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MADRE TERESA DI CALCUTTA. UNA PICCOLA GOCCIA NELL’OCEANO

30 Maggio 2020

Pubblicato su https://www.glistatigenerali.com/india_relazioni/madre-teresa-di-calcutta-una-piccola-goccia-nelloceano/

Ho avuto la grazia di conoscere da vicino le suore di Madre Teresa di Calcutta.

Comunità delle suore operante in Bari, nel quartiere San Paolo, una delle realtà spesso elevate alle cronache per gli episodi di disagio propri delle periferie urbane.

Quartiere di trentunomila abitanti su trecentoventiquattromila cittadini del capoluogo pugliese, nato in un primo momento con una urbanizzazione proliferata a macchia d’olio negli anni Sessanta, quando l’edilizia popolare innalzò palazzoni come funghi, i più senza ascensori e in alcuni tratti “scordandosi” dei pluviali sotto la gettata di asfalto delle strade (quando pioveva alcune di esse diventavano veri e propri corsi d’acqua da attraversare fino a ben oltre le caviglie).

Le suore di Madre Teresa dimorano lì, questa è la loro seconda sede nel capoluogo, pugliese dove si sono insediate dagli anni Settanta. Oltre a mantenere una mensa con dormitorio maschile (quest’ultimo ora gestito dalla diocesi), aperti dalla prima ora presso un locale donato dal dopolavoro ferroviario, subito alle spalle della stazione centrale, ai piedi del cavalcavia pedonale che scavalca la ferrovia al termine del centralissimo corso Cavour (la via alberata del Teatro Petruzzelli).

Presso San Paolo le suore hanno invece potuto aprire un locale a dormitorio e accoglienza femminile.

Siamo negli anni 2003-2005, lo ricordo perché il 2005 ci fu il Congresso Eucaristico Nazionale a Bari, con la partecipazione finale di papa Benedetto XVI, alla sua prima uscita pubblica dopo l’elezione.

La comunità era composta di sei suore. Tre indiane, una africana, una austriaca, una italiana. Le suore parlavano l’italiano, la lingua della nazione dove operavano, quando interloquivano con la gente.

Ma fra di loro, essendo una comunità “internazionale” comunicavano in inglese. È la lingua che le accompagnerà nei loro spostamenti per il mondo.

Nella cappella, una stanza spoglia, nella parete di fondo c’era un crocifisso di dimensione notevoli (non a grandezza d’uomo ma media grandezza) accostato da due parole, ritagliate nel cartone ed appese alla parete: “I THIRST”.

“HO SETE” (cfr. Gv 19,28). Ovvero le parole di Gesù sulla Croce.

Madre Teresa spiega che Gesù, con questa richiesta, non esprime semplicemente una sete materiale, dovuta all’arsura provocata dal dissanguamento e dalla sua passione.

Gesù esprime altresì, rivolgendoci ancora oggi  questa invocazione, la sete di noi, la  sete delle nostre anime; desidera che noi possiamo dissetarlo legando la nostra vita alla sua, senza abbandonarlo in croce sitibondo.

La giornata delle suore cominciava qua, davanti a quel Crocifisso, che è per amore in Croce per ricordare loro che fra poco avrebbero incontrato tanti altri Crocifissi della società, e a tutti avrebbero dovuto poter dare ristoro. Continuava con la S. Messa alle cinque del mattino… Poi, tre ore di preghiera, in ginocchio davanti al Santissimo Sacramento, recitando il rosario, la preghiera dei poveri, e le altre orazioni.

Madre Teresa diceva che le sue suore non potevano avere la forza di portare l’amore di Cristo a tutti i poveri e a tutte le persone che incontravano, se a questo amore non si fossero nutrite quotidianamente.

Poi iniziava la giornata “nel mondo”.

Un breve riordino alla stanza. Dormivano in sei in una stanza sola, con i materassi sul pavimento, senza reti. Perché? Per la stessa motivazione che Madre Teresa raccontò durante un’intervista in un documentario, quando aprì la sua prima “Casa della Carità in Inghilterra”; quando l’incaricato delle autorità locali stava illustrando a lei le caratteristiche della struttura, le disse:“Questi sono i contatori della corrente elettrica e questo è il comando per produrre l’acqua calda”.

“No – rispose – vi prego di chiudere la fornitura di acqua calda perché io e le miei suore decidiamo di non usarla”.

L’interlocutore rimase allibito.

“Ma com’è possibile Madre Teresa? Vivere senza acqua calda?”

“Caro signore, il motivo per il quale noi scegliamo di vivere senza l’acqua calda corrente (o dormendo per terra, o rinunciando ad altri comfort…) non è certo per dispregio a lei o a tutti coloro che usufruiscono di queste possibilità, e mi spiace doverla importunare chiedendole di adoperarsi per chiuderci questa acqua.

Il motivo è semplicemente legato al fatto che, se noi vivessimo tutto questo, non potremmo comprendere lontanamente la condizione di tanti poveri che vivono nelle città dove operiamo senza poter usufruire mai nell’arco della loro esistenza di simili realtà.

Se per questo, tanti di loro vivono non solo senza l’acqua calda, ma anche senza l’acqua corrente, dovendosene approvvigionare ai pozzi o alle fonti. Per l’acqua calda faremo come loro. Ci basterà bollirla”.

Non so se oggi le regole della congregazione siano cambiate.

Ma è indubbio che questa piccola donna, Madre Teresa, aveva una forza ed una determinazione che non erano nate con lei, ma le venivano da tutto il suo percorso interiore.

Ricordo sempre, nello stesso documentario, l’episodio narrato con le riprese. Madre Teresa era a Beirut martoriata dal conflitto tra Libano ed Israele. Si era recata lì per poter raggiungere le sue suore, che gestivano una struttura per bambini proprio al centro della cittadina durante il conflitto ed erano isolate, insieme con oltre cento bambini, tra loro molti disabili. Era necessario poter sottrarre quei bambini a questa barbarie.

Ma l’operatore è chiaro con la Madre: “Non possiamo avvicinarci alla struttura, nonostante l’appello del cessate il fuoco è troppo pericoloso, perché sono attivi vari cecchini”. Lei rispose con indomita certezza: “Non dobbiamo temere nulla. Ho già pregato che non ci succeda nulla e la Madonna ci penserà lei”. Così fu. Era il 14 agosto 1982. (1)

Agnese Gonxe Bojanxiu. (2)

Nacque a Skopje, attuale capitale dello Stato della Macedonia del Nord ma allora cittadina albanese, il 26 agosto 1910.

A 18 anni entrò nella Congregazione delle Suore di Loreto, e si trasferì presto in India dove lavorò come maestra e poi direttrice della scuola gestita dalle suore che a Calcutta era frequentata soprattutto da figlie di classi abbienti e di coloni britannici.

Nel 1946 ella ebbe una “seconda chiamata” e rimise nelle mani del vescovo e delle superiore la sua richiesta di lasciare l’abito della Congregazione e l’insegnamento per potersi dedicare interamente al servizio di quei poveri che riempivano in maniera drammatica i quartieri della metropoli indiana.

Dopo due anni di attesa, le fu concesso di seguire tale chiamata e fu invitata a mantenere il cammino come religiosa; ella uscì dalla Congregazione delle Suore di Loreto ed acquistò con poche rupie il telo della veste (“sari”) che avrebbe poi caratterizzato lei e le sue suore: bordi celesti su telo bianco.

I primi tempi non furono facili.

Madre Teresa si alzava la mattina uscendo dalla stanza dove si era trasferita a vivere e scendeva in mezzo alla strada dove si dedicava a soccorrere gli ultimi a partire dai poveri accattoni moribondi che qui vivevano. Ella cercava di alleviare le loro sofferenze fisiche e, ove moribondi, di accompagnarli al trapasso.

Raccontava che la sera era così stanca nelle sue forze fisiche, che non aveva idea se sarebbe riuscita il giorno dopo ad alzarsi nuovamente dal suo giaciglio per tornare sulla strada.

Dopo qualche tempo alcune sue ex studentesse la raggiunsero ed iniziarono volontariamente ad aiutarla; dopo un po’ le manifestarono il desiderio di unirsi a lei nella stessa comunità di vita religiosa, così, poco a poco, nel 1950, nacque la Congregazione delle “Missionarie della carità” (comunemente conosciute come “le suore di Madre Teresa di Calcutta”).

La Congregazione ebbe un fiorire di vocazioni che è stato un crescendo, pur nella sua proposta così estremamente radicale.

Uno degli episodi più famosi dei primi tempi della espansione a Calcutta di questa nuova comunità religiosa fu dato dall’iniziativa di un funzionario del luogo che aveva assegnato alle suore per lo svolgimento delle loro attività di ricovero assistenziali (soccorrevano orfani, storpi, lebbrosi, e gli stessi moribondi, aprendo per ogni categoria una “casa”) alcuni locali precedentemente utilizzati dagli adepti della dea Kālī. Gli stessi non tardarono a presentare al funzionario le loro proteste formali per tale decisione: “Hai dato ad una suora cattolica dei locali che gestivamo noi induisti!”

La risposta dell’interessato non si fece attendere: “Non ho alcun problema a riassegnare i locali alla vostra gestione. Purché le vostre sorelle e le vostre madri si incarichino di sostituire Madre Teresa e le sue suore nei servizi di più totale assistenza e accudimento che esse compiono verso poveri, storpi, lebbrosi, piagati e moribondi da loro ospitati, nutriti, lavati.”

Non ci fu replica.

Ella accoglieva chiunque, soprattutto i più bisognosi, nelle sue case, a qualunque Religione appartenessero.

Una piccola suorina gracile ed insignificante, una “matita storta nelle mani di Dio” divenne nei decenni, insieme con l’espandersi mondiale della congregazione delle Missionarie e dei Missionari della Carità, una delle voci più profonde ed ammirate dell’intero Pianeta, al punto da essere insignita, nel 1979, del Premio Nobel della Pace, chiedendo che i 6000 dollari del premio fossero destinati ai poveri di Calcutta, per sfamarli un anno intero.

Celeberrimo, nel discorso di ringraziamento per il ritiro del premio, il suo accorato appello alle madri tentate o costrette all’aborto.

Affermò che non possiamo meravigliarci che esistono tante guerre sulla faccia della terra, né stupirci se sia tanto naturale per un uomo sottrarre la vita ad un altro. Quando sono, drammaticamente tante madri, ogni giorno, a vedersi costrette o a decidere di levare la vita ai figli che portano in grembo. Dunque si rivolgeva alle madri di tutto il mondo, chiedendo loro: se non fossero state in grado di mantenere i loro bambini dateli a me e alle mie suore! E ci prenderemo cura di loro.

Parole senza ombra di giudizio alcuno ma di una profondità che arriva ai cuori.

Madre Teresa, morta il 5 settembre 1997, col tributo dei “funerali di Stato” dall’India di cui aveva deciso di assumere la nazionalità appena dopo l’indipendenza, legando per sempre il suo nome al popolo che per primo e per tanto tempo aveva servito. Verrà beatificata da Giovanni Paolo II il 19 ottobre 2003 e canonizzata da papa Francesco il 4 settembre 2015.

Per tutti coloro che, come me, non l’hanno conosciuta da vicino ma hanno potuto conoscere la grandezza della sua opera e della sua persona era quasi una certezza concordare unanimi: “è una santa!”

Uno svelamento è stato poter conoscere, con la pubblicazione delle sue lettere nel 2010, questa suorina gigante, che trasmetteva pace, amore, speranza, fiducia e fede col suo sorriso, con le sue parole, con l’evidenza certa delle opere di carità realizzate da lei e dalle sue suore; il come ha vissuto per decenni, dopo le prime fortissime rivelazioni mistiche legate alla sua “nuova vocazione”, quella che i maestri dello spirito chiamano: “il deserto dell’anima”, la “notte interiore”.

