondamentale: se non dimostriamo la nostra volontà di applicare la legge in modo equo, se viene vista come applicata in modo selettivo, creeremo le condizioni per il suo crollo. In tal modo, allenteremo i restanti legami che ci tengono uniti, le connessioni stabilizzanti tra tutte le comunità e gli individui, la rete di sicurezza a cui tutte le vittime guardano nei momenti di sofferenza. Questo è il vero rischio che corriamo in questo momento.

Ora più che mai dobbiamo dimostrare collettivamente che il diritto internazionale umanitario, la base fondamentale della condotta umana durante i conflitti, si applica a tutti gli individui e si applica equamente nelle situazioni affrontate dal mio Ufficio e dalla Corte. Dimostreremo così, concretamente, che la vita di tutti gli esseri umani ha lo stesso valore.

Fonte: Ufficio del Procuratore | Contatto: OTPNewsDesk@icc-cpi.intI

(1) Traduzione dal sito https://www.icc-cpi.int/news/statement-icc-prosecutor-karim-aa-khan-kc-applications-arrest-warrants-situation-state

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Costruttori di ponti

Malamore. La storia di Anna al Salone del Libro Torino 2024

ALESSANDRO MANFRIDI

   :

12 Aprile 2024

La storia di Anna non è un romanzo. Ma è molto di più.

È un racconto di vita vissuta che diventa “nostro”.

Entrando con Anna in quei luoghi dove ha vissuto il suo travolgente amore prima e il suo drammatico incubo poi, ciascuno di noi “vede” i suoi protagonisti, percepisce i loro stati d’animo, comprende le loro tensioni, vive il dramma della loro mancanza di comunicazione, rimane col fiato sospeso fino all’epilogo della vicenda.

Al termine di questo viaggio, ma anche durante il suo percorso, ne siamo certi, quasi ciascuno di noi sarà portato da una solidarietà profonda con la nostra protagonista a schierarsi con lei, a mettersi nei suoi panni, a condividere i passaggi del suo “incubo”, a dire in maniera solidale: “Sono con Anna. Anna sono io!”.

Quale messaggio e quali indicazioni possono arrivarci da questo racconto nel quale ci siamo immersi?

Partiamo dalle cronache.

Le statistiche ci consegnano il dramma di una vittima per femminicidio ogni tre giorni in Italia negli ultimi anni.

Il fenomeno è certamente allarmante e richiede una attenta riflessione perché ne vengano messe a fuoco le cause.

Gli studiosi ci dicono che a volte la scintilla della violenza che porta all’omicidio arriva perché la donna non intuisce la deriva che porta l’uomo al gesto estremo, sfociato dall’esasperazione e dalla disperazione mosse dalla consapevolezza di una relazione ormai negata, con una separazione minacciata o anche già realizzata.

Naturalmente il fenomeno non coinvolge solo le vittime del femminicidio ma si estende a tutte quelle violenze, fisiche e psicologiche, subite fra le mura domestiche.

Potremmo richiamare il racconto della “rana bollita” di Noam Chomsky.

Allo spettatore sembra incredibile come sia potuto avvenire che Anna non si sia “svegliata” prima, come non abbia potuto rendersi conto della trappola nella quale si era introdotta, come non abbia potuto reagire in maniera più subitanea per liberarsi in tempo, evitando la spirale delle violenze.

Nel far questo, noi ci poniamo come si pone lo spettatore davanti allo schermo televisivo seguendo un qualche programma “dall’esterno” e individuando le “soluzioni” protetto dalla virtuale e reale distanza e dallo scudo che questa posizione ci consente.

Per comprendere più a fondo la psicologia di Anna e Manlioe le loro conseguenti azioni e reazioni, non dobbiamo fermarci solo a un personale coinvolgimento emotivo.

Dobbiamo fare la fatica di “entrare nel set” e far nostre le dinamiche dei protagonisti.

Facciamo dunque un duplice passaggio. Iniziamo con una analisi esterna, quella legata agli studi su casi simili presi in esame.

Successivamente, entriamo nel “set” e immedesimiamoci nei panni dei protagonisti e delle loro dinamiche.

