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Io sono la porta, ma anche Colui che bussa alla porta…

di Alessandro Manfridi

Domani, alle 18.30, verrà aperta la Porta Santa di San Pietro a Roma. Attraversarla con un po’ di storia e di esegesi sulle spalle ci aiuterà a farlo con maggiore consapevolezza.

23 Dicembre 2024

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DioGesùgiubileoincontroMosèPorta Santarito di passaggio

Quella di Mosè è la storia di un uomo comune. Un uomo che avrebbe voluto cambiare qualcosa con le sue forze per giovare alla sua gente ma che ha dovuto fuggire in un paese lontano perché ha fallito nel suo intento e ha dovuto pensare alla sua vita.

Lì ha iniziato tutto da capo, ha messo su una famiglia, si è sposato, ha avuto due figli e ha iniziato a condurre una onesta e quotidiana vita di lavoro, lontano dai fasti e i riflettori della corte del Faraone.

Proprio lui, preso dal suo lavoro quotidiano e ormai lontano dai suoi propositi giovanili, ha vissuto uno degli incontri più intensi che la Bibbia ci racconti.

Quel Dio che si è rivelato a lui in maniera potente, come un fuoco che consuma, che divora, che trasforma in sé tutto ciò che avvolge, e davanti al quale non ci si può avvicinare per curiosità ma bisogna levarsi i calzari, lo ha scelto per liberare il suo popolo dall’Egitto.

E alla richiesta di rivelare il proprio nome, il Dio dei suoi padri si rivelerà con il tetagramma del verbo “Essere” che è la massima rivelazione e al tempo stesso il massimo nascondimento. Dio non “si definisce” con un qualche attributo o una qualche funzione. Lui “è” e non può essere racchiuso in una definizione. Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono!”. E aggiunse: “Così dirai agli Israeliti “Io Sono mi ha mandato a voi”(Es 3,14).

Nel quarto Vangelo Gesù riprende la rivelazione del nome che Mosè ha ricevuto al roveto ardente e lo utilizza sia in senso assoluto: “Io sono” (Gv 8,24.28.58; 13,19) che definendosi nei suoi discorsi teologici. “Io sono il pane della vita” (Gv 6,35); “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12); “Io sono la resurrezione e la vita” (Gv 11,35); “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6); “Io sono la vite vera (Gv 15,1).

Nel capitolo 10 c’è il discorso sul pastore delle pecore: “Io sono il buon pastore” (Gv 10,11). È in questo contesto che Gesù si definisce come “la porta delle pecore” (Gv 10,7). “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Gv 10,9).

Quello della porta è un simbolo potente che attraversa epoche, culture e religioni con il suo significato di passaggio, di iniziazione, di ingresso. La porta evoca, insieme a tanti significati mistici, esoterici e spirituali, in particolare il passaggio e l’ingresso verso “altri mondi” e a quello che accomuna l’esperienza di tutte le generazioni, con il passaggio dalla vita all’aldilà.

Dal 1300, con l’istituzione del Giubileo nella Chiesa Universale con papa Bonifacio VIII il messaggio di liberazione trasmesso dal capitolo 25 del libro del Levitico con l’anno giubilare, fatto proprio da Gesù nella sinagoga di Nazareth (Lc 4, 16-30) entra potentemente nella cristianità.

La prima “Porta santa” della storia del cristianesimo è quella della Basilica di Santa Maria di Collemaggio a L’Aquila fondata nel 1288 da papa Celestino V. La prima “Porta santa” legata ad un giubileo è quella della Basilica di San Giovanni in Laterano a Roma nel 1423. Con papa Alessandro VI si hanno notizie certe dell’inizio del rito di apertura della “Porta santa” nel Giubileo del 1500 nella Basilica di San Pietro.

Nel 1950 viene inaugurata l’attuale “Porta santa” collocata alla destra della facciata della Basilica di San Pietro in Vaticano, realizzata dallo scultore Vico Consorti per la Fonderia Marinelli di Firenze e aperta da Papa Pio XII, ancora oggi raffigurato nell’ultima formella della stessa porta, in un Giubileo che voleva caratterizzarsi come un evento di riconciliazione e di pace, dopo il dramma del secondo conflitto mondiale.

Il rito di apertura della “Porta Santa” la notte del 24 dicembre, a San Pietro, da parte del Papa, inaugura l’apertura nell’anno del Giubileo.

Durante questo anno l’esperienza da parte dei pellegrini di varcare la “Porta Santa” (una tra quelle delle quattro Basiliche Maggiori di Roma) (NB: da queste porte si può solo entrare, non uscire) realizza in maniera plastica quello che è un messaggio evangelico potente.

“Io sono la porta”: ci dice il Signore (Gv 10,9). La “Porta Santa”, dunque, è uno dei simboli che rappresentano il Cristo. Varcare la sua soglia simboleggia l’”entrare” attraverso di Lui.

La Parola però ci suggerisce ulteriori indicazioni e la riflessione sulle formelle della “Porta Santa” della Basilica di San Pietro ci aiuta, ad esempio, ad approfondirle.

“Sto ad ostium et pulso”: con questa parola, impressa nella sua sedicesima formella, viene richiamata la rivelazione che san Giovanni evangelista riceve a Patmos dal Signore: “Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me “(Ap 3,20).

C’è una raffigurazione pittorica che mostra in maniera suggestiva questo versetto, con il Signore che bussa ad una porta, priva di maniglie: è una porta che può essere aperta solo dall’interno.

Il passaggio della “Porta Santa” significa il nostro impegno a “entrare” attraverso il Signore.

Ma è Lui stesso che, per primo, fa un passo verso di ciascuno di noi, bussando alla porta del nostro cuore, della nostra anima, della nostra vita. Solo noi possiamo decidere se lasciarlo fuori o farlo entrare.

Che questo Giubileo possa essere l’occasione per riscoprire la potenza e la bellezza di questo incontro.

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Identità di genere: approccio psicologico e pedagogico

Questioni di genere

di Alessandro Manfridi

Picardi, Ceriotti Migliarese e Fusi continuano la riflessione sull’Identità di genere al Corso Interdisciplinare offerto dalla Pontificia Facoltà Auxilium per l’aa. 2024/25

13 Dicembre 2024

“Identità di genere. Sfide e prospettive per educatori”: è il tema del corso interdisciplinare con il quale la Pontificia Facoltà “Auxilium” ha inaugurato l’anno accademico 2024-2025. https://www.pfse-auxilium.org/it/notizie/08-10-2024/corso-interdisciplinare-24-25-identita-di-genere/roma

La seconda giornata si è svolta sul tema “Identità di genere: approccio psicologico e pedagogico” https://www.youtube.com/live/SO7CyjtU4LQ?si=-TWpeqUfyWBz_gOg

Modera entrambi gli incontri Maria Grazia Vergari, della Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione Auxilium. All’inizio di entrambi gli incontri saluta i presenti e ringrazia i relatori Piera Ruffinato, Preside della Facoltà.

Entrambi gli incontri sono stati aperti da due video introduttivi realizzati da Annalisa Picardi.

Nel primo si è presentato il Teen drama che è un genere narrativo, presente nelle serie tv, indirizzato agli adolescenti e ai giovani; si tratta di strategie comunicative usate per formare le nuove generazioni. Il linguaggio liquido gender è entrato nelle strategie di marketing delle piattaforme di streaming che utilizzano questi elementi per attirare a sé nuovi abbonati. Alla fine di tutta questa narrazione il corpo queer è diventato un prodotto da vendere.

Per i media non è tanto importante ciò che si vuole mostrare ma ciò che si vuole nascondere: il fatto che noi non siamo omologabili ma siamo unici e irripetibili.

Il secondo video, la cui narrazione è ispirata ai passaggi della Lettera Enciclica Dilexit nos di papa Francesco, ci ricorda che il passato non può ritornare. È utopistico pensare di ritornare nella società degli anni 90; dobbiamo entrare nell’ottica che questo tempo possa essere vissuto come opportunità.

La fluidità è una risposta confusa ma che ha inquadrato la domanda giusta presente nel profondo di noi stessi, una domanda antica.

Il primo intervento è stato presentato da Mariolina Ceriotti Migliarese, medico, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta (Milano), sul tema: “Identità di genere: prospettive psicologiche”.

L’argomento viene svolto da un punto di vista evolutivo, tracciando le linee evolutive che partono dall’infanzia.

Noi nasciamo biologicamente determinati dal maschile e femminile e arrivare a definire la propria identità e la propria identità di genere richiede due decenni di passaggi con un lungo percorso di identificazione inserito in un intreccio di relazioni, dove natura e cultura si sovrappongono.

La prima cosa per il bambino vive è la scoperta della differenza di un’identità sessuale. Questa scoperta si pone tra i 18 e i 24 mesi. Il bambino raggiunge una stazione retta, acquisisce un linguaggio che gli permette di dare un nome alle cose, dopo i primi mesi riceve l’educazione dagli adulti al controllo volontario degli sfinteri. Queste tre cose comportano una attenzione all’area genitale. Il bambino, anche molto piccolo, ha situazioni di erezione del pene che comporta un aumento dell’interesse e dell’attenzione.

È necessario per prima cosa conoscere come funziona il pensiero infantile. Il bambino non è un adulto semplificato. Il pensiero del bambino è un pensiero sperimentale, concreto, non accede all’astratto.

Per il bambino l’area genitale e quella escrettiva sono collegate. Il pensiero del bambino funziona per categorie semplici: “o…o”; è un pensiero che funziona per opposti e che gli permette di orientarsi. Il bambino divide il mondo in due: esiste il maschio e la femmina.

La seconda cosa che si chiede: perché esiste questa diversità? La risposta che il bambino si dà è quella reale, che corrisponde alla natura: questa diversità esiste per generare.

Il bambino si percepisce come portatore di qualcosa, la bambina si percepisce come mancante di qualcosa.

Il bambino ha la necessità di disambiguare di categorizzare: “Io sono maschio come il papà, io sono femmina come la mamma”.

I passaggi successivi: “è bello somigliare al papà” o viceversa, dipendono in parte da come l’adulto accoglie o rifiuta l’identità del bambino; ma dipendono anche da come gli adulti si confrontano tra di loro.

Se il padre non tratta bene la madre, il bambino realizzerà che non è bello essere una donna! Quando i minori assistono a delle violenze in campo familiare possono nascere delle ferite importanti.

È molto significativa l’intervista al registra Crialese che ha fatto un coming out sulla sua esperienza di transizione, raccontando la sua infanzia https://video.corriere.it/festival-venezia-crialese-racconto-mia-infanzia-mia-storia/27347c32-2c58-11ed-a881-0468ff338f41

Il percorso maschile e femminile si fa molto diverso.

Il maschio, che ama la madre, deve rinunciare ad essere come la madre per essere come il padre ed essere accolto dal padre o da una figura paterna con la quale si può confrontare per identificarsi; per il maschio una maggiore carica aggressiva è un aiuto al distacco dalla madre.

È molto importante che questo distacco psichico e non fisico del maschio dalla madre avvenga, perché in età adulta il maschio veda la donna non come colei che deve rispondere ai suoi bisogni (come fa la madre).

Più ampio è il problema dell’orientamento sessuale e dell’identità sessuale. Lo snodo principale è quello della preadolescenza. Il corpo diventa un corpo specificamente maschile o femminile durante la pubertà.

Tutta la fase della preadolescenza ha il compito di elaborare il tema della appartenenza personale al mondo maschile o femminile.

Il messaggio che viene recepito: il mio corpo cambia con la pubertà ed io devo assumere una mia identità.

Finché siamo nel mondo dell’infanzia c’è la presenza degli adulti; nella preadolescenza conta più il mondo dei pari e il mondo dei media; con la madre le bambine si confidano se il rapporto è buono, mentre i maschi sono soli perché i padri di solito si tengono fuori da questo confronto.

Quello di internet con il quale si confrontano i preadolescenti è un mondo di promiscuità e di violenza che non insegna la relazione.

L’amico/amica del cuore vengono spesso letti dal mondo adulto e dei pari caricandoli di valenza omosessuale; invece sono omoaffettive e questo stigma porta alla confusione.