Esattamente come il suo Signore assetato sulla croce ma al tempo stesso sofferente nel suo grido per “l’abbandono del Padre” (3) (così doveva essere, perché Egli condividesse il Grido di tutti i crocifissi della Storia), per circa cinquant’anni, dagli inizi della congregazione fino alla fine della vita, Madre Teresa, visse in uno stato spirituale di aridità interiore, di “abbandono” da parte del Maestro.

Questo la spinse non solo a non sperimentare interiormente la presenza di Dio, ma anche a dubitare della sua esistenza.

Eppure, all’esterno, continuò a portare avanti e a difendere l’opera che, non lei (una suorina insignificante dubitante dell’esistenza di Dio) ma Altri aveva voluto, pensato e realizzato attraverso di lei.

Per finire due sue risposte agli intervistatori in quel documentario che vidi anni fa.

Ad uno diceva che non gradiva essere fotografata ma aveva, non potendolo evitare, fatto una ”proposta” al Signore chiedendogli di portare in Cielo un’anima ogni volta che le veniva scattata una fotografia!”Nel chiedere era intrepida.

E a quel giornalista che le rivolgeva una domanda paradossale. Se Madre Teresa avesse mai pensato che tutto quello che faceva lei, le sue suore, i suoi missionari, i suoi volontari, per dare sollievo alle pene dei poveri difficilmente non sarebbe riuscita a debellare la povertà sulla faccia della Terra, rispose con un sorriso disarmante ed una profonda determinazione:

Che era ben consapevole che tutto quello che faceva lei, le sue suore, i suoi missionari, i suoi volontari non era che una goccia nell’Oceano.

Ma senza tutto questo l’Oceano avrebbe avuto una goccia in meno.

Parole che, anche oggi, meritano una riflessione profonda.

(1) http://www.asianews.it/notizie-it/Madre-Teresa,-la-guerra-in-Libano-e-il-salvataggio-di-100-bambini-disabili-e-orfani–38470.html

(2) https://www.vatican.va/news_services/liturgy/saints/ns_lit_doc_20031019_madre-teresa_it.html

(3) “Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?” (cfr Mc 15, 34 // Mt 27,46)

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FRANCESCO D’ASSISI: FRATELLO NOSTRO COVID-19

11 Maggio 2020

Pubblicato su https://www.glistatigenerali.com/qualita-della-vita_salute-e-benessere/francesco-dassisi-fratello-nostro-covid-19/

Quando si parla del poverello d’Assisi (1), i consensi sulla sua figura e sul suo messaggio sono pressoché unanimi, a testimonianza del fascino che la sua persona e la sua storia trasmettono.

Eppure, lasciando da parte luoghi comuni o facili quanto superficiali entusiasmi, è indubbio che egli visse quella radicalità e profondità propria di una grande personalità, confrontandosi con la quale non si potrà non riconoscere che il suo esempio e il suo messaggio, affascinanti e tutt’oggi richiamati da emuli e seguaci, costituiscono al tempo stesso una provocazione e una “pietra d’inciampo” per le aspettative dell’homo religiosus come per quelle dell’homo rationalis.

Vorrei invitarvi ad un percorso di riflessione sulla figura di Francesco di Bernardone, prendendo spunto da alcuni tra gli episodi più famosi della sua vicenda, certo che la stessa possa aprire delle prospettive per le nostre vicende odierne.

Partiamo dal celeberrimo incontro di Francesco con i lebbrosi.

Tale episodio è stato citato esplicitamente nei dibattiti tra i credenti, non più tardi di due mesi fa, prima dell’ingresso nella fase del lockdown, quando alcuni rivendicavano il diritto di poter partecipare alle celebrazioni del culto, richiamando appunto la disponibilità a correre il rischio di poter essere infetti dal virus, come sopportabile a motivo della testimonianza della fede, esplicitata con la partecipazione alla celebrazione Eucaristica.

Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo (2).

L’esperienza di Francesco non è quella di una eroica testimonianza di professione di fede e disponibilità a contrarre anche la malattia nel nome di questa, così come alcuni vorrebbero interpretare citando questo episodio.

Qui c’è ben altro.

Conosciamo la storia del giovane assisiate che, pronto a “conquistare il mondo”, partecipò al conflitto della sua città con Perugia, trovandosi a vivere il dramma straziante delle carceri, con la negazione dell’umanità in esse vissuta.

Uscendo dal trauma di questa vicenda come un’altra persona, Francesco era alla ricerca della sua strada.

L’incontro con il lebbroso non fu, dunque, trasmissione di una eroica testimonianza di fede attraverso un gesto di profonda carità e accoglienza (ma perché? Dove sta scritto che per testimoniare la fede bisogna rinunciare alla prudenza, rischiare il contagio, essere disposti a diventare anello di trasmissione del contagio, essere disposti nel nome della propria fede a portare il contagio ai deboli – anziani e ammalati presenti delle nostre famiglie – e a rischiare la loro vita, magari a condannarli a morte, questo sarebbe stato gradito a Dio?!).

L’esperienza fu una vera e propria folgorazione sulla via di Damasco, il figlio di Pietro di Bernardone fu liberato da quelle catene che gli opprimevano il cuore, sentendo l’impulso interiore che lo condusse, come un fiume in piena, ad abbracciare quel fratello lebbroso e a baciarne le piaghe.

Quale pazzia, quale incoscienza, quale assurdità!

Eppure qui non è Francesco a “dare la vita” per il lebbroso.

È esattamente il contrario.

È il lebbroso a “salvare” Francesco, a liberarlo dal suo tormento interiore, ad aprirgli la strada verso una vita che lo pone non più sopra gli altri (la “mia” testimonianza, il “mio” annuncio, la “mia” fede) ma accanto ad essi.

Francesco si apre a quella sapienza nello Spirito che Paolo di Tarso aveva sperimentato, passando dalla delusione per l’insuccesso seguito al suo discorso accuratamente esposto all’Aeropago di Atene (3) al capovolgimento delle prospettive. “Quando sono debole… è allora che sono forte” (4).

Così la “pazzia” del giullare di Assisi, si esplicita nel passo della “perfetta letizia”(5).

Nel descrivere le disavventure di due frati che, infreddoliti e intirizziti sono non solo non riconosciuti ma anche picchiati a bastonate e lasciati così tramortiti in mezzo alla neve, Francesco presenta a frate Leone un quadro di “perfetta letizia”: è chiaro che, al di là delle motivazioni di fede e di imitatio Christi, è indubbio che tale racconto ci lascia disarmati per due motivi.

Da un lato la sconvolgente presentazione di una situazione dalla quale vorrebbe sottrarsi indignato colui che ne fosse colpito o, subendola, non potrebbe che innalzare al Cielo il suo grido di dolore, di sdegno, la sua richiesta che gli sia fatta giustizia; la stessa situazione – ecco lo scandalo – viene invece proposta dal Poverello come necessaria e prodiga perché possa condurre, appunto, al conseguimento dell’agognata “perfetta letizia”.

Ancor più sconvolgente è il modo in cui Francesco presenta il racconto a frate Leone: non si tratta della trasmissione, distaccata e solenne, di rigide regole, di un qualche comandamento, di una qualche norma da applicare. Il racconto si sviluppa in un crescendo enfatico, emozionale e partecipato di episodi che si concludono infine nella gioia profonda, interiore, indescrivibile, una vera e propria follia provata dai due malcapitati frati, tramortiti, bastonati ed intirizziti in mezzo alla neve. Colui che racconta è sicuramente colui che è stato testimone e ha potuto provare una tale gioia. E desidera con tutto sé stesso trasmettercela.

Altro cardine della vicenda francescana è stato quello dello sposalizio con “Madonna Povertà” (6). Francesco, da ricco che era, si fece povero spogliandosi di tutto e decise di vivere mendicando il pane e lavorando con le sue mani, senza possedere ricchezze, sposando in pieno la condizione della povertà materiale.

Naturalmente nella Storia della Chiesa quello francescano non è stato l’unico o il primo tra movimenti pauperisti (7) che diedero valore a questo tipo di scelta e questa specifica spiritualità.

Ancora oggi, si critica la Chiesa e le Chiese per le ricchezze materiali e per una storia che evidentemente ha portato le istituzioni ecclesiastiche ad arricchirsi e ad accumulare ricchezze.

Ma, invece di criticare e combattere le ricchezze ecclesiastiche, Francesco sposta i riflettori sul cammino di sequela personale. La chiamata ad essere discepolo del Crocifisso che gli si rivelò a San Damiano non è una chiamata a “riformare la Chiesa” ma una chiamata a “convertire sé stesso” in un cammino di conversione evangelica che si spinge fino alle estreme conseguenze.

Anche per questo, Francesco ci mostra un orizzonte sempre ulteriore.

Così come faceva il suo Maestro.

Altro episodio, enorme e sempre attuale, controverso ma significativo per l’interpretazione corrente che ne viene data, è quello dell’incontro storicamente avvenuto a Damietta, sul delta del Nilo, nel 1219 tra Francesco e il sultano  al-Malik al-Kamil (8).

Nella Leggenda Maggiore il testo è evidentemente confessionale-apologetico, perché il Santo appare intento ad ottenere dal sultano una conversione religiosa; è indubbio, ad ogni modo, che il percorso scelto da Francesco fu totalmente altro rispetto a quello che si stava realizzando nel conflitto bellico.

Non la partecipazione benedicente alle azioni della Crociata ma un presentarsi, disarmato, e guidato solo dall’ardore della fede, nell’accampamento del sultano.

Un episodio che diviene una strada necessaria e percorribile per il dialogo fra le Religioni, come ebbe l’intuito e la lungimiranza di riconoscere Giovanni Paolo II, quando volle organizzare proprio ad Assisi, il 27 ottobre 1986, il memorabile incontro tra i rappresentanti di tutte le Religioni con lo scopo di pregare tutti insieme per la pace (9).

L’ultimo monumentale lascito del poverello è la sua visione del rapporto con il mondo e con tutti gli esseri viventi, dipinto in maniera mirabile nel Cantico delle Creature (10), dal cui messaggio profondo papa Francesco ha voluto partire per proporci la sua enciclica LAUDATO SI’ (11).

Riassumiamo il nostro percorso, appena accennato, pescando tra l’enorme serbatoio delle Fonti Francescane.

Dopo i nostri primi tre articoli che si richiamano a fonti bibliche (12), volendo continuare ad interrogarci su cosa non solo i passi vetero e neotestamentari ma anche la Storia del Cristianesimo possono suggerirci, vogliamo qui farci provocare dalla “follia” del Poverello d’Assisi.

L’abbraccio del lebbroso, la visione della “perfetta letizia”, il “matrimonio” con Madonna Povertà sono tutti aspetti che ci affascinano per il loro essere sul limite ed oltre il limite di un nostro “normale” orizzonte e, al tempo stesso, ci suggeriscono la fatica, insieme alla gioia, necessarie per fare nostri qualcosa di questi suggerimenti.

Così, l’attenzione al Francesco che dialoga col sultano ci apre gli orizzonti non solo sul confronto fra le Religioni ma anche su un nuovo modo di gestire ogni conflitto. Il superamento della ragione delle armi e la negazione della necessità della guerra a favore dell’incontro e del confronto fra le parti.

E questa vuole essere una denuncia verso chi le guerre le crea e le inventa, costruendone le motivazioni a tavolino (13). Se in tempo di quarantena una delle poche industrie che, sul suolo nazionale, ha continuato la sua attività senza interruzioni, è proprio quella della produzione delle armi (14), forse questo deve porci degli interrogativi.

La poesia del Cantico delle Creature, testo studiato in letteratura quale testimone dell’idioma italico nel Trecento, coinvolge con un sentimento di gratitudine e di lode le creature e gli elementi, fino a definire l’esperienza limite dell’esistenza “sorella nostra morte corporale”.

C’è una visione amorevole e profonda.