Gli studiosi ci parlano delle fasi cicliche della violenza:

1)      Costruzione della tensione

2)      Maltrattamento

3)      Luna di miele

Nella prima fase la costruzione della tensione non è necessariamente realizzata in modo violento ma mediante comportamenti che si dimostrano ostili. Il protagonista del ciclo della violenza in questa fase utilizza come mezzi il controllo del partner, il suo isolamento, lo sottopone a continue umiliazioni, minaccia di usare la violenza fisica.

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Dimostra nervosismo e               ha difficoltà a gestire la rabbia.

La risposta a questi input che riceve dal partner sono quelle di venir assecondato, perché si cerca di risolvere la tensione in questo modo.

Alla prima fase segue quella delmaltrattamento con l’esplosione della violenza, fisica o psicologica, ma anche economica e sessuale. È una violenza graduale, che inizia con spintoni o schiaffi e che può degenerare anche nella violenza sessuale e nel femminicidio.

La terza fase viene denominata “luna di miele”. L’autore delle violenze si scusa per l’accaduto e cerca di ripararvi con varie azioni, inclusa la minaccia di suicidarsi. In questa fase le azioni riparatorie sono accompagnate dallo scarico della responsabilità. Le violenze sono motivate da tensioni dovute a problematiche sul lavoro, a qualche difficoltà economica, infine accusando comportamenti sbagliati adottati dal partner.

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Queste tre fasi si susseguono ripresentandosi secondo questo ciclo. La fase del pentimento si abbrevia man mano che le fasi si ripetono e le stesse fasi si susseguono sempre più velocemente, anche l’intensità e le forme di violenza possono cambiare.

Questa teoria del ciclo della violenza è stata proposta per la prima volta nel 1979 dalla psicologa Lenore Walker.

Oltre alla teoria del ciclo della violenza, la Walker sviluppò una ulteriore teoria, quella della “impotenza appresa”.

La studiosa prende spunto dal paradigma di Seligman riferito agli animali che vivono in cattività e che entravano in depressione non reagendo difronte allo stimolo delle scariche elettriche che subivano qualsiasi comportamento operassero. Questo li portava a sviluppare un comportamento passivo e apatico, al punto di non fuggire neanche quando la gabbia veniva lasciata aperta fino a opporre resistenza verso il tentativo dello studioso che prova a spingerli fuori della stessa.

Queste dinamiche sono in egual modo, secondo la teoria della “impotenza appresa”, drammaticamente assunte dalle donne vittime di violenza all’interno di una relazione di coppia che, sotto abusi ripetuti, minacce non solo di violenza ma persino di morte, arrivano ad arrendersi, isolandosi completamente e reagendo in maniera passiva e apatica.

Dopo uno sguardo su questi studi, mettiamoci nei panni dei protagonisti del nostro romanzo.

Manlio vive tutte le fasi del ciclo della violenza. Giustifica il suo operato, colpevolizza la sua vittima.

In realtà, egli non è un partner “sano”, perché già segnato dalla malattia psichiatrica, nascosta e negata, con lucidità tenuta fuori dalla sua nuova storia, memore di esperienze affettive già fallite in precedenza.

Qui la sua famiglia d’origine si fa complice, con l’unica, improbabile, giustificazione di una poco ragionevole speranza che questa nuova storia di coppia potesse avere migliore soluzione.

Detto legalmente, qui siamo di fronte alle condizioni di un matrimonio nullo fin dalle sue origini.

La “particolarità” della situazione di Manlio non deve però impedirci di accostare le sue dinamiche a tanti altri protagonisti delle violenze domestiche.

Queste, mai giustificabili, nascono nel modo in cui il “ciclo delle violenze” ben descrive, e accomunano senz’altro personaggi “malati” come il nostro protagonista ad altri che, clinicamente, sarebbero stati ritenuti sani.

Qui si potrebbe aprire una interessante riflessione su quanto le dinamiche di comportamenti ritenuti patologici o rilevanti sotto una osservazione psichiatrica appartengano a entrambi i tipi di soggetti; questo pone la domanda: chi reagisce facendosi trasportare dal demone della violenza è ancora definibile come “lucido e sano di mente” o viceversa dovrebbe essere posto sotto il supporto competente e necessario di psicologi e psichiatri?

Il caso di Anna è molto più complesso.

Anche lei subisce tutto il ventaglio delle fasi del ciclo della violenza, come visto.