Si noti bene, per molti adolescenti il desiderio non è tanto quello di essere di un altro sesso, piuttosto si manifesta come desiderio di rifiutare il proprio sesso. Indirizzare verso la transizione adolescenti che vivono questo malessere può non essere la soluzione, piuttosto un tragico errore. Quello che si rifiuta del femminile sono spesso gli stereotipi della femminilità, non l’essenza.

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La prima percezione di sé del maschile e del femminile è diversa, il maschio è contento, la femmina si identifica nella mancanza. Per il bambino c’è la fierezza. La femmina si vive come mancante di qualcosa.

Questa iniziale percezione di mancanza segna la femmina e il negarla impedisce di superarla, lascia la ferita senza darle un nome.

Al menarca non viene più dato il significato simbolico in cui si educa la ragazza a riconoscersi portatrice di un grande potere, quello di generare; l’approccio corrente a questo “evento” è invece quello di medicalizzarlo.

Questo tema è un tema culturale ampio. È un’espressione del disagio del corpo e del disagio della sessualità.

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“Approccio pedagogico all’identità di genere: sfide e strategie” è il tema del secondo intervento della sessione, quello di Emanuele Fusi, consulente pedagogico e formatore dell’Università Milano Bicocca e dell’Università cattolica di Milano, insegnante in un liceo di Monza.

Tutta questa questione raccontata come emergenziale che cos’è, come viene vissuta dai giovani che sono da noi narrati? È stata svolta una ricerca tra gli adolescenti i cui dati sono in fase di pubblicazione.

Cosa abbiamo capito?

Prima cosa: di questi ragazzi, circa 500 intervistati, la percentuale del 7% non si riconosce pienamente nel proprio sesso biologico e si descrive come non allineata; il 21% dice che è confuso sulla propria identità di genere.

C’è un disagio generalizzato dei giovani verso il mondo adulto. Non dobbiamo etichettare e patologizzare quella che è una parte decisiva dell’attraversamento dell’adolescenza. Questi ragazzi e ragazze vivono il cambiamento continuo, come in divenire; il che vuol dire che non sono tutti fluidi; in questa fase metamorfica noi dobbiamo pensare il cambiamento.

Il tema in cui ci stiamo approcciando: da un lato posizioni essenzialiste su un modo monolitico; dall’altro posizioni estreme che dicono che io mi produco come mi piace essere.

8 adolescenti su 10 ci dicono che vivere liberamente la propria identità di genere è importante.

Cosa significa: “liberamente”? Significa che non vogliono essere giudicati. Questa preoccupazione configura dunque in termini relazionali il loro porsi. Secondo significato: sono libero “quando posso esplorare”. Terzo: sono libero quando “posso fare ciò che voglio”. Dimensione relazionale, dimensione del movimento esplorativo, dimensione individualistica.

In questo senso gli adolescenti sono lo specchio di come la società degli adulti ha proposto loro un concetto di libertà. Ma gli adolescenti indicano il superamento del modello culturale chiedendo una libertà relazionale.

Dove trovano gli adolescenti le parole per parlare della propria sessualità? Molti di loro ci dicono che non le hanno mai tematizzate. Per parola intendiamo significati, immagini, immaginario.

Il 55% dichiara che ha tratto le informazioni di base dagli influencer. Questo ci dice dove stiano loro, ci dice dove gli abbiamo messi.

Indicatori: primo: la realtà virtuale; un quinto degli adolescenti giudica eccessivo il proprio uso dei social; questo determina in maniera non meccanica, in maniera deterministica, probabilistica: se abito troppo il virtuale è probabile che io stia meno bene. Questi ragazzi ci dicono che il loro modo di stare nei social è un modo passivo, nonostante tutta una letteratura che affermava che essi sostituiscono il mondo virtuale con quello reale. Per loro quello è un luogo di osservazione.

Loro ci dicono che la scuola è il luogo dove trovano informazione (40%) ma dove sperimentano mancanza di fiducia (70%). Altro dato più rilassato: 8 su 10 dicono che si fidano dei genitori.

Domande: qual è il contesto educativo nel quale ci troviamo? Da dove partire per un’azione educativa?

Questo è il punto. È evidente che siamo dentro un attraversamento storico, sociale, culturale, in cui abbiamo accelerato la messa in discussione sul nostro vivere, innanzitutto la questione se il vivere abbia un senso.

Certamente noi adulti, per primi, siamo disorientati. Questa è la realtà. Come la percepiamo? La percepiamo come pericolosa; abbiamo l’idea che la realtà sia così complessa e questo corrisponda ad un rischio. I dati dicono altro. Noi viviamo più a lungo e in migliori condizioni di come si viveva decenni fa.

Qual è la conseguenza di questo nostro “sentire” come adulti? È quella che ci conduce ad un controllo ossessivo dei figli con una iper protezione degli stessi. L’adulto per eccesso di  premura con la sua protezione porta ad un isolamento dei figli, una sorta di “detenzione”.

Secondo: l’adulto si identifica con il figlio: non “sentiamo” i figli ma “ci sentiamo in essi” in maniera non generativa, non siamo più pedagoghi ma scivoliamo verso una direzione opposta, con uno schiacciamento della relazione che si fa congiunzione; va tutto bene quando l’adulto si sente in comfort; l’adulto entra in crisi quando i figli vogliono uscire dal cono di protezione; gli epiloghi delle dinamiche relazionali che sfociano in veri e propri conflitti genitori-figli è quella che conduce i primi a tentare di risolvere le sofferenze dei minori attraverso la sanitizzazione e farmacologizzazione su di loro.

Queste tre mosse insieme: iperprotezione che tende a negare i traumi dei conflitti naturali legati alla crescita (detraumatizzazione della vita), indifferenziazione nel rapporto genitori/figli vissuto in maniera “orizzontale” quasi come un “rapporto tra pari” e patologizzazione che porta alla sanitizzazione e alla farmacologia possono destrutturare i percorsi di crescita degli adolescenti.

È necessario precisare tre elementi: l’educazione non è un meccanismo. Io insegnante come posso nella mia lezione generare più vita, quella degli studenti ma anche la mia mettendo in gioco me stesso? Nell’incontro con l’altro io accolgo la sua domanda e sosto con la sua domanda. Difronte ai percorsi individuativi non ci sono norme ma io devo stare con l’altro. Se sono un buon educatore e un buon genitore avrò fatto mie delle strategie per gestire delle emozioni per gestire l’altro. È importante l’atteggiamento di curiosità. Noi dobbiamo essere interessati all’altro. Se l’altro è quello che vive il disagio non dovrò metterlo in una categoria ma accoglierlo.

Secondo: è importante l’atteggiamento di rispetto che non si limita al primo sguardo ma va in profondità. Terzo: la comprensione porta alla sintonizzazione. Questo fa l’adulto.

L’esperienza è un luogo di comprensione. Tutte le pratiche espressive e comprensive hanno un enorme valore. Dobbiamo ritornare su quello che accade, riflettere, questo chiedono le pratiche. È importante l’accoglimento dell’errore e non il suo rifiuto.

Nella nostra società del tutto e subito dobbiamo capire che, invece, l’educazione richiede tempo.

Il conflitto è un luogo educativo per eccellenza. I giovani oggi sono portati alla guerra e allo scontro non al conflitto. Il meccanismo riproduttivo dei modelli è molto forte e porta alla duplicazione violenta e ad atti brutali. Il caso di Giulia Cecchetin ha sconvolto anche i ragazzi

Ultima cosa: è importante offrire l’incontro con il sacro, degli orientamenti di senso che l’umano ha messo in campo nella sua storia.

Ecco alcuni passaggi del dibattito con i relatori.

La differenza sessuale rappresenta un valore oppure no? Va presa una posizione che non è ideologica ma rappresenta una esperienza ed un pensiero. Le coppie omogenitoriali possono dare cura e affetto ma non rappresentano la diversità e i rispecchiamenti sulla diversità perché testimoniano una non necessità della differenza.

C’è una mancata simbolizzazione di quella che è la aggressività, una grande fatica di esprimere in forma non violenta questa dimensione che appartiene all’umano.

Nella scuola primaria dovrebbe essere un obiettivo educativo aiutare ed educare bambini e bambine alla capacità di autocontrollo, a comprendere gli atti e le loro conseguenze; bisogna riflettere su cosa è la competenza all’autoregolazione; oggi ci sono bambini molto non autoregolati con un alto livello di capricciosità; l’adulto deve facilitare nel bambino la capacità di calmarsi; oggi questa competenza è molto in ribasso; la prima regolazione emozionale nasce dallo sguardo delle mamme mentre allattano e non devono guardare il cellulare; allatto, devo guardare mio figlio, devo parlargli, tenerlo in braccio. Se guardo il cellulare gli sto trasmettendo che sono lontana e non connessa con lui.

Clamorosa la incapacità di stare alla presenza dell’altro non solo in modo non violento ma anche in modo affettivo; questo porta ad un ritiro dei giovani da una riflessione che mi mette in contatto con il mio io, con la mia fragilità, con le mie attese.

Come far diventare la scuola un luogo dove ci si fida? La scuola così com’è dovrebbe essere chiusa? Noi siamo nel tempo in cui abbiamo un bisogno di scuola come mai forse in tempi recenti, quant’è vero che son diminuiti altri luoghi tradizionalmente deputati all’educazione e alla socializzazione, gli oratorii, lo sport. È uno dei pochi luoghi all’aperto dove possano fare esperienza.

È chiaro che ho bisogno di un ‘esperienza di feedback, devo dare allo studente un riscontro. È essenziale non semplificare queste realtà mentre spesso a livello di riforme istituzionali non è rara questa tendenza a semplificare. Bisogna ripensare la scuola come un luogo di esperienza, come una scuola di pensiero.

Se noi pensiamo che la scuola sia in competizione con le macchine, portiamo la scuola al fallimento! La macchina elabora, non pensa; se ripensiamo alla scuola come un luogo di pensiero, che è multiplo, è creativo, questo è vincente. Qui nasce il nuovo, l’umano che ancora non c’è.

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Identità di genere: coordinate e prospettive antropologiche e giuridiche

Questioni di genere

 di Alessandro Manfridi

Zanardo, Cicatelli e Morresi aprono la riflessione sull’Identità di genere al Corso Interdisciplinare offerto dalla Pontificia Facoltà Auxilium per l’a.a. 2024/25

13 Dicembre 2024

“Identità di genere. Sfide e prospettive per educatori”: è il tema del corso interdisciplinare con il quale la Pontificia Facoltà “Auxilium” ha inaugurato l’anno accademico 2024-2025. https://www.pfse-auxilium.org/it/notizie/08-10-2024/corso-interdisciplinare-24-25-identita-di-genere/roma

La prima giornata si è svolta sul tema “Identità di genere: coordinate e prospettive antropologiche e giuridiche”. https://www.youtube.com/live/2H3iZbCPQq4?si=lxCj3f1x_L9I7FOG

Ha aperto il convegno la professoressa Susy Zanardo, docente di Filosofia morale Università Europea di Roma con una relazione sul tema: “Antropologia dell’identità di genere: concetti e contesti”.

Bisogna considerare che esiste un variegato spettro di interpretazioni sull’identità di genere, da quello delle femministe gender-critical a quello delle femministe gender-queer.

Un testo di cui si consiglia la lettura è “Chi ha paura del gender” di Judith Butler. Per Butler “genere” non sta per donne, per omosessualità, non è sinonimo di sesso, non è una ideologia, non è né un indottrinamento né una colonizzazione dei ricchi centri del Nord verso le economie del Sud.

Un primo utilizzo del termine “genere” concerne il suo uso come forma abbreviata dell’identità di genere.

In secondo uso di “genere” si riferisce alle espressioni di genere. l’OMS definisce “genere” come l’insieme delle rappresentazioni di fantasie, e le norme in dati specifici e analizza i contesti culturali che sfumano nel tempo e nella socializzazione.

Terzo: “genere” è qualcosa di più complesso, è una lente attraverso la quale guardiamo il mondo, costruiamo il mondo, è una categoria euristica per analizzare le mediazioni culturali, i rapporti di potere tra i sessi, per capire come noi procediamo. Quindi è uno schema di potere che, ad esempio, regola e prescrive la divisione di lavoro tra i sessi. Miliare nel 1986 l’articolo della storica statunitense Joan Scott: “Il genere è un utile categoria di analisi storica” con la sua analisi critica.