La morte non è, per il Poverello di Assisi, una “ladra”, una “nemica”, una “assassina”. Al pari di tutti gli esseri viventi, di tutti gli elementi, di tutte le creature ella è una sorella.

Sarà forse salutare non solo rileggere la vicenda che stiamo vivendo spogliando il virus dai panni di “nemico” dei quali lo abbiamo rivestito (15).

Sarà ancora più importante domandarci se, una volta passata questa fase, e nei tempi in cui questa pandemia potrà essere messa alle nostre spalle, saremo capaci, come singoli e come nazioni, di impostare un modo nuovo di prenderci cura della Terra e dei diritti degli esseri umani che la abitano.

(1) Le Fonti Francescane, Edizioni EFR.

San Francesco di Liliana Cavani, 1989 https://youtu.be/i5KD15W2_PA

(2) Testamento di san Francesco, (FF 110).

(3) At 17, 22-32.

(4) 2Cor 12, 7-10.

(5) I fioretti di San Francesco, BUR, Milano 1979. http://www.darsipace.it/2013/01/10/4496/

(6) Vita Prima di san Francesco di Tommaso da Celano (FF 344).

(7) Movimenti pauperistici tra XII e XIII secolo: eretici e santi 1 https://r.search.yahoo.com/_ylt=AwrIDKHDPbhemRQA3hJHDwx.;_ylu=X3oDMTByMnE1MzMwBGNvbG8DaXIyBHBvcwMzBHZ0aWQDBHNlYwNzcg–/RV=2/RE=1589161539/RO=10/RU=http%3a%2f%2fwww.rmastri.it%2fdidattica%2fold%2findex.php%3fdownload%3dereticiesanti.pdf/RK=2/RS=aaDhuCe7ajRzCmjgM8SMnt9hJnY-

(8) Leggenda Maggiore di San Bonaventura da Bagnoregio (FF 1172-1174) https://sanfrancescopatronoditalia.it/notizie/cultura/san-francesco-e-il-sultano–2149

https://www.assisiofm.it/francesco-e-il-sultano-44637.html

(9) Discorso di Giovanni Paolo II ai rappresentanti delle Chiese cristiane e comunità ecclesiali e delle Religioni mondiali convenuti in Assisi http://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/speeches/1986/october/documents/hf_jp-ii_spe_19861027_prayer-peace-assisi-final.html

(10) Fonti Francescane 263.

(11) Lettera enciclica LAUDATO SI’ http://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html

(12) https://www.glistatigenerali.com/salute-e-benessere_societa-societa/coronavirus-apocalisse/

(13) https://www.cercoiltuovolto.it/notizie/appello-p-alex-zanotelli-la-guerra/

(14) Se nemmeno il coronavirus ferma la produzione militare in Italia https://www.lettera43.it/coronavirus-produzione-militare-italia/

(15) Pandemia come guerra, ossia la banalizzazione della complessità. http://www.vita.it/it/blog/disarmato/2020/04/13/pandemia-come-guerra-ossia-la-banalizzazione-della-complessita-i-dieci-errori-di-un-paradigma-sbagliato/4850/

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SHEMÀ E MAN HU, DUE ALLEATI CONTRO IL COVID-19

20 Marzo 2020

Pubblicato su https://www.glistatigenerali.com/costumi-sociali_religione/shema-e-man-hu-due-alleati-contro-il-covid-19/

“Historia magistra vitæ” (Cicerone, De Oratore, II, 9, 36).

La celeberrima affermazione ciceroniana è valida in ogni tempo ed è una massima che, pur se tanto spesso disattesa, ci invita a recuperare nella memoria degli avvenimenti che la storia ci narra chiavi di lettura utili per affrontare le situazioni che di volta in volta si presentano nelle nostre società.

Pur riconoscendo nella teorizzazione del pensiero debole (1) che le certezze della filosofia razionalistica positiva e i dogmatismi legati alle indicazioni delle religioni si confrontano con una stagione che li mette in discussione, ritengo che la lectio magistralis della storia possa essere affiancata dalle iniezioni di sapienza di quel patrimonio storico-religioso che appartiene alle nostre culture e tradizioni.

Proviamo dunque ad interrogarci sul messaggio che alcuni passi biblici possono dare oggi, alla luce di questa pandemia del COVID-19 che si sta drammaticamente espandendo a livello mondiale.

Già detto che è importante evitare qualsiasi tentazione millenarista (2) e che è altrettanto importante che ognuno, dai capi di governo ad ogni cittadino, si assuma le proprie responsabilità in ordine al contrasto del virus (3), partiamo con l’analizzare una scena celeberrima, quella del dialogo tra Dio e il trickster Satana nel libro di Giobbe (cfr. Gb 1,1-2,10).

Il libro di Giobbe è la risposta della sapienza ebraica alla sconcertante domanda di sempre: “Se Dio è buono e onnipotente, da dove vengono la sofferenza, la malattia, il dolore e la morte?” Perché, dato lo “scandalo” (per il credente) nel dover registrare queste realtà, l’alternativa non lascia scampo: o egli non è buono oppure non è onnipotente. Verrebbero qui a mancare, ad ogni modo, delle caratteristiche che sono, per definizione – almeno la seconda – peculiari della divinità.

Nella rappresentazione dei dialoghi tra Dio e il trickster è evidente che i testi suggeriscono una soluzione: Dio non sarebbe l’autore degli eventi nefasti ma li permetterebbe. Si noti bene: chi “mette alla prova” l’uomo non è Dio ma, nel racconto, il trickster Satana; si potrebbe dire che Dio “scommette”, “fa il tifo” per l’uomo.

Dunque le indicazioni che ci vengono da questo racconto biblico sono incredibilmente attuali: il COVID-19 non è una “punizione divina” e men che meno una dimostrazione di potenza del “principe di questo mondo” (cfr. Gv 14,30) al quale, ad ogni modo, secondo la lettera del brano biblico, non è permesso vantare un potere sulla vita e sulla morte (cfr. Gb 2,6).

Quale che sia l’origine del virus e quali che siano, come detto, le molteplici responsabilità che ne stanno permettendo la trasmissione, quello che conta è sapere che “il fine” di questa – come di qualsiasi altra – prova (e come suggerito dagli “spettatori degli eventi”: Dio e il trickster Satana) sia quello di testare le reazioni e le azioni dell’uomo (ribadendo che, nel testo biblico, lo scopo non è quello “di tentare” ma di “tifare” per l’uomo, perché venga a capo anche delle situazioni più difficili e drammatiche).

Altro passo, fondamentale per quell’attitudine alla memoria che in tempi recenti si è concretizzata a livello locale, nazionale o internazionale, con l’istituzione di specifiche giornate commemorative dedicate a molteplici realtà (4) è quello dello “Shemà Israel”(5) che per il popolo ebraico e nondimeno per ogni attento fruitore del messaggio biblico, costituisce indicazione pedagogica motivazionale per una lettura degli eventi che generi speranza e certezza di sviluppi risolutivi.

Il testo biblico, presente nel libro del Deuteronomio con la preghiera/professione di fede (cfr. Dt 6, 4-9) è la precisa risposta della memoria a un periodo di grande prova quale quello dell’esodo mosaico.

Il popolo di Israele, liberato dalla schiavitù in Egitto attraverso la missione di Mosè, è condotto verso la “Terra promessa” ma dovrà attendere quaranta anni prima di giungervi.

Dunque, con la morte progressiva di tutti i protagonisti della liberazione (solo Mosè vedrà la Terra Promessa da lontano e solo Giosuè e Cur vi entreranno tra quelli che erano usciti dall’Egitto quarant’anni prima) le generazioni dei figli e dei nipoti del popolo ebraico soffre di una esperienza, quella dell’esodo nel deserto, della quale non vede una fine e della quale si chiede il senso.

Ecco allora che a chi vive l’angoscia della prova, la fatica del percorso, l’incertezza sui tempi del tragitto, lo smarrimento, l’ignoranza e l’incapacità di vedere la luce in fondo al tunnel viene incontro l’invito allo “Shemà”, all’ascolto, alla memoria di quel che è stato e dunque di quel che sarà (cfr. Dt 6, 20-25).

Siamo nella prova? Non ci capiamo niente? Ci domandiamo quando finirà?

Il credente israelita e cristiano ricevono con lo Shemà un motivo di consolazione e di speranza, la memoria di quel che Dio ha compiuto, della liberazione che ha operato e dunque il senso delle promesse che non potranno non realizzarsi.

Ma anche colui che si accosta al testo biblico pur senza l’ascolto della fede può trarne preziosi suggerimenti: ogni volta che l’essere umano vive una esperienza di esodo, di passaggio, un itinerario faticoso, doloroso, a volte drammatico, deve comprendere da dove viene e dove va. Il fare memoria di quello che eravamo (non solo “nostalgia del giardino dell’Eden”ma soprattutto consapevolezza della nostra dignità e della nostra chiamata a costruire la città degli uomini) ci aiuta a fondare quello che dobbiamo essere.

Lo slogan: “andrà tutto bene” non è semplice iniezione di speranza difronte ad eventi che paiono precipitare. Dobbiamo riempirlo di tutto ciò che può dare un senso al momento presente: come l’invito allo “Shemà”, all’ascolto; come l’affermazione “Historia magistra vitæ”; così “andrà tutto bene”perché non è la prima volta né sarà l’ultima che riusciremo ad uscire dalle prove più faticose dopo averle subite.

L’ultimo passo che voglio proporvi e che mi ha sempre colpito, riguarda la stessa fatica esodale che vede il popolo di Israele in cammino verso la “Terra Promessa” e che viene ricordata anche durante il cammino che la liturgia cristiana propone durante i quaranta giorni preparatori alla Pasqua.

È l’episodio della “Man hu” (= “Manna”).

Il popolo d’Israele mormorava contro Mosè per il tempo trascorso nel deserto, rimpiangendo la carne e il pane mangiati in Egitto negli anni della schiavitù.

In risposta alle mormorazioni, Mosè trasmette le istruzioni ricevute da Dio che “invia dal Cielo” un dono, la sera la carne con le quaglie, la mattina uno strato granuloso simile al seme di coriandolo, che gli israeliti si chiedono cosa fosse (“Man hu: che cos’è?”) da qui il nome “Manna”: è un pane di cui si sazieranno gratuitamente, senza coltivarlo ma solo raccogliendolo per mangiarlo, per quarant’anni, fino all’ingresso nel paese di Canaan (Cfr. Es 16, 1-36).

Qual’è il passaggio davvero interessante dell’episodio?

Nelle istruzioni che ricevono, gli israeliti vengono invitati a raccogliere ogni giorno il fabbisogno corrispondente a ciascun componente di ogni famiglia, secondo ciò che potesse consumare per alimentarsi senza farne avanzare per il giorno seguente. L’eccezione sarebbe stato il sesto giorno, durante il quale essi avrebbero dovuto raccogliere una razione doppia, per rispettare il riposo del settimo giorno, sacro a Dio, lo Shabbat.

Alcuni israeliti però non rispettavano le indicazioni, raccogliendo maggior quantità di manna rispetto al proprio fabbisogno; quando questa avanzava, il giorno dopo i presenti constatavano che la stessa era divenuta immangiabile, perché vi si erano generati dei vermi ed era imputridita. Questo però non avveniva il settimo giorno!

Lezione davvero notevole, che trova un parallelo nella petizione evangelica del Padre Nostro: “dacci il nostro pane quotidiano”( cfr. Mt 6,11; Lc 11,3).

Dio pare porre una domanda ai suoi interlocutori ed al tempo stesso indicare una strada: “Ti fidi di me? Si? Ebbene: io ti darò da mangiare tutti i giorni”.

Tutti i giorni. Ma giorno per giorno.

Chi si accaparra il doppio delle razioni, pensando solo per sé, non ne gioverà. E non si sarà fidato.

In tempo di prova, di incertezze, di fobie e di tentazioni egoistiche, questo passo assume una attualità innegabile.