Probabilmente la nostra protagonista è arrivata sulla soglia stessa della situazione della “impotenza appresa” ma è riuscita ad essere reattiva quanto le occorreva per uscire dall’incubo che l’aveva travolta.

Ciò che “tiene legata” Anna al suo aguzzino sono i suoi meccanismi di negazione dell’evidenza delle violenze mediante i tentativi di trovarne una qualche giustificazione.

Tutto questo trova fondamento nel primo capitolo di questa storia di coppia, quello della favola, quella del sogno e al conseguente “salto nel vuoto” che ella è arrivata a fare.

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Anna “ha investito” “ha scommesso” su questo amore in maniera radicale, chiedendo alla sua famiglia di origine di aderire al suo progetto, ragionevolmente azzardato, facendo una scelta pubblica davanti a tutti e tutto.

Ora l’opzione di “tornare indietro” si dimostra dolorosamente fallimentare.

Questo è il motivo che la porta a cercare opzioni diverse.

La sua opzione è dunque quella di tacere e nascondere l’accaduto, davanti alla sua famiglia di origine e davanti a quella del marito, cercando di gestire gli eventi “navigando a vista”.

Cerca dunque di assecondare e non contrariare Manlio in ogni modo.

Il silenzio e il tentativo di celare le violenze all’esterno si accompagnano con sentimenti di vergogna, finanche sensi di colpa, nella spirale psicologica di chi giunge a negare e giustificare le stesse violenze, addossandosi una qualche responsabilità personale che le abbia causate.

Ma ogni sforzo di Anna nel gestire e salvare il suo rapporto si rivela contropruducente e drammaticamente inutile.

La spirale delle violenze di ripresenta in maniera sempre più avvolgente e mortale.

La nostra protagonista dovrà via via convincersi della tremenda verità e trovare tutte le forze mentali e fisiche per progettare e realizzare la fuga da questa prigione.

Il fatto che questa sia una storia “a lieto fine” non significa che non sia una storia che ha scavato solchi profondi e lasciato ferite indelebili nella vita non solo della vittima ma anche in quella di tutti gli altri protagonisti, compreso quella dell’autore delle violenze.

Questa storia può dunque insegnarci tanto.

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Costruttori di ponti

I segni e gli strumenti della passione

ALESSANDRO MANFRIDI

   :

28 Marzo 2024

I bambini che a Gaza muoiono di fame e quelli che a Zaporižžja muoiono sotto le bombe sono segni drammatici di una «Passione»; se gli ordigni esplosivi ne hanno provocato la morte, le cause certamente dimorano nelle mani di chi decide che la pace non debba avere diritto di parola. Eppure da duemila anni le vicende dell’Uomo della Croce possono dare un senso a quelle di tutti i crocifissi della storia; non tanto perché abbia un senso vivere la nostra passione umana unendoci alla sua; quanto perché l’offerta della sua vita può dare una luce nuova ad ogni nostro dolore.

I segni della passione del Crocifisso sono il suo “biglietto da visita”, quello con il quale si  è presentato ai suoi nelle apparizioni pasquali, chiedendo a Tommaso di verificare in maniera cruda e reale tutto ciò.

Nella geografia dell’”uomo della Sindone” è impressionante come il lino di Torino sia segnato non dalle impronte del sangue di un crocifisso qualsiasi, ma  da ferite che riproducono in maniera fedele quelle della Passione del Cristo descritte in maniera minuziosa dai racconti evangelici: i segni della flagellazione, la coronazione di spine, le trafitture dei chiodi, le gambe non spezzate, la ferita da taglio nel costato.

Da sempre l’iconografia presenta accanto alla rappresentazione del crocifisso anche i particolari di alcuni strumenti utilizzati per realizzare gli eventi descritti: la croce, la colonna della flagellazione, la corona di spine, la tunica, i chiodi, martello e tenaglia, fino al gallo che cantò dopo il rinnegamento di Pietro.

Nel capitolo enorme delle reliquie sparse nelle chiese di tutto il mondo, qualcuno nota che con i frammenti del legno della croce si potrebbe mettere insieme una foresta. Nel calendario liturgico la festa della sua Esaltazione è legata alla tradizione del suo rinvenimento da parte di Elena, madre dell’imperatore Costantino.