Qual è il legame tra il corpo e le mediazioni culturali, le costruzioni sociali sulla sessualità?

Cosa vuol dire per noi “essere un corpo sessuato” e quale influenza hanno su di noi queste visioni?

Il concetto di “genere” nasce in questo contesto, come una forma di critica molto forte che si oppone e intende rovesciare i rapporti di potere e le norme di genere patriarcali, statali e religiose, quelle che Butler ancora oggi rileva come imposte dal Vaticano e dai governi autoritari.

Nasce come critica nei confronti del patriarcato. Quali sono le norme criticate? La prima è quella del binarismo sessuale. La seconda quella dell’etero normatività.

Differenza sessuale e complementarietà sono denunciati quali rapporti di potere che rendono invivibile la vita di chi non è rappresentato in essi.

Il tabù dell’uguaglianza tra l’uomo e la donna porta dunque nell’ideologia “patriarcale binarista, etero-normativa” l’eliminazione di altre identità di genere, da una parte quella dell’identità di trans-uomini e trans-donne (che ratificano il binarismo sessuale), dall’altra l’identità di transgender, poligender, denny boy, genderfluid, categorie costantemente rivisitate.

L’obiettivo condivisibile: un mondo più vasto e meno violento, dove chiunque possa muoversi e amare senza essere sottoposti a violenza.

Gli sviluppi di questo movimento portano alla libertà di circolazione dei libri gender anche per l’infanzia, alle battaglie per il diritto all’aborto e alla possibilità di autodefinire il sesso all’anagrafe senza passare per i protocolli, alla costituzione di famiglie poligender, all’accesso alle forme della maternità surrogata, “papà cavallucci marini” (seahorse).

Bisogna domandarsi: siamo sicuri che tutti questo porterà a un mondo meno violento?

La Zanardo ritiene che non abbia senso schierarsi pro o contro il genere ma che sia necessario chiedersi cosa si intende quando si parla di genere; ci sono cose interessanti, altre non condivisibili.

L’identità di genere non può fare a meno del corpo ma il rapporto che ciascuno di noi ha con il proprio corpo dipende dall’immaginario culturale, dalla vista degli altri su di me, dalla personale psicostoria e psicobiografia, dipende da chi si prende cura di me.

Domande: che rapporto c’è tra il genere e il corpo? Il genere nega la materialità del sesso?

La storia su questo tema ci dice come il corpo sia da sempre stato interpretato attraverso i rapporti di potere.

Esempio: quando nasce un bambino non chiediamo di che genere è ma se è un maschio o una femmina.

Chi ha più potere decide come sono i corpi: il sesso è una costruzione.

La Zanardo afferma: questo movimento intende rovesciare i rapporti di potere binari ma questo introduce non una libertà diffusa, piuttosto nuovi rapporti di potere.

Se non esiste un’antropologia e un’idea sulla natura umana è chiaro che prevarranno i rapporti di potere.

Se il corpo è svuotato di senso diventa il ricettacolo di un diffuso orientamento. Il 16% degli adolescenti non si riconosce nel rapporto binary. C’è una grande fatica. Il corpo è oggettivato, fatto a pezzi. Siamo difronte a molta sofferenza. Se si svuota il corpo di senso si sfocia nelle paure e negli atti di autolesionismo sul corpo.

Quale deve essere la proposta culturale ed educativa?

Gli studi di genere non sono tout court da eliminare, due cose sono interessanti: qual è il ruolo che l’immaginario collettivo ha sul mio aspetto, sul mio ruolo, sulla mia identità? Secondo: giustamente Butler dice: sebbene tutti i corpi sono vulnerabili, alcuni sono più attaccabili. In Uganda nel 2023 è stata promulgata la pena di morte e la detenzione fino a 10 anni a seconda dei “delitti contro il binarismo”; in carcere i trans sono aggrediti il 13% in più degli etero. Sicuramente bisogna condannare tutte le violenze.

Sarebbe importante però approfondire il pensiero sulla differenza sessuale che è il pensiero su una differenza di senso. Abbiamo l’antropologia biblica che ci dice che la differenza sessuale è costitutiva, è relazionale, è generativa.

Chi vuole diventare non binary, né maschile né femminile, non può cancellare la differenza sessuale in quanto relazione, che chiama a una domanda sul senso della propria identità, della differenza sessuale come generativa. Pierangelo Sequeri sostiene: quella tra l’uomo e la donna è la differenza più abissale.

C’è da fare un lavoro educativo su di sé e su degli altri. Quanta differenza sono disponibile ad accogliere?

Bisogna entrare in punta di piedi rispetto al mistero che l’altro è e promuovere le “relazioni di cura” il “prendersi cura” dell’altro.

Sergio Cicatelli, docente di discipline pedagogiche e giuridiche, presenta un secondo intervento sul tema: “Approccio giuridico all’identità di genere: cosa devono sapere gli insegnanti”.

Esistono una quarantina di leggi sul tema, a livello internazionale, europeo, nazionale. La relazione si sofferma sugli aspetti generali.

I principi che governano il settore: i tre principi-cardine di libertà, uguaglianza e fraternità, quest’ultima declinata come solidarietà nella nostra Costituzione.

È fondamentale evitare le interpretazioni ideologiche o massimaliste.

Il primo principio è inteso come libertà di scegliere la propria identità senza alcun vincolo culturale ed ideologico.

Il secondo presenta l’uguaglianza come il diritto di essere trattati in maniera totalmente uguale contro ogni discriminazione.

Rileggiamo alcuni passaggi dell’articolo 3 della Costituzione Italiana https://www.senato.it/istituzione/la-costituzione/principi-fondamentali/articolo-3

Che tipo di uguaglianza ci propone? Non un impossibile annullamento delle differenze. Siamo tutti uguali dal punto di vista giuridico. Importante notare che l’articolo parla di “identità sociale”.

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La Costituzione è particolarmente attenta all’uguaglianza nel trattamento uomo/donna. Articolo 37: diritti sul lavoro. Articolo 48: elezione per uomini e donne, fino al 1946 non era così. Articolo 51: accesso uffici pubblici.

Nel 2003 la legge sulle pari opportunità, cd. “quote rosa”. Art. 117 anche le leggi regionali titolo V. Dall’uguaglianza deriva una parità di trattamento non una eliminazione delle differenze. Legge 903 del 1977: parità uomo/donna sul lavoro, abolisce la riserva di alcuni lavori ai soli uomini.

La normativa prevede un sistema di certificazione di non discriminazione tra uomini e donne per le aziende.

Altre norme fondamentali: Art. 7 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948; la Conferenza Generale 1958 sul Lavoro ONU. Il Codice delle Pari Opportunità, Direttiva europea 2004.

Con il Ministro dell’Istruzione Fedeli abbiamo avuto le linee guida basate su una antropologia relazionale contro il cyber bullismo e le discriminazioni contro l’individualismo. Il PTOF promuove l’educazione alla parità tra i sessi e alla prevenzione di ogni discriminazione.

È importante: evitare di alimentare i conflitti con risposte ideologiche per rispetto ad ogni persona; ricordare sempre la responsabilità educativa che ha ogni insegnante; ricondurre ogni rivendicazione all’orientamento giuridico vigente.

I concetti devono essere interpretatati distinguendo i diritti umani e diritti civili dalle aspettative dei singoli.

Il terzo contributo è stato presentato da Assunta Morresi, Professoressa associata di Chimica e Fisica nel Dipartimento dell’Università degli Studi di Perugia e dal 2006 componente del Comitato Istituzionale di Bioetica e nel Gabinetto per le Pari Opportunità del Ministro Eugenia Roccella. Il tema è: “Identità sessuale e identità di genere: di cosa stiamo parlando”.

Come avviene il processo di transizione di genere?

Qui si parla di corpi sessuati. L’orientamento sessuale è relativo al comportamento. Un obiettivo è smontare il binarismo sessuale. Non è un complotto, è un orientamento. Per dire che il sesso non è costitutivo degli esseri umani e smontare questo binarismo si introduce l’idea della transizione di genere in uno spettro con tante possibilità non identificabili col maschio e la femmina e dagli anni 90 si è introdotto il protocollo olandese che permette di anticipare la transizione di genere fin dalla minore età, presentandolo come occasione per i minori che hanno una disforia, uno stress e non si sentono allineati al sesso biologico; quando sta per arrivare la pubertà è possibile bloccarla con delle sostanze farmaceutiche; di solito questi farmaci (come la triptorelina che in Italia blocca la pubertà quando è patologica, ad es. a 6 anni per le bambine); per il protocollo olandese intorno all’età di 12 anni, stadio di Tanner 2, viene bloccata la pubertà in maniera fisiologica per dare del tempo di riflessione in più ai ragazzi in disforia. L’errore di base nella ratio di questo metodo: come faccio a trovare la mia identità sessuale quando con questi bloccanti biologici (non neurologici) la pubertà viene bloccata e dunque non posso confrontarmi psicologicamente con uno sviluppo che viene arrestato? Questi bloccanti possono essere usati dai 12 ai 16 anni; poi dai 16 anni vengono somministrati degli ormoni; dai 18 anni si passa agli interventi chirurgici. Protocollo olandese si chiama 12-16-18.

Si è visto nella letteratura scientifica che il 95-98% dei ragazzi chi ha intrapreso questo protocollo con i bloccanti dai 12 anni e poi dai 16 ani con gli ormoni mascolinizzanti e femminilizzanti, hanno anticipato la propria transizione di genere.

Che cosa è successo ancora di più in questi anni?

È emerso che a supporto di questo trattamento non ci sono risposte scientifiche: questi ragazzini migliorano nella propria disforia dall’identità di genere? Sono enormi i dubbi sull’efficacia di questi protocolli. Non c’è un solo articolo scientifico che lo dimostri e in Italia non viene autorizzato l’uso del farmaco.

Cosa è successo in questo periodo? Tralasciamo le questioni mediche, lo sviluppo ormonale, cognitivo, ecc.

Emblematico quello che è successo in Gran Bretagna con la chiusura della clinica Tavistock https://www.avvenire.it/vita/pagine/il-governo-inglese-chiude-la-clinica-tavistock-per-la-riattribuzione-di-genere-dei-minori

Abbiamo la denuncia del fenomeno di mala sanità che la Tv Pubblica Svedese ha svelato pubblicando un  documentario “The Trans Train” https://youtu.be/sJGAoNbHYzk?si=ZsJleAck4Rq0VpFL , dando voce al fenomeno dei de-transitioner, perché il processo in sé è irreversibile, come visto, dai bloccanti ai processi chirurgici, e non pochi di coloro che lo hanno percorso vorrebbero non aver mai percorso questa strada, di cui riconoscono i danni subiti.

https://96784e0b394eb176e5c3704972b8bba4.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-40/html/container.html

Se prestiamo attenzione, la scienza medica ci presenta la questione della comorbilità, in fase di una corretta diagnosi. Prima di passare a protocolli irreversibili e invasivi come quello olandese, si sarebbe dovuto analizzare le origini del malessere che portava questi adolescenti a non riconoscersi nel loro sesso biologico. La loro disforia poteva nascere da altri motivi: salute mentale, disturbi dell’alimentazione, malessere. Molti ragazzini che dicono di essere nati un corpo sbagliato hanno problemi di orientamento sessuale non di identità di genere! ArciLesbica è contrarissima alla transizione anticipate. Il 75% di coloro che non si sentono a proprio agio nel proprio corpo sono le femmine, la percentuale si capovolge nell’età adulta. Secondo la determina AIFA ci dovrebbe essere un’equipe interdisciplinare, ci dovrebbe essere un medico che autorizza all’uso dei farmaci bloccanti. La persona deve essere presa in carico globalmente, interamente, non solo dal punto di vista della disforia di genere.

Si passa al dibattito, ecco alcuni passaggi.

In tutte queste persone c’è una profonda domanda di riconoscimento sociale: per potermi sentire riconosciuto ho bisogno di istituzioni e normative che mi facciano stare dentro categorie che mi rappresentano.