Non c’è bisogno di accaparrarsi tutto e subito, di svuotare i banchi dei supermercati, di non lasciare nulla a chi viene dopo di noi. Danneggeremmo altri. E noi stessi non ne gioveremmo. Non solo perché ci sarà sempre qualcuno che arriva prima di noi e ci sottrae ciò che serve a tutti e va condiviso. Ma soprattutto perché non impareremmo la lezione del pane “quotidiano” che la petizione del “Padre Nostro” ci pone in maniera così illuminante.

Una sola preghiera i vangeli ci dicono abbia insegnato Gesù di Nazareth.

Perché non ci ha invitato a pregare dicendo: “Padre, dacci il nostro pane mensile (così come lo stipendio, così come le scadenze)” o: “Padre, dacci il nostro pane annuale (così come i bilanci, così come le dichiarazioni dei redditi).

Per due motivi, principalmente.

Il primo è, appunto, psicologico, morale e diremmo in questo contesto odierno, “solidaristico”.

Se io bramo nell’attendere il pane “mensile” o quello “annuale” rischio di disancorarmi dalla dimensione “quotidiana”. E dunque da quella, effettivamente “reale”. Perché la vita si vive giorno per giorno, solo così arrivando a contare anche le nostre settimane, i nostri mesi e i nostri anni.

Naturalmente la dimensione quotidiana della ricezione del pane mi insegna a condividerlo con gli altri, piuttosto che accaparrarlo egoisticamente solo per me. E in effetti, questa è una lezione che risale a duemilacinquecento anni fa, data appunto della redazione del libro del Deuteronomio con il suo racconto della manna.

Il secondo motivo è molto più semplicemente quello relativo alla efficacia delle immagini utilizzate dal maestro di Nazareth, che nella preziosa proposta delle parabole, ad esempio, utilizza spesso richiami alla vita lavorativa quotidiana e artigiana. Il pane richiesto nella petizione, pur se potremmo interpretarlo in maniera più estesa come figura (“dacci il nostro pane quotidiano” = “aiutaci a procurarci tutto ciò di cui abbiamo bisogno ogni giorno, sia a livello materiale come a livello non materiale”) è di per sé, nell’elemento del pane, una realtà che va procurata giorno per giorno. Duemila anni fa non esistevano i frigoriferi elettrodomestici. Dunque, per chi ascolta, è ovvio che non si può richiedere una scorta di pane per una settimana o più. D’altronde anche noi oggi diremmo che il pane di ieri “è vecchio”.

(1) G. Vattimo e P. A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 2010.

(2) https://www.glistatigenerali.com/salute-e-benessere_societa-societa/coronavirus-apocalisse/

(3) https://www.glistatigenerali.com/costumi-sociali_psicologia/il-signore-chiam…presidente-trump/

(4) https://www.un.org/en/sections/observances/international-days/

(5) 02/02/2016 · SHEMÀ ISRAEL (Marco Frisina) https://www.youtube.com/watch?v=rq7iuX-Y_k4

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IL TRAM PASSA E LA VITA SI RINNOVA

20 Marzo 2020

Pubblicato su https://www.glistatigenerali.com/letteratura_relazioni/il-tram-passa-e-la-vita-si-rinnova/

https://www.ildialogo.org/cEv.php?f=http://www.ildialogo.org/pretisposati/dibattito_1585419832.htm

Recensione del romanzo “Il tram di Fernanda” di Gino Bonometti.

La metafora del viaggio ha sempre affascinato tanti scrittori e la categoria stessa del viaggio è foriera di considerazioni che investono il significato stesso dell’esistenza umana, nel pensiero filosofico e in quello religioso: “la vita è un cammino”, “è un pellegrinaggio”, il senso dell’umana esistenza sta proprio nella condizione dell’”homo viator”.

Naturalmente il Tram non rappresenta il mezzo di un cammino che porti a mete di media e lunga distanza.

Non un aereo. Non una nave. Non un treno. Non un pullman GT, un’automobile. Ma un mezzo urbano, dedicato ai collegamenti cittadini.

Un mezzo di trasporto, un luogo di vita, la fedeltà dell’appuntamento con un mezzo che è al servizio delle necessità di chi lo utilizza nei vari tragitti, di svago, di servizio ma, soprattutto, di lavoro e di vita quotidiana.

Questo però non è “un tram”. È “IL tram”. Precisamente “IL TRAM DI FERNANDA”.

Perché la protagonista del nostro romanzo è lei. E “il suo tram” diventa la metafora della sua vita, di quella fermata alla quale devi salire e dalla quale puoi ripartire per ridare una direzione nuova alla tua vita.

Gino Bonometti ci descrive, quasi con lo stratagemma delle “scatole cinesi”, il dipanarsi di un’esistenza che, da un vissuto, a una crisi, ad una situazione che sembra di impasse, si apre improvvisamente a nuove prospettive, a una nuova freschezza, ad un nuovo entusiasmo, ad una vita che merita una nuova possibilità di sviluppo e di fioritura.

Le prove che la nostra protagonista si trova a dover affrontare non fanno altro che esaltarne i tratti del carattere volitivo, determinato, mai domo, pur nelle sofferenze e nelle criticità che dovrà affrontare.

Fernanda diventa un esempio e una possibilità, lei donna, lei madre, icona di tutte le donne e le madri che si trovano a doversi “reinventare” una vita.

Dalle prime battute il racconto si fa gradevole, coinvolgente, convincente. Il lettore viene condotto dall’autore a farsi spettatore della vita e delle vicissitudini di questa donna, e la sente subito “vicina”, per la sua umanità, per le sue paure, per i suoi aneliti.

A metà del racconto, entrerà in scena l’altro protagonista, quest’uomo “misterioso”, il cui segreto si disvelerà nel corso del racconto.

Il romanzo dunque, partendo e sviluppandosi sul filo dei sentimenti, delle aspettative, delle dinamiche del desiderio e del cuore, unite alla componente delle tante domande che lo sviluppo di una vicenda di vita pone alla mente umana, arriva a condurre il lettore ad un confronto con alcuni interrogativi legati alla vicenda storica della categoria di persone che il nostro secondo protagonista rappresenta: un insegnante, un educatore di coscienze ma, prima di tutto, un uomo maturo, saldo nei suoi principi e nelle sue idee, che le vicende della vita hanno condotto ad un punto cruciale: quello di una scelta.

Da un lato la dignità, il sentimento, il desiderio di ricostruirsi e scommettere su una nuova stagione.

Dall’altro il peso di certe “Strutture” che vivono ripiegate solo su sé stesse e che possono essere riconosciute sia nella contingenza storica di tutta la categoria che il nostro protagonista rappresenta sia in un’attualizzazione che vada ancora oltre, individuando i contorni di questo confronto come propri di tutti coloro che lottano per gridare il proprio diritto a libertà contro la logica della “Struttura” che sacrifica nel nome di presupposte motivazioni e di dichiarati ideali la vita stessa dei suoi adepti.

La lettura del racconto porterà dunque il lettore a salutari e rinnovate riflessioni.

Ogni vita merita di essere non solo vissuta ma ripresa nei momenti nodali e condotta a nuove fioriture attraverso scelte mature e coerenti.

E quel tram sarà sempre lì, a passare e a darci l’occasione di una nuova corsa, perché non siamo ancora al capolinea.

Alessandro Manfridi 21.07.2019

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E DIO CHIAMÒ IL PRESIDENTE TRUMP

12 Marzo 2020

Pubblicato su https://www.glistatigenerali.com/costumi-sociali_psicologia/il-signore-chiamo-il-presidente-trump/

https://www.ildialogo.org/cEv.php?f=http://www.ildialogo.org/parola/Approfondimenti_1584100993.htm

Attualizzazione del processo dopo il peccato originale alla luce del COVID-19

Dio chiamò il Presidente degli Stati Uniti d’America e gli disse:
“Donald, come mai la prima super-potenza al mondo ha trascurato con tanta superficialità la diffusione del virus?”
Trump: “Proprio oggi ho ammesso pubblicamente che questo si sta diffondendo negli USA.
La colpa è dell’Europa che non ha assunto misure sufficienti a contrastarlo. Infatti ho appena disposto che per i prossimi trenta giorni siano cancellati tutti i voli aerei dal Vecchio Continente agli Stati Uniti”.
Poi Dio si rivolse alla Presidente dell’Unione Europea.
“Ursula, come mai la UE è stata così tardiva e scoordinata nel contrastare il virus?”
von der Leyen: “L’OMS ha appena dichiarato che si tratta di PANDEMIA, dunque ci stiamo allineando.
Purtroppo molti paesi hanno ritenuto che fosse colpa dell’Italia, al punto da arrivare a vietare l’esportazione di prodotti lavorati nel Bel Paese, ma questo non ha impedito al virus di diffondersi”.
Dio si rivolse dunque al Presidente del Consiglio dell’Italia.
“Giuseppe, come mai la tua nazione ha portato avanti una corsa ad ostacoli contro il virus senza riuscire a debellarlo velocemente?”
Conte: “Purtroppo abbiamo chiuso i voli, poi decretato le due zone rosse, poi chiuso la Lombardia ed altre zone del Veneto e dell’Emilia Romagna, poi fatto di tutto il territorio nazionale una “zona protetta”, poi invitato tutti a rimanere in casa, infine ieri ho chiesto che non vadano a lavorare tutti i lavorarori, ad eccezione di chi lavora nella filiera agroalimentare, nei trasporti, nei beni e servizi essenziali e abbiamo nominato un commissario straordinario per fronteggiare l’emergenza.
In tutto ciò non sono mancati malumori e rimbalzi di accuse, dal ministro dello Sport alla Lega Calcio che non aveva interrotto il campionato, dai genitori costretti a tenere i figli piccoli a casa dovendo andare a lavorare, dalla congestione della rete per lo smart working e la didattica scolastica a distanza, dagli anziani spaventati verso chi ha continuato a radunarsi nei locali, dai fedeli sofferenti per la chiusura dei luoghi di culto, dai meridionali arrabbiati con i corregionari che hanno fatto un esodo forzato dalla zona rossa lombarda di notte, dal Centro-Sud sofferente verso le zone rosse del Nord dove i controlli non hanno impedito gli spostamenti sul resto del territorio nazionale, dai lombardi e dai veneti che continuano a pagare pesantemente il loro tributo, dai medici e dagli infermieri eroici che stanno pagando gli effetti pluridecennali dei tagli sulla Sanità.
In tutta questa situazione con chi ce la possiamo prendere?
Forse con la Cina dalla quale è partito questo virus?”
Dio dunque si rivolse al Presidente della Repubblica Popolare Cinese.
“Jinping, come siete arrivati ad essere causa di questa Pandemia?”
Xi: “La Cina è una potenza di un miliardo e 433 milioni di abitanti.
La colpa è della città di Wuhan, metropoli di 11 milioni di abitanti, che si è fatta sfuggire il virus.”
Dio si rivolse al Sindaco di Whuan.
“Xianwang, come mai non avete fermato il virus alla sua nascita?”
Zhou: “Purtroppo milioni di persone sono fuggite prima della quarantena. Ma la colpa non è nostra, è del COVID-19 che, subdolo, ha iniziato a decimarci.”
Dio si rivolse infine al COVID-19.
“Io non ti ho mai creato, nè pensato, nè progettato, nè voluto. Si può sapere da dove vieni e perchè stai combinando tutte queste disgrazie?”
COVID-19: “Comprendo bene che ora tu te la prendi con me, perchè sono all’origine della catena di trasmissione. Tu mi chiedi: “perchè” e io ti rispondo: “non lo so”.
Tu mi chiedi: “da dove vieni?” ed io ti dico: “neanche esistevo… si sono però create le condizioni perchè io venissi alla luce… A chi devo dare la colpa? All’inquinamento, all’uomo, al caso? Non lo so. Ma io SONO INNOCENTE”

I dialoghi che ho immaginato si rifanno alla pagina biblica del libro della Genesi, capitolo 3, che presenta gli interrogativi posti da Dio ad Adamo ed Eva dopo la loro caduta.