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Dietro ogni studio ci sono però tracce interessanti. Così, nel capitolo delle reliquie, la tradizione vuole che la corona di spine (che non era di per sé a forma di “aureola” come normalmente è raffigurata; ma era come le corone orientali, un vero e proprio casco, che doveva avvolgere tutta la parte superiore della testa fin dietro la nuca) sarebbe stata in larga parte privata delle sue spine, che si trovano sparse in  varie cattedrali di tutta l’Europa.

Fra queste, molto interessanti sono le ricognizioni fotografiche e filmografiche sulla Sacra Spina donata alla cattedrale di Andria (BAT) da Beatrice, figlia di Carlo II d’Angiò. Secondo la tradizione, quando la Festa dell’Annunciazione del Signore, il 25 marzo, cade nel giorno del Venerdì Santo, la spina andrebbe a ravvivarsi, mostrando una specie di sudorazione. Ciò è documentato dalle riprese video del 2005 e nel 2015.

I segni della Passione, le “Sacre Piaghe”, provocate dai vari strumenti con cui è stata attuata, sono registrati, come detto, da tutta l’iconografia cristiana, culminando con la catechesi visiva tracciata da quell’icona che è la Sacra Sindone di Torino.

Anche nella mistica cristiana è interessante notare come lo studio su quei personaggi che hanno subito la stigmatizzazione somatica, dei quali Francesco d’Assisi è il primo caso conosciuto, è estremamente interessante il confronto con quel che l’osservazione medica ha rilevato. A riguardo, ci sono i casi di chi ha riportato i segni delle trafitture nel palmo delle mani ed altri sotto i polsi, dove, storicamente, è provato che i chiodi venissero conficcati.

Se la lettura dei Vangeli della Passione, la partecipazione alle rappresentazioni sacre o la visione della trasposizione di un film fedele ai racconti evangelici come The Passion di Mel Gibson possono introdurci sulla scena e aiutarci a vivere il messaggio conseguente a quegli eventi, è interessante altresì soffermarsi  non solo sui  dolori fisici, a partire dalla sudorazione di sangue nell’orto degli ulivi.

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Gesù di Nazareth avrebbe infatti non solo sofferto fisicamente le fasi più cruente della sua passione, descritte in maniera visiva e celebrate nella tradizione millenaria delle Vie Crucis, ma ancor di più per la consapevolezza che il dono  libero cruento della sua vita non sarebbe stato accolto e riconosciuto da tutti.

Torniamo a chiarire quello che abbiamo accennato all’inizio.

Ogni volta che ciascuno di noi vive il dolore legato alle sue sconfitte, alle sue sofferenze, al dramma di una prova o di una grave malattia con la quale doversi confrontare, un messaggio fuorviante è quello di chi ci propone: “Come Cristo si è caricato sulle spalle la sua croce, così anche noi dobbiamo fare lo stesso!”

In realtà, il messaggio evangelico, è esattamente il contrario: non siamo noi che dobbiamo imitare o condividere la croce di Cristo. È Cristo che, potendo evitare la sua dolorosa Passione e la sua Morte in croce, ha invece deciso, liberamente e per amore, di andare fino in fondo, di donare la sua vita e, dunque, di condividere le nostre croci per dare un senso, con il suo esempio, al modo in cui possiamo affrontare il dolore e le sofferenze che la vita ci propone.

È questa la luce  che fa risplendere il Mistero della Passione, della Morte e poi della Risurrezione di Cristo.

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Insieme fuori le mura

ALESSANDRO MANFRIDI

   :

27 Marzo 2024

Relazione di padre Giulio Albanese, comboniano e Direttore dell’Ufficio per la Cooperazione Missionaria tra le Chiese della Diocesi di Roma al Convegno annuale delle diocesi del Lazio organizzato dall’Ufficio per l’Ecumenismo, il Dialogo Interreligioso e i Nuovi Culti della Diocesi di Roma sul tema: “La forza umile dei cristiani”

Padre Giulio Albanese cita come incipit il messaggio di Paolo VI per la Giornata Missionaria Mondiale del 1971 in cui descrisse in modo profetico il tempo presente: il nostro tempo è segnato dalla contrapposizione per vertici di progresso mai prima raggiunti ai quali si associano abissi di perplessità e di disperazione anch’essi senza precedenti. https://www.vatican.va/content/paul-vi/it/messages/missions/documents/hf_p-vi_mes_19710625_world-day-for-missions-1971.html

Ancora oggi noi viviamo le contrapposizioni tra progresso/regresso, benessere/malessere, ricchezza/povertà. Il nostro è un tempo senza precedenti: oggi meno dell’1% ha una ricchezza superiore al 99% degli abitanti del Pianeta. Nonostante le enormi diseguaglianze sociali, siamo certi che questo è il nostro tempo per gridare la buona notizia. La missione non è questione dei numeri, anche se sono in pochi gli “operai della messe”: siamo tutti chiamati a rimboccarci le maniche.