Bisogna riscoprire la relazione con un corpo spirituale e un’identità spirituale

In queste pensatrici della letteratura gender non c’è spazio per la trascendenza, tuttavia c’è un’aspirazione che diventa politica, il tema dell’utopia, il sogno dall’autoritarismo regressivo, di un futuro più prospero per l’umanità; siamo disposti senza avere un’idea di umano a distruggere il mondo come lo conosciamo per aprirci ad uno spazio in cui ci auguriamo un mondo più ampio e senza violenza? (Zanardo)

Tante cose sono possibili, non tutte devono essere diritti. Quando noi trasformiamo un diritto civile in diritto umano, inseriamo un abuso. Pensiamo all’inserimento nella Costituzione francese del diritto all’aborto. Il diritto umano è universale, il diritto civile è contestualizzato in un ambiente sociale particolare (Cicatelli).

La difficoltà per noi adulti è vivere la cura per tutti coloro che ci sono affidati. È necessario guardare alle ferite più profonde. Non di rado queste sofferenze sfociano in casi di suicidio.

Quel che possiamo fare: parlare del corpo perché il corpo e l’interiorità sono annodati, sono un tutt’uno.

Un non binary che si fa chiamare ALE/SANDRA dice: il mio corpo si muove come una macchina ma non sono io, è un guscio che contiene un fantasma!

Noi abbiamo una Teologia dirompente nell’annuncio del Corpo/Parola, il Logos che si fa carne, corpo portatore di grande simbologia.

La Morresi e la Zanardo condividono l’opinione che queste dinamiche stanno portando a quello che definiscono un “Attacco al materno”.

Nel corpo materno gestante c’è la triangolazione di tre desideri: quello della creatura che vuole vedere la luce, quello della madre che conduce la gestazione, quello del padre che affida la parola della vita alla madre.

La maternità è la creazione di legami relazionali e fisici.

Negarla, rifiutarla, combatterla significa attentare a questi legami, che appartengono a ciascuno di noi.

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Quale futuro per l’Europa dopo le elezioni americane?

di Alessandro Manfridi

Un dialogo tra mons. Crociata, Massimo Franco ed Enrico Giovannini con domande, suggestioni e prospettive

11 Novembre 2024

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Cultura

Le Diocesi di Porto-Santa Rufina e Civitavecchia-Tarquinia hanno aperto il secondo anno accademico della Scuola di Formazione all’impegno Sociale e Politico “Custodi del futuro”, presso l’auditorium della Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium”, con un incontro dal titolo “L’UE che prende forma. Le partite da giocare a Bruxelles e nel territorio”. Relatori Mariano Crociata, vescovo di Latina, presidente della Commissione Conferenze Episcopali in Europa (COMECE) ed Erico Giovannini, già Ministro nei governi Letta e Draghi, Direttore scientifico dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS); moderatore Massimo Franco, giornalista del Corriere della Sera e saggista (nel pomeriggio la riflessione è proseguita con un laboratorio intitolato “L’UE vista dal nostro territorio: limite od opportunità?”, condotto da Domenico Barbera e Vincenzo Mannino, direttori dei due uffici diocesani di pastorale sociale e del lavoro, mentre Francesco Monaco – Capo Dipartimento Supporto ai Comuni e Politiche Europee – IFEL, fondazione Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI) – ha presentato una relazione su “L’Europa e le strategie territoriali. PNRR e risorse del nuovo settennato di programmazione europea”).

Dopo l’introduzione del dott. Alberto Colaiacomo (direttore della Scuola) e i saluti di suor Piera Ruffinato (direttrice della Facoltà) e del vescovo Ruzza, Massimo Franco ha affermato che la UE pare la vittima designata di Trump e di Putin, in quanto ha vinto un Occidente che pensa di destrutturare la UE e dialogare con i singoli Stati colloquiando con i cosiddetti “Patrioti Europei”: Trump non riconosce l’UE ma vuole il “dividi et impera”. Mentre Papa Francesco definiva l’UE una “nonna sterile”, si verificava uno spostamento del baricentro europeo dall’asse renano-italiano verso l’Europa del Nord, più luterano e più attaccato al concetto di “shut” (= debito/peccato). Ciò ha portato ad una spaccatura con i paesi indebitati come quelli cattolici del Mediterraneo: non è un caso che Trump ha avuto il voto maggioritario dei cattolici. Infine gli USA hanno criticato e attaccato come traditore del Cattolicesimo il dialogo del Papa con la Cina. In questo contesto, qual è il ruolo della Chiesa in Europa? Certamente non si può tornare ad una Chiesa Eurocentrica, ma almeno ad una Chiesa che dialoga con l’Europa.

Mons. Crociata ha aperto il suo intervento partendo dal significato da attribuire al termine “forma”. Ci sono due suggestioni che il vescovo propone. La prima è inerente alla forma “istituzionale”. La UE per tutta la sua storia (CECA 1951-1957, Unione doganale, Schengen, Maastricht, Mercato Unico, BCE, Euro, Trattato di Lisbona, Corte di Giustizia) non è mai stata una Confederazione né uno Stato, ma una condivisione della sovranità su alcuni ambiti da governare in comune, attraverso il Consiglio Europeo, la Commissione Europea e il Parlamento Europeo.

In tal senso, diversi sono i profili di incompiutezza e di problematicità. C’è stato un ingigantimento della burocratizzazione e di tutte le strutture comunitarie che ora appaiono un centro istituzionale complesso e lontano dall’opinione pubblica europea ed autoreferenziale rispetto ai parlamenti nazionali: da un lato, quindi, necessario, provvidenziale, insostituibile, ma, dall’altro lato fragile perché senza la UE i singoli stati europei non avrebbero alcuna forza per resistere difronte alle economie delle superpotenze degli altri Continenti.

Con la guerra in Ucraina, poi, il progetto di pace e di riconciliazione previsto sin dalla fondazione della UE corre il rischio di cambiare. L’ingigantimento dell’unione in ambito economico non ha avuto corrispondenza in un progetto politico costruito insieme e progressivamente attuato. In questa fase di difficile transizione ci vorrebbe uno scatto ideale e politico che tenti di ricomporre le élites europee con i popoli europei e di coprire la distanza tra paesi occidentali e paesi dell’Europa orientale.

La seconda suggestione, offerta dal vescovo Crociata, riguarda il fatto che prima della forma istituzionale c’è una forma culturale, spirituale ed etica a fondare una comunità di persone e di popoli. In essa la Chiesa dovrebbe realizzare la sua vocazione educativa, formando comunità coese, farsi promotrice di dialogo tra le culture e le religioni, crescere nel suo ruolo istituzionale, sociale, politico atipico, mediante la comunità degli episcopati dell’UE.

Il Professor Giovannini chiede a ciascuno dei presenti di porsi la domanda: “Tu ami il tuo paese? Tu ami l’Europa?”, perché se la risposta è no, allora sarà difficile lavorare per questo, mentre invece l’UE è un esperimento unico nella storia, prefiggendosi di diffondere pace, giustizia e promozione sociale, ed in essa il ruolo della Chiesa è assolutamente fondamentale. Franco ritiene che oggi ci sarebbe bisogno di sentire una voce della Chiesa univoca e si domanda se la Chiesa sia parte della crisi europea o può essere occasione per la sua salvezza. Ad ogni modo vede molto indebolita la voce della Chiesa rispetto al ruolo originario che gli stessi valori del Cristianesimo hanno avuto sulla costituzione dell’Unione Europea.

Crociata risponde che la Chiesa non è un soggetto terzo, ma è parte della realtà e del processo sociale e culturale occidentale di cui qui si parla. Il tema dell’unità non può più essere posto come si presentava in passato: l’unità ha una articolazione più varia, più elastica e si sono scoperti mondi segnati culturalmente che nel passato una certa visione ecclesiale cercava di omologare. L’unità deve quindi partire dalle questioni di fondo che ci uniscono: fino a che punto la cultura di una determinata realtà sociale nazionale o la cultura corrente intacca il messaggio cristiano? Abbiamo bisogno di recuperare l’autenticità del messaggio stesso.

Di conseguenza, una scuola di formazione sociopolitica promossa dalla Chiesa non può essere una scuola di partito, perché il discernimento, la scelta, il metodo di lavoro va ricercato nella Dottrina sociale della Chiesa. Il problema non è essere solo di destra o solo di sinistra, ma esercitare un attento spirito critico per andare avanti nei processi, anche da parte dei credenti, all’interno di comunità concrete e secondo il principio profetico della Parola.

Giovannini ha poi focalizzato alcune piste di riflessione: 1) l’Europa è un cantiere continuo con una sua storia che ha vissuto anche momenti di crisi, come ad esempio quello della Brexit che ha finito per danneggiare chi è uscito dalla UE; 2) fuori dell’Europa, allora, non c’è un futuro per le nazioni europee, anche se in esse potrebbero prevalere i nazionalismi, in una regressione favorita da Trump e Putin; 3) i temi sul futuro dell’economia globale sono legati a quel che avviene in Cina e in Africa e a processi non lineari riguardo i quali è molto stimata la capacità profetica di papa Francesco con la Laudato si’ (seguita dalla CEI che punta alle comunità energetiche, mentre l’Agenda 2030 è ormai un miracolo).

Al margine di questo incontro due mie considerazioni personali. Innanzitutto, la necessità ricordata da mons. Crociata di recuperare “la base” – le popolazioni europee – da parte delle Istituzioni della UE credo sia fondamentale. Cosa pensa, cosa vuole, di cosa ha necessità un cittadino della UE? Non solo la sempre più diffusa astensione dal voto deve parlarci, ma il fatto che la UE nei suoi vertici può davvero apparire, come ricordato, autoreferenziale. Se parliamo di Greta Thumberg e di “Fridays for Future”, cosa dire di una totale mancanza di risposta da parte delle istituzioni interessate? Come meravigliarci se in Europa le risorse per i vigili del fuoco e per la protezione civile sono state tagliate, per cui incendi e alluvioni (come quella di Valencia) diventano il frutto della mancanza di prevenzione prima che dei cambiamenti climatici? Come meravigliarci se le risorse per politiche sociali, sanità, istruzione sono drammaticamente tagliate, quando le sirene di Bruxelles spingono unanimemente a miliardi di spese militari (nel pomeriggio si è ricordato come le risorse del PNRR per le scuole sono destinate alla digitalizzazione, mentre per l’edilizia sono negate, così da essere sommersi di digital boards mentre le aule che cadono a pezzi!)? Come non lamentare la cecità della gestione del conflitto in Ucraina dove, dopo tre anni, è assurdo proporre alle popolazioni europee la necessità di continuare ad armare l’Ucraina in vista della sconfitta della Russia? Centinaia di migliaia di cittadini europei scesi in piazza in questi anni sono stati totalmente inascoltati. Ritengo che la gestione di questo conflitto da parte di Bruxelles sia stato un vero e proprio “suicidio”. Pare che la Germania stia implodendo (a causa anche del “capitolo” Nord-stream), ed essendo stata fino ad oggi la locomotiva del treno UE, è difficile pensare che questo non abbia ripercussioni sull’Unione.

In secondo luogo, verso chi deve guardare l’Europa per “prendere forma”? A livello della comunità ecclesiale, oltre alla Dottrina Sociale della Chiesa che risulta preziosa e attuale (cito come urgenti lo studio di Pacem in terris e Populorum progressio, oltre a Laudato si’ e Fratelli tutti), possiamo raccogliere i continui richiami “sociali” del magistero di Papa Francesco. Il suo invito a mettere al centro i poveri, ad esempio, dovrebbe spingere la UE a dare loro voce: i primi poveri europei sono proprio le vittime del conflitto ucraino e le persone che sono entrate in povertà per la congiuntura economica continentale susseguente alle spese del conflitto, pagate in termine di costi energetici e non solo).

Come ricorda papa Francesco parlando alla Chiesa, lui sogna delle comunità che “escano dai recinti” per dirigersi nel mondo. Se la UE volesse seguire questa suggestione, magari potrebbe guardare oltre i suoi confini non alzando muri, fili spinati e centri di accoglienza/detenzione (questione drammatica riguardante i migranti, anche questi al centro dell’attenzione del Vescovo di Roma). Potrebbe guardare oltre i suoi confini considerando le altre economie continentali, e fra queste il fenomeno emergente dei BRICS, non come a dei competitor da avversare, ma come a dei mondi con cui entrare in relazione.