Nel racconto l’uomo dà la colpa alla donna e la donna dà la colpa al serpente. Il danno è fatto, ma la colpa “originale” è sempre di qualcun altro.

Se chi viene interrogato arriva a sostenere che la colpa non sia mai la sua ma sia da attribuire a qualcun altro; se nessuno si assume le proprie responsabilità sostenendo che c’è un altro a cui addossare la colpa (che a sua volta non se l’assume!); se quel che emerge nei momenti di crisi sono le irresponsabilità e gli egoismi, piuttosto che una responsabilità personale e una solidarietà condivisa, ci sarà sempre un COVID-19 capace di oscurare la parte migliore dell’essere umano.
Cfr. Gn 3, 8-24.

Alessandro Manfridi

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CORONAVIRUS E APOCALISSE

6 Marzo 2020

Pubblicato su https://www.glistatigenerali.com/salute-e-benessere_societa-societa/coronavirus-apocalisse/

Ormai il COVID-19 è il protagonista incontrastato di ogni riflessione nazionale.

In “tempi di crisi” si riaffaccia, puntuale, la sensibilità millenarista, si moltiplicano le sirene dei “profeti di sventura” e i predicatori apocalittici raggiungono considerevoli picchi di visibilità, guadagnando gradimento e share sulla rete ed oltre.

Paure, psicosi e speranze si accavallano e si sovrappongono, mettendo alla luce i sentimenti più nascosti ed ancestrali di ciascuno di noi.

La Storia delle Religioni e la Storia del Cristianesimo e delle Chiese può illuminarci, dandoci qualche indicazione in più sul modo di vivere in maniera non esasperata e non esasperante le tensioni verso l’Oltre e verso ciò che ci trascende e ci pone le domande di sempre.

In queste settimane, accanto alla diffusione esponenziale di questo virus, impazzano sul web imput di ogni tipo, dai più pesanti a quelli caricaturali.

Così, qualcuno ci ha ricordato che il calendario dei Maya è stato mal interpretato, visto che la data da loro prevista per la fine del computo della cronologia era il 2012 e qualcuno oggi suggerisce l’anno odierno.

Da dove nasce questa “necessità” di “leggere i segni dei tempi” e di trovare chiavi interpretative per dare una spiegazione finale agli avvenimenti che la storia ieri e la cronaca oggi di volta in volta ci presentano?

Una delle coordinate è proprio quella legata alle domande “fondamentali” che ogni essere umano, almeno una volta, si è posto nella vita: “Da dove vengo?”, “Dove vado?”, “C’è una vita dopo la morte?”, “Che significato devo dare all’esistenza e alle sofferenze e alle prove che vivo?”.

Naturalmente la domanda più drammatica è proprio quella che sta dietro all’avvenimento della fine dell’esistenza.

Nel XIV secolo il continente Europeo visse il dramma di una pandemia chiamata “Morte nera”, probabilmente dal batterio della peste che, dall’Asia attraverso la Turchia arrivò in Grecia e nei Balcani e attraverso l’Egitto in Sicilia risalendo l’Italia e diffondendosi in Francia, Spagna, Germania, in tutta l’Europa fino ad arrivare alle isole britanniche.

Secondo gli studi degli storici questa pandemia di peste avrebbe sterminato un terzo della popolazione del continente, causando circa venti milioni di decessi.

Certamente non possiamo ignorare i milioni di morti dovuti alle guerre che si sono succedute nel Vecchio Continente nell’arco della sua plurimillenaria storia; ma la percentuale delle vittime mietute in pochi anni – dal 1346 a poco oltre il 1353 – fanno di questo avvenimento, forse, l’evento più nero e drammatico di tutta la storia continentale.

Lo stesso fenomeno da cui deriva il termine “Millenarismo”(1), coniato per designare la credenza diffusa che allo scoccare dell’anno Mille della Storia Cristiana il Tempo sarebbe giunto al suo termine (e con il proliferare, come sappiamo, di una serie di movimenti e di sette che eccitavano gli animi a riguardo) fu superato, di gran lunga, dalla disperazione e dalla follia generate dall’orrore e dal terrore delle popolazioni sottoposte alla devastazione della “Peste nera” trecentesca.

Ne fecero le spese, in maniera drammatica, gli ebrei.

Tra il 1348 e il 1350 ci furono massacri in Spagna, Francia, Germania ed Austria suscitati da una falsa accusa secondo la quale gli Ebrei avrebbero provocato la morte di Cristiani con l’avvelenamento di pozzi ed di sorgenti d’acqua durante la peste nera. Solo a Strasburgo vennero bruciati vivi 2.000 Ebrei. (2)

Questa “necessità” di trovare un “capro espiatorio”, di “dare la colpa a qualcuno” per la catastrofe che incombe, sono caratteristiche delle psicosi collettive generate da questi “segni apocalittici”.

Accanto al termine “millenarismo” e prima del suo conio, la parola “Apocalisse” sta a designare, appunto, l’arrivo di un tempo di grandi prove e tormenti, e si rifà proprio al titolo dell’ultimo libro della Bibbia, la parola greca “apokálypsi” che tradotta in italiano significa ”rivelazione”.

Il libro, davvero affascinante e colmo di simbologie (abbiamo simbologie cromatiche, simbologie numeriche, simbologie zoomorfe, simbologie angeliche, simbologie cosmiche) è la trasposizione scritta, attribuita all’ultimo degli Apostoli in vita, Giovanni l’Evangelista, che avrebbe narrato sull’isola di Patmos verso gli anni Novanta dell’Era Cristiana le “rivelazioni” da lui ricevute nelle sue visioni mistiche, rivelazioni che hanno a che fare con quello che avverrà “Alla fine dei tempi”.

Il fatto che le visioni siano corredate di avvenimenti drammatici (segni negli elementi, carestie, devastazioni, guerre, apostasie, battaglia angelica tra le milizie capeggiate dall’Arcangelo Michele e gli angeli decaduti guidati da satana cfr Ap 12, 7-9), tutte descrizioni – si noti – altamente simboliche e dunque esigenti di necessarie interpretazioni, ha condotto l’immaginario collettivo sbocciato a corredo degli avvenimenti più drammatici della Storia bimillenaria del Cristianesimo a dipingere “la Fine dei Tempi” come un’epoca corredata, appunto, da un susseguirsi martellante, senza tregua ed asfissiante di avvenimenti catastrofici.

Non c’è bisogno di citare i testi e l’azione di quei gruppi religiosi e quelle Chiese “specializzate” nella predicazione millenarista-apocalittica, come la Congregazione dei Testimoni di Geova o come le molteplici denominazioni che appartengono alla famiglia delle Chiese Avventiste.

Lo stesso Cattolicesimo ha tra i punti fondamentali del suo “Credo” quello dell’attesa di un ritorno di Gesù Cristo alla “Fine dei Tempi”. Nel Messale Romano l’assemblea è invitata a proclamare dopo le parole consacratorie durante le liturgia eucaristica, la formula: “Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”. Dunque, l’attesa di una “Seconda venuta, nella gloria”, come viene formulato sia nel “Simbolo Apostolico” sia nel “Simbolo niceno-costantinopolitano”, entrambi recitati, alternativamente, nella liturgia eucaristica festiva come riportato dal Messale stesso.

Il credente cristiano vive dunque quest’attesa, questa tensione. Ma non ne predice né ne prevede una “data” (che sia il 1000, il 2000 o quando altro), anche perché nella Bibbia tali date non sono proposte; naturalmente il “predicatore millenarista” e tutti gli adepti al disvelamento di “segreti apocalittici” si sono azzardati e sprecati, in epoche passate e recenti, a dispensare date e scadenze con lo zelo di chi si preoccupa delle conseguenze deleterie di un cibo consumato dopo la data di scadenza… a onor del vero, la Storia li ha smentiti puntualmente.

L’attenta lettura dei testi biblici ci fa notare che i vari scritti prodotti dai cosiddetti “Profeti” (con il genere letterario corrispondente) presentano un’andamento opposto a quel che il sedicente “profeta apocalittico” pretenderebbe e prevederebbe. Il profeta biblico, infatti, è sempre un uomo od una donna controcorrente, che “parla nel deserto” e, quasi sempre, vive il dramma di una profonda solitudine ed isolamento, non venendo compreso/a, nonostante la profondità delle sue provocazioni e delle sue battaglie, se non al termine della sua esistenza od oltre la stessa.

La Bibbia stessa presenta la figura dei “falsi profeti”(Cfr. Dt 18, 17-22, Ger 14,14; 28, 1-17, 1Re 18, 20-39, Mt 24, 11).

A questi ultimi potremmo accostare le figure dei “sedicenti profeti apocalittici” che dimostrano la pochezza delle loro prospettive, la piccolezza dei loro obiettivi e la meschinità dei loro fini proprio a partire dalle loro azioni e dalle loro strategie, totalmente opposte alla testimonianza del profeta autentico, quello che lascia un solco.

Si noti: i signori, menagrami di sventura, non vanno controcorrente, tutt’altro, cavalcano l’onda delle fobie e delle psicosi.

Non prevedono quel che ancora non si vede all’orizzonte ma fanno incetta di notizie catastrofiche sotto gli occhi di tutti (disastro ecologico, fame nel mondo, virus letali, recessione economica, guerre endemiche, egoismo umano all’ennesima potenza…) e le riciclano per i loro sporchi interessi: creare audience, consenso, adepti, suscitare adesioni e guadagnare grazie ai diritti d’autore, sulla pelle della gente. In pratica, si propongono all’opposto dei veri profeti, che sono invece emarginati, perseguitati ma alla fine riconosciuti ed esaltati (la formula evangelica conserva immutata la sua verità profonda: “Chi si esalta sarà umiliato, chi si umilia sarà esaltato”, cfr. Lc 14, 7-14).

Il ritorno di Cristo, atteso dai suoi credenti, pur essendo una buona notizia (l’apocalisse, in realtà, è una buona notizia; perché il vero cristiano non si preoccupa dei segni apocalittici che lo accompagnano – peraltro, come detto, presentati simbolicamente nel testo biblico – ma si rallegra della opportunità di poter conoscere Colui nel quale crede accogliendolo al suo ritorno sulla Terra), non ha cessato, come abbiamo visto, nel corso di due millenni di storia, di vivere deviazioni proprie dei movimenti millenaristi ed apocalittici.

La storia è antica.

Ne sa qualcosa l’apostolo Paolo che scriveva la sua seconda lettera alla comunità dei credenti presente in Tessalonica.

In essa si evince che già nelle prime comunità cristiane era fortissima l’idea che Gesù sarebbe tornato di lì a poco e che tutti avrebbero potuto conoscerlo.

Questa gioiosa attesa era però degenerata in alcuni che, certi della ormai prossima fine di questo stato di cose (“ fine del mondo”) erano giunti alla risoluzione di smettere di lavorare, per concentrarsi sulla “parusia” ormai imminente.

Paolo li rimprovera fortemente, richiamandoli al presente, con una frase che può giustamente restare scolpita come fondamentale regola di convivenza civile: “Chi non vuol lavorare neppure mangi” (2Ts 3,10).

Dopo duemila anni di Cristianesimo, cogliendo l’urgenza di contrastare il COVID 19 che ci vuole tutti uniti e solidali, rigettando qualsiasi sirena sedicente profetica, siamo grati nel continuare a dare il nostro contributo con il lavoro, con lo studio, con le nostre capacità e competenze, per uscire da questa crisi e sopratutto perché la dicitura “situazione apocalittica” sia colta non più come qualcosa di terribile, ma come una occasione per costruire un presente sensato e dare risposte umane alle domande di senso.

(1) DUBY G., FRUGONI C., Mille e non più mille: viaggio tra le paure di fine millennio, Rizzoli, Milano 1999.