Son passati sessanta anni dal Concilio Vaticano II ma dobbiamo considerare come l’impianto mentale per ciò che concerne la missione è spesso preconciliare. La preoccupazione di nostro Signore era di segno diverso. Prima del Concilio l’”extra Ecclesia nulla salus” portava gli evangelizzatori a battezzare a più non posso. Quel che ci viene chiesto: la spiritualità missionaria è vita secondo lo Spirito.

Il rischio, sempre in agguato, è quello o di cadere nell’intimismo o nel filantropismo.

Papa Francesco ha spiegato molto bene nell’Evangelii Gaudium, il suo documento programmatico, che il tempo è superiore allo spazio, i cambiamenti in 60 anni hanno superato le conoscenze dell’ultimo milione di anni. Egli ha affermato che la nostra non è un epoca di cambiamenti ma un cambiamento d’epoca.

La sfida è spirituale e culturale, un cambio di mentalità cui siamo chiamati.

Papa Francesco quando parla della Missione nell’Evangelii Gaudium, dice fondamentalmente quattro cose, quattro aspetti fondamentali che ci riguardano.

Dare ragione della speranza che è nei nostri cuori. Questi martiri erano missionari ma su cosa si fondava la loro testimonianza?

Per Papa Francesco, innanzitutto, la missione ha una valenza comunitaria. I Comboniani pubblicarono un opuscolo “Insieme fuori le mura”. Papa Francesco è chiaro: come Chiesa dobbiamo essere inclusivi, dobbiamo accogliere quell’umanità dolente della quale anche noi facciamo parte; spalancare le porte, non chiuderle; questo ha fatto Gesù, venuto per le “pecore perdute”. Ad esempio quella della mobilità umana è una delle sfide che sono sotto i nostri occhi.

Seconda cosa: uscire dalle mura. La nostra è una fede da beduini, è una fede nomadica, la missione non è in Chiesa ma fuori le mura.

Questo dobbiamo dirlo in particolare a quei personaggi che si definiscono “tradizionalisti”. Attenzione! Il “tradere” è il “trasmettere” in maniera dinamica la fede.

Dobbiamo mettere in discussione il nostro stesso linguaggio, Papa Francesco questo lo ha chiesto esplicitamente! Siamo consapevoli che i giovani parlano altri linguaggi e il nostro diventa spesso per loro non comprensibile?

Terzo: il locus per eccellenza della missione è la periferia, i luoghi che hanno bisogno di essere raggiunti. I poveri devono essere il nostro riferimento.

Il cardinal Lercaro quando parlò della povertà disse che è il locus magnum della Chiesa.

Dobbiamo intenderci sul significato attribuito alla povertà, ai poveri.

La povertà è un valore o un disvalore? Nel 2013 Papa Francesco disse che i poveri sono la carne di Cristo. Queste sono categorie teologali, non solo economiche e sociologiche.

Attenzione: da un punto di vista Evangelico le Beatitudini sono il nostro orizzonte. La povertà non può essere intesa come mistica della miseria ma come affermazione della condivisione del bene comune.

Papa Francesco ci chiede di non fare proselitismo ma come Chiesa di dare il buon esempio per agognare l’auspicato cambiamento.

Quarto: fondamentale non delegare.

È evidente, guardando alle nostre realtà diocesane, che dobbiamo evitare la tentazione di delegare la missione a qualcun altro; da una parte è importante la ministerialità ma ricordiamoci che la Missione è una; l’8.12.1990 nella Redemptoris Missio Giovanni Paolo II distinse la missione in tre parti, oggi andrebbero riviste: pastorale, nuova evangelizzazione, ad gentes. Per Martini da un punto di vista biblico questa distinzione è superata: la missione è una, e deve avere un orizzonte globale, la globalizzazione intelligente di Dio.