Ultima considerazione: perché citare Putin e ora Trump come soggetti invisi le cui politiche sono una minaccia per Bruxelles? È indubbio che Putin e Trump facciano i loro interessi (come li faceva anche Biden e come li avrebbe fatti Harris). Ma come poter essere credibili agli occhi dei cittadini di questa libera e democratica Europa quando Bruxelles non ha usato lo stesso metro e la stessa misura per condannare e allontanare Netanyahu per la conduzione del conflitto a Gaza e in Medio Oriente?

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Porta San Paolo-Colosseo: dai martiri per la fede a quelli per l’ingiustizia

di Alessandro Manfridi

Considerazioni al margine della terza manifestazione nazionale per la pace, guardandola dal punto di vista dei martiri di sempre…

29 Ottobre 2024

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Attualità

armiGazaguerraingiustiziamartiriopace

Sabato 26 ottobre si è svolta la terza manifestazione per la pace con una copertura nazionale dopo quelle del 5 novembre 2022 e quella del 7 ottobre 2023. Il titolo era “Fermiamo le guerre. Il tempo della pace è ORA”. L’idea è stata quella di coinvolgere un arcobaleno di città: Bari, Cagliari, Firenze, Milano, Palermo, Roma, Torino, tutte unite, come lo spettro di colori dell’arcobaleno dall’unico tema. Cinque le Reti promotrici della Giornata (Europe for Peace, Rete italiana Pace e Disarmo, Fondazione PerugiAssisi per la cultura della pace, AssisiPaceGiusta, Sbilanciamoci.

A Roma hanno partecipato oltre ventimila persone, un numero lontano dalle centomila di due anni fa, quando però tutta l’Italia era convenuta in piazza San Giovanni. Il corteo, insieme con gli striscioni di varie realtà associative, tra le quali in testa spiccava lo striscione di Emergency, e con un numero elevato di manifesti che hanno dato voce alle vittime palestinesi a Gaza, era spiccatamente colorato di rosso, oltre alle bandiere arcobaleno della pace.

Indubbiamente la CGIL è stata ancora una volta capofila nell’organizzazione e il suo segretario Maurizio Landini, che ha chiuso gli interventi della manifestazione sul palco allestito di fronte al Colosseo, è stato l’unico leader che ha parlato qui a Roma per tre anni consecutivi, dopo aver condiviso il palco due anni fa con don Luigi Ciotti e con Andrea Riccardi. Nel corteo erano presenti vari rappresentanti dei partiti del centro-sinistra e della sinistra italiana.

Questo potrebbe prestarsi, a mio parere, ad una lettura sin troppo semplificata dei contenuti, quasi a tracciare un’equazione secondo la quale chi chiede, ormai da anni, la pace, si identifichi semplicemente con questa corrente politica; o, peggio, che chi chiede insistentemente la pace, sia, di fatto, “filo-putiniano”. Mi sembra invece interessante sottolineare le caratteristiche non “di parte” di chi si sforza di costruirla e promuoverla.

Propongo perciò un accostamento suggestivo tra i luoghi che hanno visto il nostro corteo snodarsi per le vie di Roma, da Porta San Paolo a quel Colosseo che ormai per tradizione consolidata vede svolgersi l’esercizio della Via Crucis ogni Venerdì Santo: luoghi deputati a richiamare la testimonianza dei martiri della fede, a tutti quelli che oggi, e negli ultimi tre anni in particolare, possiamo definire come martiri delle ingiustizie.

Chi sono queste vittime?

Partiamo dall’analisi dei conflitti. Al momento sono registrati conflitti armati in 240 nazioni e territori. Nel 2023 si sono aumentati del 12% rispetto al 2022. Una persona su sei al mondo vive in un’area in cui è in corso un conflitto. Nel 2023 si sono registrati 147.000 eventi e 167.800 vittime. Secondo l’Indice dei Conflitti 2024, stilato da ACLED (Armed Conflict Location & Event Data) in base a quattro indicatori chiave (mortalità, pericolo per i civili, diffusione geografica del conflitto e frammentazione dei gruppi armati), nei 234 paesi rilevati i primi 50 sono classificati come “estremi”, “alti” e “turbolenti”.

Tra i primi 10 paesi, quelli in cui il livello della violenza è estremo, abbiamo al primo posto il Myanmar, seguito da Siria e Palestina. Lo Yemen è al nono posto. I paesi africani sono la Nigeria e il Sudan. Il continente americano registra la presenza di Messico, Brasile, Colombia ed Haiti. Si tratta per queste ultime tre nazioni su quattro di democrazie parlamentari, ma afflitte da conflitti di bande armate presenti in maniera diffusa e violenta sul loro territorio.

Analizziamo il business della vendita delle armi. Secondo il rapporto del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), l’esportazione di armi degli Stati Uniti, il più grande fornitore di armi al mondo, sono aumentate del 17% nel 2019-2023 rispetto al quinquennio 2014-2018, mentre quelle della Russia sono diminuite di oltre la metà (-53 percento). Le esportazioni di armi della Francia sono cresciute del 47% e hanno superato di poco la Russia, diventando il secondo fornitore di armi al mondo. Tra le prime dieci, l’incremento maggiore a livello mondiale è dell’Italia, che ha avuto un’impennata dell’86 per cento. USA ed Europa da sole esportano il 72% delle armi a livello mondiale. I maggiori importatori sono India, Arabia Saudita, Qatar e Ucraina.

Passiamo infine ai tagli. Se i soldi vanno alle armi, bisogna tagliare su istruzione, sanità, politiche sociali, programmi di alimentazione. Un’ora di volo di un F35 costa 40.650 euro. Un missile Meteor per F-35 1.200.000 euro. Un veicolo costa 80 milioni.

È chiaro che gli obiettivi dell’Agenda 2030 sono ben che negati; del resto, le continue risoluzioni prodotte dall’ONU non solo non sono ratificate da buona parte dei paesi interessati; l’ONU stessa è attaccata in maniera esplicita, da chi ritiene di giustificare la sua azione bellica e per portarla avanti non rispetta il diritto umanitario internazionale di protezione per le popolazioni civili. Se vogliamo parlare di ambiente e clima, non è un mistero che il carburante di aerei e altri mezzi militari, l’impatto di vari ordigni sul terreno, da quelli convenzionali a quelli all’uranio impoverito, portano a tutte le conseguenze e i risvolti che dureranno nei decenni a venire.

I dati ci aiutano a leggere ed interpretare la realtà, come negli anni ’50 apriva un mondo a chi si occupa dell’educazione e dei temi della società civile don Lorenzo Milani con quelli riportati nei suoi testi Esperienze pastorali e Lettera ad una professoressa. Se purtroppo queste considerazioni vengono ignorate da chi ha interesse a vendere armi e ad alimentare guerre, speriamo possano convincere qualche persona in più che le ragioni della pace sono più logiche di quelle di chi propaganda la guerra, venduta come garante dei diritti, dei beni e della prosperità delle nazioni interessate. Chi vive in Myanmar, in Siria e in Palestina ce lo può testimoniare.

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7 ottobre: un anno dopo.

C’è qualche alternativa al conflitto in corso in Medio Oriente?

Ottobre 2024

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Attualità

GazaguerraIsraeleLibanoPalestina

Gli eventi nella regione Medio Orientale sono in continuo susseguirsi e chi vi scrive spera di non dover registrare un bombardamento israeliano in territorio iraniano, per altro ormai annunciato e dunque certo nei prossimi giorni.

Se questo dovesse realizzarsi nella data del 7 ottobre, sarebbe senz’altro una risposta “significativa” da parte israeliana, per rispondere alla escalation cominciata esattamente un anno fa ad opera del raid coordinato da Hamas a danno dei coloni ebrei.

Il Viminale si è preoccupato di vietare manifestazioni pubbliche organizzate da associazioni islamiche e dalla società civile in vista del primo anniversario degli eventi e purtroppo il 5 c.m. abbiamo registrato un temuto rivolgersi violento di alcune frange dei partecipanti ad una manifestazione non autorizzata nei confronti delle forze dell’ordine. In tutto il mondo si sono svolte manifestazioni simili, pro o contro Israele, con annesse tensioni.

Facciamo un passo indietro, provando a dare una lettura con lo sguardo di Israele agli sviluppi dell’ultimo anno.

Impressionante la scoperta dei tunnel scavati nella striscia di Gaza da El Fatah e poi da Hamas, dei quali si aveva notizia sin dal 1983, quando furono scoperti nella loro funzione di contrabbando dall’Egitto, e che si stimava fossero 1000-1300, per una ragnatela di circa 500 km. Alti 2 m, larghi 1 m-1,5 m, profondi fino a 45 m ed oltre. Il 17 dicembre 2023 l’Idf ne ha scoperto uno di 4 km, grande abbastanza per far transitare dei veicoli. In questo labirinto sotterraneo, provvisto di corrente elettrica, di luce, minato in diversi tratti e predisposto per far transitare uomini, armi e i prigionieri catturati dopo il raid di un anno fa, si sono svolte gran parte delle attività di Hamas. Israele ha smantellato i tunnel che man mano ha scoperto nell’operazione di terra di quest’anno, pompando in essi milioni di ettolitri di acque reflue dal Mediterraneo, con la conseguenza disastrosa di provocare il cedimento delle fondamenta dei palazzi costruiti sui terreni sovrastanti, a danno della popolazione residente e rendendo non più coltivabili i terreni agricoli.

Questo capitolo è uno di quelli che ha permesso ad Israele di definire la striscia di Gaza come la più grande base terroristica al mondo.

I primi lanci di razzi Qassam dalla striscia di Gaza verso Israele, a seguito dello scoppio della Seconda Intifada, risalgono al 16 aprile 2001. Da allora, il numero di questi razzi lanciati sul territorio israeliano è andata continuamente crescendo negli anni, come riferito dai rapporti di Amnesty International e di Human Rights Watch.

Lo stesso si può registrare per quel che riguarda il fronte con il Libano, invaso già tre volte dalle forze dell’esercito israeliano: nel 1948, dopo l’istituzione dello Stato d’Israele e lo scoppio della prima guerra arabo-israeliana; nel 1978 e nel 1982, quando arrivò ad occupare la capitale Beirut, rea di aver garantito ospitalità al vertice dell’OLP di Yasser Arafat.

È chiaro che, sotto il punto di vista di Gerusalemme, lo Stato ebraico si sente accerchiato e minacciato nella sua esistenza, non riconosciuta dagli Stati confinanti che gli mossero guerra fin dal 1948.

Ad oggi, sono 28 i Paesi su 193 membri delle Nazioni Unite che non hanno riconosciuto lo Stato di Israele. Tra essi, 15 membri della Lega Araba, 10 della Organizzazione della Cooperazione Islamica non Araba e in aggiunta Cuba, Nord Corea e Venezuela. Ricordiamo che Libano, Siria, Iran, Iraq, Arabia Saudita, Oman, Qatar, Kuwait, Yemen, Afghanistan, Pakistan, i paesi dunque confinanti Israele (ad eccezione di Egitto e Giordania) e quelli della penisola arabica e dell’Intero Medio Oriente sono tutti ostili ad Israele.

Gli “Accordi di Abramo” del 2020 prevedevano l’avvicinamento tra l’Arabia Saudita ed Israele, processo bloccatisi con l’attuale escalation.

Nell’ultimo anno il conflitto tra Israele ed alcune di queste Nazioni ha visto gli scenari bellici estendersi oltre Gaza in quanto, quando Hezbollah ha ripreso a bombardare i territori ebraici oltre confine in sostegno di Hamas, l’Iran ha fornito supporto finanziario, militare ed ideologico ai suoi alleati, determinando l’allargarsi del confronto bellico in Libano, in Siria, in Iraq, nello Yemen, nel Mar Rosso.

L’efficacia delle azioni israeliane si è dimostrata vincente nelle azioni belliche oltre confine che hanno portato all’eliminazione del comandante delle forze iraniane Al-Quds, Mohammad Reza Zahedi, con un missile lanciato il 1º aprile sul consolato iraniano a Damasco, di Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, il 31 luglio in un attacco aereo israeliano contro la sua residenza a Teheran e di Hassan Nasrallah, il segretario generale di Hezbollah, il 27 settembre, con il bombardamento su alcune palazzine di Beirut dove era stato individuato il suo nascondiglio.