(2) FOA A., Ebrei in Europa. Dalla Peste Nera all’emancipazione, Laterza, Roma-Bari, 2008.

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FRANCESCO È UN GRANDE, VI SPIEGO PERCHÈ

13 Febbraio 2020

Pubblicato su https://www.glistatigenerali.com/america-mondo_clima/francesco-e-un-grande-vi-spiego-perche/

https://www.ildialogo.org/cEv.php?f=http://www.ildialogo.org/francesco/commenti_1581692475.htm

http://www.parrocchiemarrubiu.it/modules.php?modulo=mkNews&idcontent=1230

Con l’Esortazione Apostolica post-sinodale QUERIDA AMAZONIA del 2.02.2020, presentata ieri (12 febbraio ndr), Papa Francesco pare aver deluso le aspettative di quanti, ormai da settimane, si attendevano delle novità in merito all’ordinazione di uomini sposati, i viri probati, e all’accesso delle donne al Sacramento dell’Ordine nel grado del Diaconato.

In effetti, tali “mancate riforme”, sembrano aver messo alla prova non solo tutti quei vari movimenti di rinnovamento che si muovono nel panorama variegato dell’Orbe cattolico, ma aver, in qualche modo, negato tutto il lavoro profuso in maniera capillare da una vasta base ecclesiale nelle consultazioni prima, e dal Sinodo che ha avuto luogo a Roma tra il 6 e il 27 ottobre e che si è concluso con un testo intitolato Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale.

Francesco dunque non avrebbe avuto il coraggio di consumare uno strappo con gli ambienti più conservatori della Chiesa e, per buona pace e grande soddisfazione del cardinal Sarah, di Benedetto XVI e di quanti hanno difeso strenuamente la necessità della legge sul celibato obbligatorio nelle scorse settimane, avrebbe “sacrificato” riforme che sarebbero state storiche e clamorose (la legge disciplina da quasi mille anni il clero cattolico di rito latino; ancora più arretrata nei secoli è la memoria di un diaconato istituito femminile) riconsegnando la Chiesa allo STATUS QUO.

Io vorrei però proporre una lettura diversa, fuori del coro della generale delusione per le aspettative mancate.

Innanzitutto, davvero interessante, è il preambolo dell’Esortazione.

In esso, il Papa afferma che non intente né sostituire né ripetere i contenuti del Documento conclusivo stilato dai padri sinodali al termine dei lavori.

«Ho preferito non citare tale Documento in questa Esortazione, perché invito a leggerlo integralmente.

Dio voglia che tutta la Chiesa si lasci arricchire e interpellare da questo lavoro, che i pastori, i consacrati, le consacrate e i fedeli laici dell’Amazzonia si impegnino nella sua applicazione e che possa ispirare in qualche modo tutte le persone di buona volontà» (QR nn. 3-4)

Dalle parole citate pare evidente che Francesco, dopo aver affermato che non intende sostituire il Documento finale con la sua sintesi della Esortazione Apostolica, auspichi che pastori, consacrati, laici e persone di buona volontà possano applicare le conclusioni dei padri sinodali, che egli invita a leggere integralmente. Interessante invito, con conseguenze e sviluppi da considerare attentamente.

Francesco, evidentemente, come più volte ha indicato con il suo magistero, non intende “calare dall’alto” le soluzioni e le direttive in merito al governo della Chiesa,

Ma suggerire, col suo bagaglio esperienziale legato ad una pastorale presbiterale che deve “odorare delle pecore”, e ad una realtà ecclesiale sudamericana che ha vissuto le sue punte più profonde nell’opzione preferenziale per i poveri e nella condivisione della difffusa realtà delle comunità ecclesiali di base, che ciascuno di noi riscopra la categoria, ricordata dalla LUMEN GENTIUM, dell’azione e del protagonismo di quel Popolo di Dio che cammina comunionalmente, superando dunque gli inconvenienti, da lui più volte denunciati, del clericalismo e del clericocentrismo.

Traducendo: voi invocate una riforma che sia ancora una volta diretta dalle scelte clericali e calata dall’alto dal magistero papale? Imparate a camminare come Popolo di Dio (così come ci è stato mostrato nella consultazione e nei lavori sinodali) e sarà questo popolo stesso il protagonista della riforma da voi auspicata!

Ritengo che i tempi siano ormai maturi per un riconoscimento ministeriale dovuto alla preziosa ed infaticabile componente femminile; così come la questione dei “viri probati” non sia affatto chiusa. Non definirei in tal senso l’Esortazione Apostolica papale come una occasione persa ma solo come un invito a cambiare le prospettive e ad allargarle.

Qui sta, appunto, la grandezza della linea di Francesco.

Dove in queste ultime settimane il contenzioso si è consumato tra la questione celibato sì/celibato no e l’attenzione mediatica si è concentrata solo ed esclusivamente su questi punti, egli ci ha aperto il quadro su prospettive e tematiche ben più ampie, che chiamano in causa non solo la riflessione della Chiesa ma rivolgono un appello all’intera umanità.

Egli dunque, consegnandoci quattro sogni che corrispondono ad altrettante visioni (sociale, culturale, ecologica, ecclesiale) ci conduce per mano, in particolar modo nei primi tre capitoli, invitandoci a riconoscere le nostre responsabilità e ad adoperarci perché la distruzione della biodiversità dell’Amazzonia e lo sterminio, l’emigrazione, lo sradicamento culturale e l’impoverimento degli indios che si trasferiscono nelle città vengano affrontati con una presa di coscienza collettiva.

« […]dovremmo tutti insistere sull’urgenza di «creare un sistema normativo che includa limiti inviolabili e assicuri la protezione degli ecosistemi, prima che le nuove forme di potere derivate dal paradigma tecno-economico finiscano per distruggere non solo la politica ma anche la libertà e la giustizia».Se la chiamata di Dio esige un ascolto attento del grido dei poveri e, nello stesso tempo, della terra,per noi «il grido che l’Amazzonia eleva al Creatore è simile al grido del Popolo di Dio in Egitto (cfr.Es3,7). È un grido di schiavitù e di abbandono, che invoca la libertà» (QA n. 52)

« […]oltre agli interessi economici di imprenditori e politici locali, ci sono anche «gli enormi interessi economici internazionali».La soluzione non sta, dunque, in una “internazionalizzazione” dell’Amazzonia, ma diventa più grave la responsabilità dei governi nazionali. Per questa stessa ragione, «è lodevole l’impegno di organismi internazionali e di organizzazioni della società civile che sensibilizzano le popolazioni e cooperano in modo critico, anche utilizzando legittimi sistemi di pressione, affinché ogni governo adempia il proprio e non delegabile dovere di preservare l’ambiente e le risorse naturali del proprio Paese, senza vendersi a ambigui interessi locali o internazionali». (QA n. 50)

Le frequenti citazioni della LAUDATO SI e la denuncia delle logiche capitalistiche che stanno depredando l’area amazzonica propongono la stessa Esortazione Apostolica come uno dei documenti del Magistero Sociale della Chiesa.

Preziosissime le indicazioni sulla necessità di rendere protagoniste le popolazioni indigene e mettersi in ascolto delle loro proposte.

L’analisi dei primi tre capitoli del documento porta tutti noi ad accogliere l’appello che Papa Francesco fa, in maniera accorata, perché il dramma che si sta consumando in Amazzonia possa essere riconosciuto ed affrontato.

Il Papa “venuto dall’altra parte del mondo” ci ha già abituato a decentrarci e ad assumere uno sguardo planetario, operando quella globalizzazione della solidarietà che deve contrastare la cultura dello scarto.

Ricordiamo come non solo Roma e il Vaticano si sono colorati durante il Sinodo panamazzonico della presenza e dell’apporto di donne e uomini indios ma anche come Francesco abbia personalmente invitato, già per la messa del suo insediamento al soglio pontificio, i rappresentanti e gli attivisti sudamericani di queste popolazioni.

Questa è la visione, questi sono i sogni e questa è la chiamata alla quale Francesco ci invita ad aprirci. Con una presa di coscienza collettiva e un’azione comune non più procrastinabili.

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FINESTRA DI JOHARI. UNA PROPOSTA

22 Gennaio 2020

Pubblicato su https://www.glistatigenerali.com/costumi-sociali_religione/finestra-di-johari-una-proposta/

Il celeberrimo schema detto “Finestra di Johari” ideato dagli psicologi americani Joseph Luft e Harry Ingham nel 1955 (le iniziali dei cui nomi combinate hanno dato nome allo schema) è uno strumento utilizzato per lavorare sulle dinamiche interpersonali e di gruppo.

Lo schema è rappresentato da quattro quadranti e che vengono letti da due punti di osservazione diversi, il primo inerente alla conoscenza posseduta dal soggetto (o dal gruppo), il secondo relativo alla percezione esterna che viene recepita del soggetto (o del gruppo).

I passaggi tra i quadranti permettono di lavorare sulle dinamiche della comunicazione.

Un quadrante detto dell’“Arena” è quello legato alla manifestazione pubblica di ciò che un soggetto è (o mostra). In pratica una conoscenza propria del soggetto (o del gruppo) e condivisa all’esterno.

Il quadrante opposto è quello dell’“Area Sconosciuta”, ignota o “inconscia” dove sia il soggetto (singolo o gruppo che sia) non ha conoscenza di alcune sue caratteristiche (in psicologia parliamo di “inconscio”) e in ugual modo la “non conoscenza” dello stesso è condivisa dall’osservatore esterno.

I due quadri intermedi si caratterizzano per un alternarsi delle variabili.

In uno, quello dell’”Area segreta” (o “privata” o “nascosta”) anche detto “Facciata” il soggetto possiede una conoscenza di sé che non condivide con l’osservatore esterno.

Completa lo schema l’area “cieca”, quella in cui l’osservatore esterno ha una conoscenza del soggetto (singolo o gruppo che sia) senza che lo stesso la condivida. In pratica, il soggetto è come “cieco”, impossibilitato ad avere una conoscenza di sé (come avviene invece nei quadranti “Arena” e “Facciata”).

L’asse orizzontale indica il grado di conoscenza che il soggetto/il gruppo ha di sé stesso; l’asse verticale indica la conoscenza che hanno gli osservatori esterni del soggetto/del gruppo.

Mi sono sempre interessato dell’applicazione di questo schema per vari studi.

In maniera impropria, data la peculiarità dello strumento, proverò a sfruttarne l’uso per dare una sintesi schematica della situazione del clero della Chiesa Cattolica di rito latino.

L’occasione mi viene proprio dalle ultime prese di posizione a favore del celibato da parte del cardinal Sarah che ha pubblicizzato un libro che dice di aver realizzato con il Papa emerito Benedetto XVI, il quale si è invece affrettato a smentire la notizia sul suo consenso all’operazione (1).

Ricordando che sull’argomento ci sono molti interventi ed una discreta bibliografia, io stesso mi sono espresso a riguardo anche su questo canale (2), mi limito qui ad uno schema sintetico, che possa dare un quadro della questione, utilizzando la “Finestra di Johari”.

Ho preso in considerazione due variabili: il celibato e la castità.

Naturalmente le due realtà sono collegate ma non equivalenti.

Per celibato “ecclesiastico” si intende l’impegno assunto dal clero a rinunciare al matrimonio nell’ambito delle promesse sottoscritte prima dell’ordinazione diaconale (3).

La “castità” è invece una virtù che viene richiesta anche agli stessi sposi cristiani. In questo caso non si chiede l’astensione dai rapporti ma un certo modo di vivere tutta l’esperienza relazionale di coppia, nei vari aspetti affettivi, sessuali, generativi (4).

I preti “secolari”, quelli legati all’obbedienza ad un Vescovo e incardinati in una diocesi, fanno “promessa di celibato” ma non “voto di castità”; tale voto è invece professato dai religiosi e dai consacrati di ogni ordine e carisma: suore, monache, frati, missionari, monaci, sacerdoti cosiddetti “regolari”perchè legati all’osservanza di una “regola” che fa capo al loro fondatore e segue un carisma particolare (Francescani, Domenicani, Benedettini…). Questo non significa che i preti secolari non debbano vivere una qualche forma di “castità”, pur non avendone assunto un voto. Ricordando che secondo gli insegnamenti della Chiesa Cattolica ogni rapporto fuori del matrimonio è considerato illecito (un peccato “da confessare”) naturalmente ciò si ritiene valga anche per una relazione affettiva che sia di coppia ma non arrivi ad un matrimonio (una convivenza di fatto); è evidente che ai consacrati viene negato dunque quello che già viene negato ai laici (rapporti fuori del matrimonio, convivenza) con la differenza che un prete, un frate, una suora, per sanare una relazione affettiva “fuori del matrimonio” dovrebbe sposarsi, rinunciando al ministero.

Nel quadrante dell’Arena ho dunque rappresentato le due variabili nella loro proposta “pubblica”: i preti qui sono SIA CELIBI CHE CASTI, esattamente come li vuole la Chiesa, li vede la gente e come si propongono e si sforzano di vivere loro stessi.

Nel quadrante opposto troviamo la variabile “NON CELIBI E NON CASTI”. Si tratta di preti che hanno deciso di rompere la loro promessa celibataria per sposarsi (risultando secondo le norme sospesi dall’esercizio del ministero) ma non vivono la castità loro propria, vivendo in maniera deviata l’esercizio della loro sessualità.

Questi due quadranti opposti nascondono la realtà delle cose: il mondo non si divide in “bianchi” e “ neri”, in “buoni” e “cattivi”, come l’informazione mediatica vorrebbe spesso proporre.

Infatti, passare dalla visione ideale del prete “celibe e casto” dedito alla sua missione (figure esistenti, certo; ma non da idealizzare) a quella del prete non solo “traditore” della sua missione ma anche fonte di scandali (quadro descritto da Paolo VI nella Sacerdotalis Coelibatus come analizzo) (5) è un passaggio che non solo potrebbe far sorridere gli osservatori più attenti ma che probabilmente non corrisponde alla realtà nel suo complesso.

Per tal motivo i due quadri intermedi appaiono essere più vicini alla realtà stessa.

In uno, che corrisponde impropriamente all’area “Cieca” di Johari (quella in cui il protagonista non si coglie nella sua realtà ma viene colto dall’osservatore esterno) ritroviamo i preti NON CELIBI MA CASTI. Sono quei preti che hanno rinunciato alla promessa del celibato per sposarsi e mettere su famiglia (venendo sospesi dall’esercizio del ministero ma rimanendo, secondo il Codice di diritto Canonico, can. 290, comunque validamente ordinati; per tal motivo i sacramenti eventualmenti celebrati da essi – confessioni e messe – sono considerati validi ma amministrati in maniera illecita, ad eccezione di quanto dispone il can. 977 CJC). Essi vivono dunque la dimensione, come accennato, propria anche dei laici, quella della “castità matrimoniale” (non “astensione”, lo ripetiamo, ma giusta costruzione della relazione al di fuori di qualsiasi “perversione” e tradimento extramatrimoniale).

Nell’ultimo quadrante, quello dell’area di “Facciata”, “occulta”, “segreta”, “privata”, troviamo i preti CELIBI MA NON CASTI. In quest’area il soggetto conosce sé stesso ma tali aspetti non vengono condivisi e manifestati all’esterno. “Mancanza di castità” vuol dire naturalmente tutta una serie di cose, in un ventaglio davvero ampio. Dal “segreto”al “nascondimento” di una “relazione affettiva” che non può essere resa pubblica, alla vita smarrita dietro promiscuità e dissolutezze, fino all’attaccamento a realtà che negano il senso stesso della missione assunta: la brama di potere, il carrierismo, il clericalismo, la vanagloria, il narcisismo, la prevaricazione sugli altri, la simonia e l’accumulo di denaro e di beni materiali. Celibi sì. Ma casti no.

Naturalmente è chiaro che la mia applicazione dello “Schema di Johari” è impropria, in quanto questo nasce e viene usato in dinamiche legate alla comunicazione; il mio schema invece presenta due soggetti diversi: quelli dei preti rimasti celibi e quelli dei preti che hanno deciso di rinunciare al celibato, con un doppio sviluppo dinamico in cui assegno a ciascuna delle due categorie due quadri dello schema. Pur con una forzatura, spero la mai proposta possa essere letta in maniera scorrevole.

Concludo ricordando che chi propone una rivisitazione della norma che rende obbligatorio il celibato ecclesiastico fra il clero cattolico di rito latino non sta chiedendo l’abolizione del celibato stesso (come erroneamente qualcuno intende) ma solo l’abolizione della sua obbligatorietà, lasciando dunque la libertà ai protagonisti – sotto il discernimento e l’accompagnamento della Chiesa – di poter essere dispensati dall’obbligo accedendo ad un matrimonio senza essere al contempo sospesi dall’esercizio del ministero.

Mi sembra particolarmente interessante il servizio giornalistico andato in onda su Rai Tre nel format “Presa diretta” il 13.01.2020 intitolato “Attacco al Papa”(6 ) e dunque qui ho il piacere di segnalarvelo.

(1) http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2020/01/14/celibato-dei-preti-e-giallo-in-vaticano_e8c1ca9e-8c5d-4790-ae84-cb8315a4c840.html
(2) https://www.glistatigenerali.com/religione_teologia/papa-francesco-e-la-conferma-della-norma-del-celibato-obbligatorio/
(3) http://www.vatican.va/content/paul-vi/it/encyclicals/documents/hf_p-vi_enc_24061967_sacerdotalis.html

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2020-01/celibato-sacerdotale-secondo-concilio-dono-non-dogma.html
(4) http://www.vatican.va/archive/catechism_it/p3s2c2a6_it.htm
(5) http://www.vocatio2008.it/ULTIMENOTIZIE/2019_05_26_7%20Relazione%20Manfridi%20Convegno%20Vocatio%2026.05.2019.pdf
(6) https://www.raiplay.it/video/2020/01/Presa-diretta—Attacco-al-Papa-4026c0ba-4c4d-46b3-a457-026f87cc0983.html

https://pietrevive.blogspot.com/2020/01/attacco-al-papa-presa-diretta-di.html?m=1&fbclid=IwAR37H_DSApP01u4EUz8Wjiv_y5KaTHZEtH8dL9m71nCHT-PA7a

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PERCHÈ GESÙ BAMBINO PUÒ DARE UNA SPERANZA A CREDENTI E NON CREDENTI

22 Dicembre 2019

Pubblicato su https://www.glistatigenerali.com/famiglia_religione/perche-gesu-bambino-puo-dare-una-speranza-a-credenti-e-non-credenti/

Natale è uno degli appuntamenti più sentiti dalle società occidentali.
Non solo il motore commerciale, quello delle compere, dei regali, dei pranzi e delle cene, dei viaggi e dei soggiorni, dei mercatini, delle manifestazioni.
Le luci, gli addobbi, i festoni, contribuiscono ad apprestare le località più amene e le location più caratteristiche, arrivano a suscitare una vera e propria “gara” che coinvolge tutti, dalle autorità comunali ai negozi, dalle strade agli edifici pubblici, fino ad ogni sito domestico e privato, colorando ed accendendo muri, balconi, finestre e cornicioni.
In ogni casa e in ogni ambiente, pubblico e privato, non mancano, insieme alle luci, almeno i simboli del presepio o dell’albero natalizio.
Questa atmosfera, questa magia, coinvolge la nostra società, i nostri ambienti, le nostre famiglie.
Tutti sappiamo che la fonte di queste manifestazioni e di queste celebrazioni sta in un evento che caratterizza il messaggio legato ad una delle religioni che ha fatto la storia del globo negli ultimi due millenni, quella del Cristianesimo, con la natività del suo ispiratore, Gesù, detto “Il Cristo” (“l’unto del Signore”).
Per i cristiani il Natale è la celebrazione di un evento senza pari: un Dio che “si fa uomo”, decidendo di nascere, di incarnarsi, di “prendere carne” da una giovane fanciulla ebrea che viveva in Palestina.
Per chi non crede questo può essere un mito, una bella favola, o comunque il racconto, teologizzato, della venuta al mondo di un uomo realmente esistito che ha segnato il pensiero e i destini di innumerevoli persone a lui ispiratesi nel corso dei secoli successivi.
Degno di nota è ricordare che il calendario più diffuso sulla faccia della Terra è quello che conta il tempo cronologico separandolo con un ante Christum natum / post Christum natum.

Senza riprendere triti discorsi sul fatto che tanti festeggino senza ricordare il festeggiato, la mia riflessione vorrebbe porre una domanda: può la vicenda di questo bambino dire qualcosa non solo ai credenti ma anche a coloro che non credono? E se sì, in che maniera?
Io partirei da una considerazione: non esiste nella storia di ogni essere umano, di ogni famiglia, di ogni organizzazione sociale e di ogni Civiltà, un momento più significativo quale quello della propagazione della vita e della celebrazione per l’evento di una nuova nascita.
Ovunque, la nascita di un bambino costituisce un motivo di gioia, di rinnovata speranza, di determinazione di senso legata alla possibilità di un futuro attraverso la propagazione della vita.
Al tempo stesso, nell’era della globalizzazione, della società liquida (1), della informazione digitale, sono sotto gli occhi di tutti e del mondo intero – nonostante gli impedimenti legati a volte ad informazioni canalizzate in maniera distorta secondo le leggi dettate dai poteri occulti di sempre – le vicende e le situazioni che ci presentano il dramma dell’infanzia negata in giro per il mondo: dalla pedopornografia alla pedofilia, dallo sfruttamento della prostituzione minorile al commercio e al turismo sessuale dedicato, dal lavoro minorile nelle fabbriche, nelle miniere ed in ogni settore lavorativo possibile ed immaginabile alla dispersione scolastica, dal mancato accesso all’istruzione alle discriminazioni verso il mondo femminile fin dalla tenera età, dalle mutilazioni etniche ai matrimoni dei bambini, per arrivare ad ogni genere di violenze, ambientali e domestiche, fisiche e psicologiche, fino alle storie di negazione più totalizzante dell’infanzia e dell’umanità stessa, quella dei bambini soldato (2), drogati e spediti in prima linea nei villaggi a commettere eccidi e mattanze delle popolazioni civili.
Queste terribili immagini e storie dell’infanzia negata, destando sentimenti di impotenza, di rabbia e di sdegno, suscitando in noi la richiesta per un impegno civile personale e collettivo a favore di ognuna di queste vittime e contro tutte le cause che ne provocano lo sfruttamento e l’abuso, nell’impegno per l’individuazione, la denuncia e il perseguimento dei colpevoli, ci ricordano infine che una società che non difende i suoi bambini non difende se stessa e non si garantisce alcun futuro.
Non scordiamo anche tutti i bambini vittime delle guerre, della fame, delle carestie, delle malattie non curate (maggiori rispetto a quelle incurabili), delle migrazioni come profughi e quelli a cui è negata la nascita stessa, per mille motivi.
Questi quadri ci consegnano drammi che vanno di pari passo con la storia dell’umanità ma che oggi sono, in qualche modo, sotto gli occhi di tutti coloro che non vogliano “voltarsi dall’altra parte”.