Senza dimenticare la capacità di intercettare le direttive di Hezbollah che aveva ordinato circa 5.000 cercapersone, dopo che proprio Nasrallah aveva messo in guardia a febbraio contro l’uso dei telefoni cellulari, particolarmente vulnerabili per la loro tracciabilità.  Nel primo pomeriggio del 17 settembre, il Mossad riusciva ad servirsi degli stessi dopo essere riuscito a sabotarli, facendo partire un segnale che avrebbe spinto i loro proprietari ad avvicinare i dispositivi al volto, per poi farli esplodere, provocando 14 morti e 2800 feriti e ulteriori 14 decessi il giorno dopo, mercoledì, tramite lo stesso procedimento nei confronti di walkie-talkie.

Il questi mesi nessun tentativo diplomatico volto a portare al “cessate il fuoco” ha visto un successo, né da parte dell’Egitto o del Qatar, né da parte della UE, e men che meno da parte del principale alleato, che si è precipitato a far convergere un terzo delle navi da guerra della sua Marina Militare, posizionate nel Mediterraneo Orientale, nel Mar Rosso e nel Golfo Persico all’indomani dell’azione di guerra israeliana sull’ambasciata iraniana a Damasco il 1° aprile, per proteggere Tel Aviv dalla reazione di Teheran e che a parole chiede a Netanyahu di fermarsi ma nei fatti continua ad armarlo.

Del resto la standing ovation tributata dal parlamento USA il 24 luglio al Primo Ministro della Knesset ben dimostra da che parte stia Whashington, chiunque sarà a sedere nella Stanza Ovale dopo le prossime elezioni del 5 novembre.

Di contro, la Dichiarazione del 20 maggio 2024 del procuratore della Corte Penale Internazionale in cui si richiede mandato d’arresto per Yahya Sinwar, Mohammed Diab Ibrahim Al-Masri (Deif), Ismail Haniyeh (ucciso dall’Idf il 31 luglio) e per Yoav Gallant e per lo stesso Benjamin Netanyahu, è solo l’ennesima pagina che dimostra come gli organismi sovranazionali, l’ONU su tutti, vengano di fatto delegittimati dagli Stati che ritengono di non ratificare le loro risoluzioni.

Di fatto, lo Stato di Israele detiene un record non toccato da alcuna altra Nazione in quanto a risoluzioni ONU non ratificate, oltre 70, dal 1951 ad oggi: precisamente tutte le risoluzioni che hanno avuto come oggetto il tentativo di dare una soluzione alla ultra settantennale “questione palestinese”.

Nell’ultimo anno, lo scontro tra Israele e l’ONU è stato lampante su tutti i canali, diplomatici e non, culminati con le accuse rivolte da Netanyahu il 27 settembre contro l’Organizzazione guidata da Antonio Guterres proprio nel Palazzo di Vetro, durante il suo discorso nell’Aula delle Assemblee Generali visibilmente svuotata per l’assenza di alcune delegazioni che l’avevano lasciata prima del suo intervento.

Ricordiamo qualche numero: 1139 le vittime israeliane di Hamas nell’attacco ai Kibbuz il 7 ottobre 2023; 251 israeliani rapiti da Hamas nello stesso raid; 131 sono stati liberati, di cui 104 nell’ambito di scambi e prigionieri durante la tregua di una settimana nel novembre 2023; 43 ostaggi sono deceduti per circostanze diverse, uccisi dai loro custodi o sotto i bombardamenti israeliani; 77 sono ancora ostaggi.

41.595 i morti palestinesi, ad oggi, a Gaza. 492 nell’ultimo fronte aperto in Libano contro Hezbollah.

Si calcola che a Gaza siano circa 14mila bambini fra le vittime, 6mila i miliziani, il resto donne e civili.

Posto che i dati sui numeri palestinesi, calcolati dal Ministero della Salute di Gaza, organismo controllato da Hamas, siano evidentemente di difficile verifica dall’esterno e siano dunque contestabili, è indubbio che la catastrofe umanitaria è sotto gli occhi di tutti, denunciata dall’ONU e tragicamente attuata dalle forze dell’Idf.

Si aggiunga che 163 operatori umanitari sono stati uccisi dalle operazioni militarie israeliane a Gaza secondo la denuncia dell’ONU.

Nonostante auspici, richiami ed inviti, da parte del Vescovo di Roma come da parte di altri attori delle diplomazie nazionali, è molto difficile prevedere il termine dell’attuale conflitto.

È molto probabile che ci siano ancora dolorosi capitoli in via di scrittura, che vedranno Tel Aviv e Teheran scambiarsi colpi di missili in maniera letale.

Quel che si può prevedere è soltanto che l’auspicata “risoluzione” della questione palestinese, che per l’ONU e per la maggior parte delle diplomazie nazionali passa da una costituzione di uno Stato Arabo in Palestina e dunque dalla pressione verso un duplice riconoscimento diplomatico da parte di tutte le Nazioni, dello Stato di Israele dopo oltre 70 anni e di uno Stato che abbia verosimilmente in Gaza la sua capitale, non vedrà alcuno sviluppo.

Israele da oltre 70 anni ritiene irricevibile tale soluzione, “a motivo della sua sicurezza nazionale”.

Per i figli di Abramo c’è un’altra soluzione: una seconda e definitiva nakba. In alternativa, uno smantellamento programmato. Se non volete chiamarlo “genocidio”, domandatevi in che condizioni vivano i palestinesi da decenni e in particolare da un anno a questa parte. Per poter annientare Hamas (e a seguire Hezbollah… di Teheran poi si vedrà…) bisogna necessariamente annientare con le armi e con la fame tutta la sua popolazione.

Quel che si è consumato ad Auschiwitz si perpetua oggi a Gaza.

Chissà se il Dio di Abramo approva!

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C’è spazio per gli oppressi?

26 Settembre 2024

Un grido di liberazione dal Giubileo 2000 arriva in questo tempo cupo


Una protesta del movimento sudafricano Abahlali baseMjondolo (“Coloro che vivono nelle baracche”) nella provincia KwaZulu-Natal

Se papa Francesco pone la speranza come tema e orizzonte per il prossimo Giubileo da celebrare con cattolici e chi altri voglia nel 2025, la risposta per molti è: “Sì!”. La speranza resta un dono e una virtù data a tutti, dunque, anche a coloro che sono soggetti a contesti e regimi di “oppressione”. Semmai, la domanda, che rischia purtroppo di essere retorica, è: “c’è giustizia per gli oppressi?”

Memorie giubilari. Il 9 e il 10 settembre del 2000 ho partecipato al convegno, promosso dai padri Comboniani nel palazzetto dello sport di Verona, denominato: “Giubileo degli oppressi. Non solo utopia. Per un Millennio senza esclusi”. Di quel convegno sono tuttora rintracciabili le relazioni in rete1.

Ora, ventiquattro anni dopo, ho rintracciato le audiocassette di quelle relazioni e l’idea è stata di condividerle in rete per metterle a disposizione di tutti2, anche in vista di questo prossimo Giubileo, che speriamo possa essere una “vetrina” per riprendere anche le tematiche qui presentate. In effetti, il fondamento biblico dell’Anno Giubilare, questo propone: un anno di “liberazione per gli schiavi”, così come Gesù di Nazareth, leggendo nella Sinagoga il passo del profeta Isaia che presenta questo “Anno santo”, ne proclama il “compimento” legandolo alla sua persona e alla predicazione del suo messaggio evangelico.

Ventiquattro anni fa erano questi gli obiettivi raccolti e proposti al Convegno: assegnazione delle terre ai piccoli contadini, liberazione dalle condizioni di schiavitù, proposta di remissione/cancellazione del debito estero.

Ripercorriamo i contenuti di quelle relazioni.

Tomàs Balduino (1922-2014), Vescovo brasiliano, presidente della Commissione Pastorale per la terra della Conferenza Episcopale Brasiliana, presenta la realtà di sfruttamento del grande latifondo, gli ostacoli alla riforma agraria, la lotta per i diritti sociali dei contadini, la repressione violenta e gli omicidi da loro subiti. Oggi potremmo aggiornare questi drammi aggiungendo gli omicidi subiti dagli indigeni dell’Amazzonia in difesa delle loro foreste, abbattute in maniera industriale per le logiche del libero mercato3.

Anche Scholastica Kimanga da Nairobi ci racconta il percorso compiuto dalle popolazioni cui è stata sottratta la terra, il loro movimento perché venga loro riconosciuta questa terra per poter vivere dei suoi frutti.

Susan George, presidente dell’Osservatorio sulla Globalizzazione, analizza le storture, dati alla mano, delle politiche della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio che, soprattutto attraverso fenomeni come quello del debito estero, costringe le Nazioni e le popolazioni del “Sud del mondo” ad un impoverimento sempre più diffuso. Sarebbero necessarie nuove politiche ed una nuova strategia per l’economia mondiale.

Francesco Gesualdi, allievo di don Lorenzo Milani e direttore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo, con una relazione magistrale quanto accorata, ci ricorda che gli attuali fenomeni dell’impoverimento della stragrande maggioranza dei popoli a livello mondiale (circa tre miliardi di persone vivono in povertà assoluta, con meno di un dollaro e mezzo al giorno a disposizione per la sussistenza) sono ormai note, come note sono le strade per affrontarle e cercare di risolverle. Ed elenca gli obiettivi e le azioni di resistenza e di desistenza.

La testimonianza di Alex Zanotelli e le domande ai relatori con le relative risposte arricchiscono il dibattito.

Giancarlo Caselli fa un quadro sulla drammatica presenza di immigrati nelle carceri italiane che a livello percentuale numerico ci dice che le politiche di integrazione non sono propriamente lungimiranti. Anche i centri di accoglienza sono, in realtà, delle vere e proprie carceri. Oggi le politiche europee, nordamericane, australiane e italiane si richiamano a una esternalizzazione dei confini, al respingimento, all’innalzamento di muri e ad una crescente xenofobia, senza lavorare sulle cause drammatiche che alimentano i flussi migratori.

Luigi Ciotti nella sua relazione ci ricorda che tutti siamo pronti a parlare di giustizia, di solidarietà, di integrazione sociale, ma i problemi restano drammatici e le politiche per affrontarli del tutto insufficienti.

Nella mattina del 10 un duetto inedito tra Alex Zanotelli e Beppe Grillo, allora non ancora fondatore del futuro Movimento politico sul tema: “Nord/Sud: la realtà, le provocazioni, i sogni”. Moderatore Jean-Léonard Touadi (congolese, giornalista RAI).

Il compito di fare sintesi dei lavori e tracciare le proposte per cammini concreti viene affidato all’intervento di padre Alex Zanotelli. Chiude il convegno un appello finale alle istituzioni e alla società civile italiana.

Oggi, a distanza di ventiquattro anni la speranza sempre viva indicata da papa Francesco per il prossimo Giubileo chiede di confrontarsi con la sete di giustizia che sale come un grido dai “popoli della fame”, come li chiamava Paolo VI nella Populorum Progressio. Che il Giubileo possa davvero essere una finestra per dar voce agli oppressi del nostro tempo

1 https://www.giovaniemissione.it/mondo/verona.htm

2 https://youtube.com/playlist?list=PLHB4t-Wq4_J6df5YXnPpXW1ym6BSC1kw1&si=YMzJc3NJZNbtMXqo

3 https://youtube.com/playlist?list=PLHB4t-Wq4_J6FUYuu82kGdEWHzUi-nC-m&si=9gt8hdLQ2Klp5Hcj

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Ancorati alla speranza

27 Settembre 2024

La dimensione teologica, temporale e dialogica della speranza secondo San Paolo nella Lettera ai Romani

Venerdì 20 settembre con l’Assemblea diocesana per l’inizio dell’anno pastorale presieduta dal vescovo mons. Gianrico Ruzza, ha avuto inizio il cammino delle diocesi di Civitavecchia-Tarquinia e di Porto-Santa Rufina (1).

“Ancorati alla speranza” è stato il tema svolto da Don Antonio Landi, docente di sacra Scrittura presso la Pontificia Università Urbaniana che ha illustrato quel che l’apostolo Paolo ci trasmette nella Lettera ai Romani.

“La speranza è un rischio da correre, il rischio dei rischi” diceva Georges Bernanos.

Il contesto dello scenario politico, culturale e sociale odierno, a partire dagli oltre 100 conflitti (non solo Ucraina e Palestina) in corso nel mondo è particolarmente doloroso.

L’antico adagio recita: “Spero, promitto e iuro richiedono tutti il participio futuro!”

Se gli scenari attuali sono davvero così compromessi c’è davvero spazio per la speranza?

L’immagine dell’àncora, che la simboleggia, ci richiama ad un oggetto che deve dare stabilità alla nave.

Dobbiamo cercare di essere “ancorati nel futuro”.

Importante è il contributo delle religioni per la solidarietà verso i poveri e gli emarginati e per l’apertura verso questo “futuro”.

La speranza ha un potenziale sovversivo.

Un modo diverso di concepire la realtà può essere qualcosa di sovversivo.

Quando ciascuno di noi era un ragazzo, avrebbe voluto cambiare il mondo. Crescendo, ognuno di noi ha rinunciato a quest’anelito.

Dobbiamo capire che non possiamo cambiare il mondo ma che dobbiamo invece cambiare il modo di approcciarci alla realtà.

Siamo passati dalla cultura dell’ateismo alla cultura dell’homo-deus.

Io sono dio e di Dio posso fare a meno.

Protagora diceva che homo mensura verum: l’uomo è misura di tutte le cose.

Oggi parliamo di autoreferenzialità, parliamo di relativismo ma già Protagora sosteneva questo.

Per Benedetto XVI adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. La speranza come ancora è fondata in Cristo, Colui che nel passato ci ha salvati e redenti salendo sulla croce, colui che si fa presente nell’Eucarestia, nella Parola, nella Comunità.

“La vera grande speranza dell’uomo può essere solo Dio”. (SPE SALVI n. 27)

Jurgen Moltmann ha rivelato che in nessun’altra religione del mondo Dio si lega alla speranza del futuro.

La speranza cristiana non è attesa di qualcosa di nuovo ma è disponibilità ad accogliere Colui che fa nuove tutte le cose.

Speranza cristiana è prendere coscienza di essere attesi, non di attendere.

Proviamo ad analizzare il nostro linguaggio relativo alla partecipazione della messa domenicale.: “io vado a messa, vado ad ascoltare la messa, vado a partecipare alla messa”. Ci è mai balzato alla mente, al cuore che c’è Cristo ad accoglierci?

Nella lettera ai Romani la speranza del credente è radicata in Dio e deve sostanziare la sua appartenenza alla vita cristiana. La speranza cristiana non è la panacea, non è rassegnazione, il suo contrario è la disperazione.

Paolo è l’autore del NT che dedica più testi alla speranza.

Mai nei Vangeli Gesù è il soggetto della speranza.

Attorno a lui si coagula chi attende e chi spera.

La speranza ha un’intrinseca dimensione teologica, pone il suo fondamento nell’intervento di Dio nella storia.

Secondo aspetto: l’attesa, che è fondata sull’intervento di Dio nella storia è fondata nel tempo.

C’è un patto che si estende dal passato al futuro.

Terza dimensione: la speranza è dialogica: si spera insieme.

Perché concede all’uomo di infrangere la cortina che ci separa da Dio, dagli altri, da noi stessi.

La speranza è dunque contraddistinta, nell’analisi paolina, di queste tre dimensioni: TEOLOGICA, TEMPORALE, DIALOGICA.

Dobbiamo considerare che la speranza è l’antidoto ad uno dei mali del secolo: l’egoismo che porta alla disperazione, il narcisismo.

Prendiamo in esame alcuni passaggi della Lettera ai Romani

1)     Abramo: sperare contro ogni speranza; la destinazione universale della salvezza (Rm 4); la figura di Abramo assume valore paradigmatico per tutti coloro che sono giustificati non per le opere ma per la fede. Dio gli concede quella discendenza. Abramo per Paolo è la figura del credente non gentile che non ha bisogno della circoncisione. “Abramo credette e gli fu addebitato per giustizia” (CEI: saldo nella speranza contro ogni speranza; stretto legame tra fede e speranza; Sara era sterile ma Abramo si fida di Dio).

2)     Rm 18, 1 – 2,20; 3,21-5,21: la speranza è connessa all’ingresso nella grazia di Dio attraverso Cristo che azzera la distanza creata dal peccato tra gli uomini e Dio. Nella concezione biblica la gloria di Dio indica la sua presenza. Il Dio della compassione, non il Dio adirato. Né il Dio adirato né il Dio misericordioso sono in grado di parlare al cuore del nostro popolo. Dobbiamo parlare a loro.

Si noti bene: l’affermazione “la speranza non delude” altro non significa che: “la speranza non fa vergognare”. Onore e vergogna erano i due parametri di giudizio nell’antichità. Io non mi vergogno del Vangelo. Dio ha dimostrato il suo amore per gli uomini mentre eravamo ancora peccatori. Dio ha donato il suo figlio. Non è un caso che i riti d’ingresso propongano l’atto penitenziale; e che queste parole vengano pronunciate prima della comunione: “o Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa…”

3)     “Nella speranza siamo salvati”. L’intera creazione è protesa verso il suo compimento.

In Rm 8 c’è una solidarietà profonda tra creatore, creato e creatura. Dominare il creato non significa essere despoti sul creato ma è invece necessario renderne conto a Dio. Quella della LAUDATO SI’ non è una semplice svolta ecologica ma è la ripresa del dettato genesiaco e della felicissima intuizione di Paolo in Rm 8. “Nella speranza siamo stati salvati” (Rm 8,24). Ciò che appare invisibile e intangibile nel presente.

4)     “Lieti nella speranza” In Rm 12-15 c’è la componente etica della vita cristiana. Attenzione a non conformarci allo spirito del mondo. Il tempo di discernimento rischia di essere un tempo perso se non viene vissuto con la novità della vita nuova. Non dobbiamo rinnovare le strutture ma le persone. L’apostolo invita a vivere la carità senza la doppiezza. Non c’è spazio per l’invidia ed è bandita ogni forma di protagonismo che mortifica il prossimo. Gareggiate nello stimarvi a vicenda. Lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera.

5)     Avere da Dio la speranza. Le comunità cristiane di Roma affrontavano tensioni tra i forti e i deboli. È necessario spegnere il fuoco di ogni vanto personale. QUANDO NOI CAPIREMO CHE NON DOBBIAMO RIVENDICARE RUOLI MA DISCERNERE CARISMI capiremo che la parrocchia non è il luogo di esibizione di me stesso ma il luogo dove con gli altri sono al servizio. Io so che nulla è impuro in sé stesso e dunque per non turbare un fratello che lo crede lo rispetterò (la questione delle carni offerte agli idoli). Qui il criterio non è la sapienza ma la carità che ha rispetto del fratello. Paolo fa appello ai forti che devono sostenere i deboli senza compiacere sé stessi.

La speranza non è il premio. È il Dio della speranza che fa traboccare il cuore. Concludendo: per Paolo la fede operosa, la carità fattiva e la speranza salda sono le caratteristiche del credente che egli illustra alla comunità di Tessalonica. L’attesa è un atto di condizionata fiducia in Dio.

Chiude con il suo intervento Mons. Ruzza:

“Perché parlare della speranza? Il Giubileo può essere occasione per tutti per riscoprire la speranza. Bisogna innalzare lo sguardo in alto.

Siamo rigenerati ma rispetto a che cosa?

Abbiamo tutti bisogno di rinascere dall’alto per dare una prospettiva eterna ai nostri pensieri e ai nostri desideri. In SPE SALVI il futuro è la relazione con il Signore Gesù.

Credere questo non è un’opzione e non è nemmeno una proiezione onirica.

Io chiedo: le nostre attività che respiro hanno?

Moltissimi giovani non sono attratti e non si sentono interpellati dalle nostre comunità.

Forse il nostro linguaggio a loro non dice nulla.

Forse la loro ricerca è più orientata al mondo social.

La quotidianità che loro vivono corre il rischio di collocarli in una noia pericolosa.

Un’eredità che non si macchia e non marcisce

Dinanzi alle grandi sfide del nostro tempo come i conflitti rimaniamo inerti

Relazioni di pace e di carità autentiche.

Voglio e devo credere che queste persone possano credere nella vittoria di Cristo.

Dobbiamo riflettere sulla vita eterna che ci attende.

È necessario riscoprire la dimensione escatologica della nostra esistenza cristiana

La fraternità fra i viventi è l’unica risposta ai conflitti. Ricerca di unità, condivisione, solidarietà, pace.

Partecipare alla vita civile è l’invito a noi consegnato dalla Settimana Sociale di Trieste.

SPE SALVI: la vera grande speranza dell’uomo può essere solo Dio.

Non possiamo separare la fede dalla speranza.

Porre tutta la speranza in Cristo vigilanza e sobrietà.

Fede è sostanza della speranza.

Concludiamo con le parole di San Francesco d’Assisi: “Dammi una fede retta, speranza certa, carità perfetta”.

(1)   http://www.diocesiportosantarufina.it/home/news_det.php?neid=4941

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Giubileo “centrifugo”: l’ascolto di Francesco

Quello di Francesco è un magistero sociale nei gesti prima che nei documenti e già la scelta del suo nome ne aveva delineato il programma

29 Agosto 2024

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Teologia

ascoltodottrina socialeLaudato sìpapa francescosan Francesco

Francesco era un ascoltatore.
Ascoltò la voce di Dio.
Ascoltò la voce dei poveri.
Ascoltò la voce degli ammalati e quella della natura.

Con queste parole, riferite al poverello di Assisi e pronunciate da papa Francesco in una sequenza del documentario “The letterfilm.org”, vorrei aprire questa riflessione sul contributo – che è sotto gli occhi di tutti noi – offerto dal Vescovo di Roma venuto dall’altra parte del mondo ad un Giubileo che sia davvero “centrifugo”.

Rivedere questa sequenza mi ha portato alla mente le parole di Giovanni che sono un invito alla comunità dei credenti: “Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese” (Ap 2-3). Non solo il credente, come Francesco, deve mettersi in ascolto della voce di Dio. La stessa Chiesa cattolica, con la Costituzione Conciliare Gaudium et Spes si è voluta mettere in ascolto del mondo, degli uomini e delle donne che sono i destinatari dell’amore di Dio annunciato da Gesù di Nazareth ma che devono essere ascoltati e accolti prima di qualsiasi proposta cristiana.

Ritengo che quello del Vescovo di Roma venuto dall’Argentina sia un Magistero  profondamente caratterizzato dalla dimensione sociale, nei gesti prima ancora che nei Documenti. Come non dimenticare il suo primo viaggio apostolico fuori del Vaticano a Lampedusa? L’attenzione agli ultimi e il desiderio di indirizzare tutti noi a questo focus, inizia da qui. E poi, in oltre dieci anni di Ministero, tanti altri momenti ed eventi segnati da queste coordinate:

  • L’istituzione della “Giornata Mondiale dei poveri” che precede quella di Cristo Re;
  • Il pellegrinaggio ai luoghi di vita dei testimoni del XX secolo quali don Lorenzo Milani, don Primo Mazzolari e don Tonino Bello;
  • La scelta di celebrare il gesto della lavanda dei piedi del Giovedì Santo nelle carceri;
  • L’incontro con i movimenti popolari e il loro programma-solgan fondamentale dei diritti da realizzare: “terra, casa, lavoro”;
  • La proposta di vie nuove per un’economia più attenta allo sviluppo integrale dell’uomo, sfociata nei percorsi di The Economy of Francesco;
  • I suoi gesti e le sue scelte più personali, come quelle di vivere a Santa Marta e non nel Palazzo Apostolico, di rinunciare alle ferie a Castel Gandolfo, di rinunciare al suo stipendio, di farsi vicino a varie persone attraverso delle telefonate, di fare il “Vescovo di Roma” con la visita alle parrocchie della Diocesi;
  • Le sue “parole d’ordine”: “Chiesa in uscita”, “Chiesa ospedale da campo” “globalizzazione dell’indifferenza”;
  • L’istituzione di un altro Giubileo, quello della Misericordia, celebrato il 2015, e iniziato con il segno di decentrare il focus da Roma al mondo, con l’apertura della porta Santa a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana;
  • Il suo utilizzo dei media, particolarmente sentito durante le celebrazioni a Santa Marta durante la chiusura del lockdown durante la pandemia di Covid-19;
  • La sua scelta interessante di rivolgersi ai bambini per dare un segno agli adulti, così come il suo predecessore Giovanni Paolo II fece, “inventando”, a suo tempo, le “Giornate Mondiali della Gioventù”;
  • Il suo percorso di dialogo ecumenico con le Chiese Riformate ed Ortodosse e l’istituzione dell’”Alto Comitato per la Fratellanza umana” per un dialogo che abbracci gli uomini delle Religioni e non.