Quanto grande è lo sgomento per la considerazione dei drammi legati all’infanzia negata tanto maggiore è il sentimento che vede nelle venuta di un neonato un motivo di speranza che superi le angosce per le tante minacce portate all’infanzia stessa.
Per questo, la storia di un bambino ebreo nato duemila anni fa in Palestina in una situazione precaria, “al freddo e al gelo” (3), come uno che non avrebbe avuto diritto ad un alloggio degno di questo nome, da genitori che stavano vivendo una vicenda che li superava (e quale gravidanza non “sconvolge” la vita di qualsiasi coppia sulla Terra?) e che si caratterizza come un motivo di speranza, di luce, di mantenimento delle promesse, ha da dire qualche cosa, da dare un senso, in primo luogo alle nascite e alle esistenze di tutti quei bambini che, oggi, possono venire al mondo in situazioni di precarietà, di mancanza, di minaccia che gravano su di loro.
E, insieme con il senso proprio della vita di ogni bambino, per la dignità e la grandezza che questa, ogni vita, porta in sé, questa luce, questo senso, questo adempimento delle promesse, delle speranze, delle attese, passa dal dono della venuta di un nuovo nato a pervadere le vite e le esistenze di tutti coloro che ne accolgono l’arrivo.
Un credente deve scoprire questo: non solo la preghiera al Christus patiens, all’Uomo della Croce, al Gesù Messia adulto e taumaturgo. L’uomo di fede deve scoprire la preghiera, la devozione, la spiritualità del culto a Gesù come Bambino, quella stessa che fu mirabilmente testimoniata dalla sequela sulla via della infanzia spirituale da Teresa di Lisieux (4).
Quello stesso Gesù che, ancora una volta in questi giorni, è protagonista della festa del Natale vissuta in ogni dove.
Anche chi non crede (in Dio), fissando il suo sguardo negli occhi di un Gesù Bambino che ci guarda da un presepe domestico, da una mangiatoia allestita da qualche parte o da un’immagine che ci raggiunge dal web, può ritrovare il senso più profondo e il messaggio più autentico che ci è dato in questi giorni di festa: quello della speranza, della gioia, della certezza per la realizzazione di un modo migliore perché, fin quando ci sarà un bambino, ci sarà una luce che ci illumina.

Alessandro Manfridi

(1) Z. BAUMAN, Modernità liquida, trad. di Sergio Minucci, Editori Laterza, Roma -Bari, 2011.

(2) I. BEAH, Memorie di un soldato bambino, Neri Pozza Editore, Vicenza 2014.

(3) https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/e-natale-tu-scendi-dalle-stelle

(4) TERESA DI GESÙ BAMBINO, Storia di un’anima, Editrice Shalom, Ancona 2001.

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PAPA FRANCESCO E LA CONFERMA DELLA NORMA DEL CELIBATO OBBLIGATORIO

13 Novembre 2019

Pubblicato in https://www.glistatigenerali.com/religione_teologia/papa-francesco-e-la-conferma-della-norma-del-celibato-obbligatorio/

Sono passate solo alcune settimane dalla chiusura dei lavori dell’ultimo Sinodo della Chiesa Cattolica: «Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale» e sembra che per molti – media, agenzie, pronunciamenti di personaggi vari e di alti prelati – il punto centrale dei lavori sia stato quello della discussione sui «viri probati».
L’assemblea sinodale si è espressa favorevolmente ed ora l’ultima e definitiva parola è attesa dal documento post-sinodale che nei prossimi mesi vedrà la luce per mano del Vescovo di Roma.
Ed ecco alternarsi interviste, prese di posizione, fautori della proposta e voci critiche e preoccupate davanti alla probabile sua realizzazione.

Poniamoci qualche domanda.

Il Papa dovrebbe in questo momento abolire la legge del celibato obbligatorio che regola come norma la disciplina del clero cattolico di rito latino ormai da quasi un millennio?
Per chi il Papa dovrebbe portare una variazione così importante e per certi aspetti poco unanime?

Chi chiede al Papa l’abolizione del celibato?
Chi non la chiede?

Sicuramente le risposte a questi quesiti sono molteplici.

L’abolizione del celibato viene richiesta da più parti:

• da una parte della società civile che vede nel clero uxorato una categoria di persone aperte a scelte umane di coniugalità e genitorialità; scelte che permetterebbero ai preti di essere un po’ meno «separati» e un po’ più «allineati» con le altre componenti del «popolo di Dio»;

• da coloro che individuano nella norma una delle cause del crollo delle vocazioni;

• dalle donne che amano un prete od un vescovo e ritengono di essere ricambiate;

• dai figli nascosti di preti e di vescovi;

• dai preti uxorati, da quei preti cioè che, ricevuta la dispensa o meno, hanno già deciso di convolare a nozze.

Ma ai veri «protagonisti», ai preti celibi, interessa  questa abolizione?

Da parte dei preti celibi pare non vengano richieste esplicite; forse da alcuni ma non dalla maggior parte del clero. Perché? Probabilmente ritengono che le cose vadano bene così?

Queste domande rimangono senza risposta certa.

Perché dunque Papa Francesco dovrebbe eliminare una norma che la maggior parte dei sacerdoti, vescovi, cardinali, religiosi e religiose non gli chiede di modificare?

Tra l’altro, a coloro che chiedono l’abolizione del celibato le risposte del diniego sono molteplici:

• a quella parte della società civile favorevole a una simile riforma viene fatto presente che, se i preti sono per definizione teologica presi dal popolo e separati da esso per il bene e a servizio dello stesso (PO 3), la rinuncia che essi compiono a vivere le esperienze della coniugalità e della genitorialità è una scelta formulata a suo tempo, quello della formazione, liberamente sottoscritta e certamente richiesta per precise motivazioni: quella della dedizione totalizzante alla missione evangelica;

• a chi invoca la possibile soluzione al calo delle vocazioni, basta sottoporre le statistiche che dicono che tale crisi riguarda, in maniera trasversale, anche Chiese delle altre comunità cristiane non cattoliche storicamente fornite di clero uxorato;

• alle donne che amano un prete o un vescovo e che spesso vivono la sofferenza di queste relazioni nel nascondimento anche per anni si risponde che l’abolizione della norma non sarebbe poi così risolutiva della loro situazione. A tal proposito vengono formulati questi quesiti: queste donne sono veramente certe che chi è accanto a loro le ami e non trascini la relazione prendendole in giro? Sono certe che questo sentimento sia realmente ricambiato o forse potrebbe essere una loro illusione? Sono certe che, una volta eliminata la norma, colui che loro amano non potrebbe decidere comunque di porre fine alla relazione? Ma soprattutto, se il sentimento di lui è sincero, profondo e vero, perché non ha già deciso di lasciare il ministero per unirsi alla sua amata? In altre parole: queste donne sono certe che il vero motivo per cui vivono una relazione nascosta sia quella dell’obbligo del celibato, per il quale il sacerdote si dice impedito a sposarle per non rinunciare al ministero?

• Per quanto concerne i figli nascosti di preti e di vescovi, si prende atto che se un uomo, sacerdote o laico che sia, mette al mondo un figlio, dovrebbe assumersi la responsabilità civile e morale della paternità con tutto ciò che questo comporta. Tale responsabilità non prevede però necessariamente che quest’uomo sia obbligato ad unirsi in un vincolo coniugale, nel caso in cui egli non riconosca un legame affettivo con la madre del minore. Quindi la risposta che viene data a chi chiede l’abolizione del celibato obbligatorio mette in risalto l’assenza di correlazione tra l’obbligo del celibato e il dovere di genitorialità. Raccontando la testimonianza di Vincent Doyle, figlio di un prete e fondatore di Copyng International (http://www.copinginternational.com/) e le ammissioni del portavoce vaticano Alessandro Gisotti,  il New York Times sostiene l’esistenza di linee guida che fanno parte di un “documento riservato” interno al Vaticano che richiederebbero al ministro che abbia concepito un figlio di assumersene la paternità e di lasciare il ministero (https://www.nytimes.com/2019/02/18/world/europe/priests-children-vatican-rules-celibacy.html). É chiaro che, pur distinguendo la legge del celibato obbligatorio dalla responsabilità genitoriale, è utile chiedersi se l’invito a lasciare il ministero risulti un vantaggio reale per il bene del figlio; le attuali linee guida potrebbero non aiutare un ministro ad arrivare al riconoscimento in quanto questo sfocerebbe simultaneamente in un suo stato immediato di precarietà reddituale con tutte le problematiche che ne potrebbero derivare, inclusi i doveri genitoriali di mantenimento verso i figli minori.

• Infine ci sono le risposte che si danno ai preti che hanno già fatto la scelta di sposarsi, con dispensa o meno, che vengono comunemente detti «preti uxorati» i quali, anche se sono sospesi dal ministero a norma del CJC, Can. 1333, rimangono sempre tali nel Sacramento. Le risposte/domande che si danno a questi sono le seguenti: perché il Papa dovrebbe rispondere alle loro richieste e a quelle di alcune decine di Associazioni che li rappresentano in parte nel mondo, di abolire il celibato obbligatorio? Perché essi possano tornare a «dir messa»? E una tale «pretesa» non potrebbe essere figlia di quella stessa mentalità inficiata dal «clericalismo» più volte denunciato (cfr. Francesco, Lettera al popolo di Dio, 20.08.2018), desiderio che rimarrebbe nell’imprinting degli stessi preti uxorati, non sazi di amore coniugale e familiare, ma desiderosi di continuare ad esercitare il ministero e nostalgici di un ruolo che faceva di loro un «Alter Christus» fino al momento della scelta profusa? Il Papa ha già dato una risposta, amara, netta, dolorosa: «Facciano i bravi laici!» (22.05.2017 risposta data all’Assemblea della CEI alla domanda di mons. Meloni). Sono sempre preti, si, ma ora si preoccupino di vivere il loro ministero nella famiglia, nella società civile, nel mondo «laicale».

Torniamo ai preti celibi: gli unici a non chiedere l’abolizione del celibato. Perché?

Convenienza, interessi, carrierismo, malcelata omosessualità, paura ad esporsi? Vocazione, dedizione, eroismo, sacrificio, dono?
Ognuno conosce le sue motivazioni. Di sicuro il fatto di non chiedere l’abolizione è già una presa di posizione.

Il Papa, con questo Sinodo, ha voluto dare voce ai bisogni della Chiesa Cattolica che è in Amazzonia, chiedendo un ascolto sulla situazione di questa realtà. Se per altre questioni  Papa Francesco ha dato indicazioni demandando discernimento sulle situazioni locali agli Episcopati Nazionali,  si osserverà   tale linea anche per questi argomenti?

In Amazzonia i preti non ci sono e quindi la proposta avanzata è che siano ordinati laici diaconi di provata fede all’interno delle comunità. E se questa assenza di clero è presente in altro luoghi, vedremo se anche qui si darà voce alle Chiese locali.

In Italia il clero italiano e la CEI chiedono preti uxorati? No. Dunque non ha senso che ci siano.

La conclusione a cui si giunge dopo questa lunga disamina è che anche se l’obbligo del celibato è una legge e non un dogma, quindi come tale può essere mutata, non si scorge una urgenza effettiva di abolire tale legge per quel che riguarda il clero della Chiesa Cattolica di rito latino.

Ad un prete e ad un vescovo che decidono di voler contrarre un vincolo matrimoniale, rinunciando dunque al loro ministero, sarebbe necessario garantire una continuità lavorativa retribuita in modo da evitare che la precarietà della condizione economica in cui verrebbero a trovarsi una volta sospesi, possa trasformarsi in motivazione che induce a preferire una non- scelta che, protraendo nel tempo nascondimenti e legami affettivi importanti, finisce con il generare inevitabili situazioni dolorose per se stessi e anche per la comunità ecclesiale.

E se è vero che l’abolizione della legge sul celibato non è una priorità nell’agenda della Chiesa di rito latino, al tempo stesso è vero che non si può più ignorare l’urgenza di gestire queste condizioni all’interno della Chiesa Universale e non può essere più ignorata la responsabilità di voler trovare soluzioni adeguate non solo al clero ma anche ai consacrati e alle consacrate, che vivono simili dinamiche e sofferenze.

Se la Verità rende liberi (Gv 8, 32) è proprio la Verità che sta dietro ogni vita, in special modo se si tratta di clero e consacrati, che deve guidare oggi le scelte della Chiesa e del Vescovo di Roma.

Alessandro Manfridi