Sono evidenti dunque le linee di sviluppo che portano il Magistero di Francesco a porsi in continuità con le indicazioni del Concilio Vaticano II e quelle del Magistero Sociale della Chiesa prodotte dai documenti sociali dei suoi predecessori.

Purtroppo le sue denunce verso i molteplici mali prodotti dall’uomo –  commercio delle armi, speculazione finanziaria, violazione dei diritti umani fondamentali – accompagnate ai suoi continui appelli perché taccia la via delle armi e si cerchino soluzioni di pace (in Ucraina, Israele e Palestina, Myanmar, Yemen, Sudan, ecc.) sono apprezzate, ma di fatto inascoltate (vedi qui).

Sicuramente il documento sociale di più grande significato è la Laudato Sii, la prima enciclica sui temi dell’ecologia, che rileva in maniera chiara come siamo ad un “punto di non ritorno”, chiamati a compiere scelte indifferibili come comunità nazionali ed internazionali per la salvaguardia della “Casa comune”.

L’invito ai protagonisti del cambiamento presenti nel documentario “The letter.org” è una chiara indicazione. Occorre una collaborazione ed una connessione tra i movimenti popolari, tra i movimenti dei giovani, tra gli scienziati e tra i poveri del mondo, con i cui occhi è possibile leggere le realtà e lavorare ai necessari cambiamenti. Con la speranza, nel cui orizzonte teologale Francesco ci invita a vivere il prossimo Giubileo, che siano realizzati attraverso la nostra propensione a vivere le dinamiche di un Giubileo veramente “centrifugo” .

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Giubileo “centrifugo”: dov’è il bene comune? – 2

Rileggere la “Caritas in veritate” di Benedetto XVI in vista del Giubileo, permette di richiamare il mondo verso alcune proposte di soluzione legate al problema della realizzazione del “bene comune”

19 Agosto 2024

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Teologia

ambienteconsumismodonoecologiagiustiziaglobalizzazionegratuitàimmigrazionelavoromercato

Dopo aver visto (qui) l’analisi condotta da Benedetto XVI nella prima parte dell’enciclica Caritas in veritate, proviamo ora a seguire alcune soluzioni che il pontefice tedesco reputa necessarie.

In primo luogo, le scelte economiche devono avere come risultato il non fare aumentare in modo eccessivo le differenze di ricchezza tra gli esseri umani ed è necessario che il primo obiettivo sia l’accesso al lavoro e il suo mantenimento per tutti, con un «giusto salario», «sicurezza» e «dignità» (63; cfr. anche 64 circa il rapporto negazione diritti lavoratori-consumismo). A ben vedere le esigenze di un tale sviluppo non sono solo quelle della giustizia, ma anche quelle propriamente economiche: le ineguaglianze non solo portano a problematiche sociali e a mettere in pericolo la democrazia, ma hanno anche una ricaduta economica con lo spreco delle risorse umane: «l’appiattimento delle culture sulla dimensione tecnologica, se nel breve periodo può favorire l’ottenimento di profitti, nel lungo periodo ostacola l’arricchimento reciproco e le dinamiche collaborative» (32).

Nel terzo capitolo dell’enciclica Benedetto XVI richiama delle prospettive che sembrerebbero “fuori del mondo”, invitandoci a riscoprire, nel campo dell’economia, le prospettive del dono e della gratuità, espressioni della sua dimensione di trascendenza (34). È un errore far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale. La dottrina teologica del peccato originale è in grado di dare corretta interpretazione alle varie derive sociali, giacché «Ignorare che l’uomo ha una natura ferita, incline al male, è causa di gravi errori nel campo dell’educazione, della politica, dell’azione sociale e dei costumi» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 407; cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 25: l.c., 822-824).

Molto chiaro è anche il giudizio che Benedetto XVI dà del mercato: un luogo di incontro e relazione tra le persone, per confrontare domande e offerte, realizzando la cosiddetta giustizia commutativa quella che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere. La dottrina sociale della Chiesa da sempre invita alla realizzazione della giustizia distributiva e della giustizia sociale che propone alla stessa economia di mercato, la quale non deve farsi vincere dalla tentazione egoistica e di sopraffazione (36). Senza le forme di solidarietà proprie di questi due altri aspetti della giustizia, il mercato perde la fiducia da parte degli attori sociali. Lo sviluppo dei “popoli della fame” indicato da Paolo VI, doveva portare ad una gestione più vantaggiosa anche per la stessa economia di mercato (35).

La giustizia deve riguardare tutte le fasi dell’attività economica dalla produzione al consumo, ogni fase comporta scelte le cui implicazioni sono moralmente rilevanti (37). Mi vengono in mente le varie campagne di boicottaggio promosse nei confronti di aziende i cui prodotti erano realizzati con lo sfruttamento del lavoro e in particolare con quello del lavoro minorile. Se nella Centesimus annus Giovanni Paolo II aveva rilevato la necessità di un sistema a tre soggetti: il mercato, lo Stato e la società civile, per Benedetto XVI gli aspetti propri di un’economia della gratuità e della fraternità, realizzate da soggetti che liberamente scelgono di informare il proprio agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza per ciò stesso rinunciare a produrre valore economico, devono essere presenti non solo nella società civile, ma anche negli ambiti del mercato e delle leggi dello Stato: questi aspetti di gratuità, solidarietà e responsabilità per la giustizia e il bene comune possono essere definiti una “democrazia economica” (39).

Benedetto XVI parla dell’impresa, delle problematiche morali legate alla delocalizzazione delle attività produttive, della consapevolezza della necessità di una più ampia “responsabilità sociale” della stessa. L’impresa non può tener conto degli interessi dei soli proprietari ma deve farsi carico anche dei lavoratori, dei clienti, della comunità sociale di riferimento. È fuorviante ritenere che investire sia solo un fatto tecnico e non anche umano ed etico (40).

Fondamentale, poi, è che il fenomeno della globalizzazione, con la sua interconnessione ed interdipendenza di persone ed intere società, sia colto nella diversità e nell’unità di tutte le sue dimensioni, compresa quella teologica. Ciò consentirà di vivere ed orientare la globalizzazione dell’umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione (42). Bisogna considerare che è sbagliato attribuire alla crescita demografica la responsabilità prima del permanere del sottosviluppo. I casi dei “paesi emergenti” che hanno grande presenza demografica lo dimostrano. Per cui è importante promuovere la difesa della vita e della famiglia (44). Per quel che riguarda il sistema delle certificazioni etiche, con la finanza etica, il microcredito, la microfinanza è essenziale un discernimento ed un controllo sulla veridicità di ogni realtà che si propone come tale (45).

Affinché i progetti di sviluppo abbiano successo, è necessario il coinvolgimento dei popoli interessati e delle persone concrete a livello della società civile. Mentre, nella cooperazione internazionale, non possono mancare la solidarietà della presenza, dell’accompagnamento, della formazione e del rispetto. Gli stessi Organismi internazionali dovrebbero interrogarsi sulla reale efficacia dei loro apparati burocratici e amministrativi, spesso troppo costosi (47).

Già per Benedetto XVI era Importante la tematica dell’ambiente naturale, la questione ecologica, essendo la natura «opera mirabile del Creatore, recante in sé una “grammatica” che indica finalità e criteri per un utilizzo sapiente, non strumentale e arbitrario», ma sempre in un rapporto ordinato (teologicamente) con l’essere umano, pena la ricaduta in «atteggiamenti neopagani o di nuovo panteismo» (48). Le problematiche legate all’accaparramento delle risorse energetiche non rinnovabili con lo sfruttamento di materie prime presenti nei paesi poveri e i costi economici e sociali derivanti dall’uso delle risorse ambientali comuni ci deve chiamare a rivedere i nostri stili di vita nel contenimento dei consumi (49), causa anch’essi della «desertificazione e l’impoverimento produttivo di alcune aree agricole» (51).

Nell’ultima parte dell’enciclica, molto interessante l’affermazione di apertura che presenta la solitudine come una delle più profonde povertà che l’uomo può sperimentare. Già Paolo VI affermava che «il mondo soffre per mancanza di pensiero». L’idea che i popoli della terra posano essere accomunati da una fratellanza come un’unica grande famiglia richiede un lavoro di integrazione nel segno della solidarietà e questo comporta l’apporto non solo delle scienze sociali ma anche di saperi come la metafisica o la teologia. In campo cristiano, la teologia trinitaria ispira la chiamata per la Chiesa e la proposta all’umanità di percorsi che promuovano l’unità nella molteplicità (53).

Da notare e denunciare come, accanto alla via delle religioni che insegnano la fratellanza e la pace, risultando di enorme importanza per lo sviluppo umano integrale, «il mondo di oggi è attraversato da alcune culture a sfondo religioso, che non impegnano l’uomo alla comunione, ma lo isolano nella ricerca del benessere individuale, limitandosi a gratificarne le attese psicologiche. È necessario dunque un adeguato discernimento (55).

Si ribadisce che la dottrina sociale della Chiesa invita a lavorare su tutte le dimensioni che riguardano le dinamiche umane: le dimensioni culturale e religiosa, oltre che sociale, economica e politica (56; 59). Molto importante l’utilizzo del principio di sussidiarietà, che va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa (57-58). Interessante anche la via della cosiddetta sussidiarietà fiscale, che permetterebbe ai cittadini di decidere sulla destinazione di quote delle loro imposte versate allo Stato (60). Così come l’accenno al turismo internazionale che, pur potendo essere fattore di crescita economica e culturale, a volte viene concepito in modo consumistico ed edonistico, con i suoi corollari di sfruttamento, non ultimo quello dovuto al turismo sessuale (61).

Un altro aspetto meritevole di attenzione, trattando dello sviluppo umano integrale, è il fenomeno delle migrazioni, un fenomeno sociale di natura epocale, che richiede una forte e lungimirante politica di cooperazione internazionale per essere adeguatamente affrontato: nessun Paese da solo può ritenersi in grado di far fronte ai problemi migratori del nostro tempo (62).

Fondamentale che la finanza operi eticamente non più e non solo per il conseguimento dei profitti, ma in un’ottica di attenzione al bene comune nella giustizia sociale, nell’ottica di un effettivo sviluppo dei popoli. Sono necessari, quindi, dei controlli che impediscano le scandalose speculazioni, così come è necessaria la difesa dall’usura e la promozione del microcredito (65) o, per educare il consumatore, forme di «cooperazione all’acquisto» (66). Necessario, infine, riconoscere come sia urgente la riforma di una Organizzazione delle Nazioni Unite che possano operare in maniera più efficacie per garantire a livello internazionale la realizzazione reale delle condizioni necessarie ad un autentico sviluppo integrale di ogni uomo e di tutti gli uomini (67).

In chiusura dell’enciclica (68-77), per la prima volta un Pontefice affronta il tema della tecnica e del suo utilizzo inerente allo sviluppo dei popoli. Se volessimo, dopo 15 anni dalla Caritas in veritate, attualizzare questi numeri, potremmo parlare dello sviluppo odierno dell’intelligenza artificiale e del dibattito scientifico che ne sta parlando: «oggi la mentalità tecnicistica fa coincidere il vero con il fattibile. Ma quando l’unico criterio della verità è l’efficienza e l’utilità, lo sviluppo viene automaticamente negato» (70). Per questo l’enciclica si conclude con un’affermazione teologica che riassumeo bene l’approccio seguito e consigliato da Benedetto XVI: «Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l’autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. Perciò anche nei momenti più difficili e complessi, oltre a reagire con consapevolezza, dobbiamo soprattutto riferirci al suo amore. Lo sviluppo implica attenzione alla vita spirituale, seria considerazione delle esperienze di fiducia in Dio, di fraternità spirituale in Cristo, di affidamento alla Provvidenza e alla Misericordia divine, di amore e di perdono, di rinuncia a sé stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace» (79).