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L’immagine del ponte richiama alla sua funzione: unire, collegare, permettere la comunicazione, oltrepassare gli ostacoli, innalzarsi sopra di essi, permettere di proseguire un percorso, condurre a conoscere ciò che c’è oltre gli ostacoli, favorire l’incontro superando una situazione iniziale di separazione.
Queste caratteristiche sono preziose ed importanti, e insieme con la bellezza di tante costruzioni opera dell’uomo che si ergono sulle asperità del paesaggio naturale, questa immagine diviene ispirazione per un approccio ad ogni situazione che coinvolge le relazioni umane e metodo per ricercare soluzioni costruttive ad ogni questione.
Costruttori di ponti.
Siamo diversi, per cultura, formazione, mentalità, stili di vita, opinioni.
Donne e uomini; adulti e giovani; vecchi e bambini; poveri e ricchi; bianchi, neri, gialli, rossi; di destra o di sinistra; sovranisti o europeisti; repubblicani o monarchici; democratici o sostenitori di un regime assolutista; governativi o anarchici; atei, agnostici o credenti; cattolici, ortodossi o protestanti; cristiani, ebrei, musulmani; monoteisti o politeisti; cultori delle scienze esatte o di quelle umanistiche; laureati o analfabeti; lavoratori o disoccupati; imprenditori o dipendenti; professionisti o dilettanti; idealisti o pragmatici; schiavi o liberi…
Nessuno può negare le nostre differenze. Nessuno le può ignorare.
Lo stesso Aeropago della rete, dei social, dei nuovi media, tende ad esasperare le differenze, esaltando l’opinione, il parere, il punto di vista di ogni singolo pensante o non pensante, le fake news, gli hate speech.
La diversità diventa fazione, divisione, scontro.
La diversità fa paura, desta disagio, chiama a contrapposizione.
Si ergono muri, si marcano distanze, ci si arrocca nei propri recinti e li si difende a qualunque costo.
La storia è colma di esempi, di pagine, di eventi che hanno mostrato, in maniera drammatica, gli sviluppi di queste dinamiche.
Eppure, la diversità non deve necessariamente portare ad una contrapposizione, ad uno scontro, ad un conflitto.
Senza negare le singole identità e le singole appartenenze (di un individuo, di una popolazione, di uno Stato), il cammino della convivenza civile, sociale e inter-multi/culturale, multietnica, multireligiosa può portare a un un’arricchimento reciproco e collettivo.
Costruttori di ponti.
E non “identificatori di identità”.
Quando si passa un confine è necessario dichiararsi.
C’è un passaporto, una carta d’identità, un bagaglio, qualcosa che ci appartiene e va dichiarata.
C’è chi ci deve identificare, schedare, timbrare.
Questo avviene sul confine.
E questo avviene sul confine dell’incontro.
Quando entro in contatto con una nuova persona o con una nuova situazione ho la necessità di definirla.
Ho la necessità di leggerla.
Per farlo, non posso che partire dalla mia visione, dalla mia prospettiva, dal mio punto di vista.
Sono determinato da quello che sono e da quello che sono divenuto.
Ho una cultura, un’idioma linguistico, una mentalità.
Vedo con le “mie” lenti. Ascolto con le “mie” orecchie. Sento, percepisco, leggo, interpreto, dispongo, giudico, sviluppo in base a quello che IO SONO.
Fin qui, tutto normale.
La precomprensione è inevitabile.
A volte lo è anche il pregiudizio.
Ad una condizione: che tutto questo non mi porti ad alzare muri.
Se sono predisposto e disposto a COSTRUIRE PONTI non sarà la precomprensione a impedirlo e sarò disposto a rivedere i miei pregiudizi e riconoscere che “c’è qualcosa di diverso oltre questo ponte”. Di diverso non solo perché diverso da me. Di diverso in quanto diverso dalle mie precomprensioni, dai miei pregiudizi, da quello che avevo pensato e creduto di trovare oltre questo ponte; mi sbagliavo perché, prima dell’incontro, la mia conoscenza era incompleta e forse viziata.
Costruttori di ponti, dicevamo.
Non “identificatori di identità”.
Quando incontro l’altro, al di là del mio suddetto approccio “precomprensivo” (conoscere l’altro attraverso il mio metro di lettura) quanto pesano sul mio giudizio gli stereotipi che sono, in sé, “divisori” perché portatori di un tratto binario?
Quello che favorirà l’innalzamento di muri piuttosto che la costruzione di ponti sarà appunto questo metodo.
Quello di chi, sul confine, più che APRIRSI all’altro, all’incontro, a una relazione tra diversi, sentirà il bisogno di definirlo, di tracciare la sua identità, di “schematizzarlo”.
Per poter, lui sì, DOMINARE quest’incontro.
Non l’accoglienza delle diversità ma il controllo delle stesse.
Un approccio simile potrebbe nascere, non tanto dalla necessità di definire la propria identità (cosa sacrosanta anche se forse non esauribile; perché io stesso non sono “determinato” ma “in divenire”); potrebbe nascere dalla “paura del diverso”, dalla “paura dell’ignoto”, in definitiva dalla “paura dell’altro”: così ben evidente dalla necessità di “schedarlo” fra un ventaglio di stereotipi che posso controllare.
Evidentemente tale approccio potrebbe nascere proprio a causa di una insicurezza di partenza.
Se ho la necessità di “avere tutto sotto controllo” questa nasce proprio dal fatto che io stesso non ho sotto controllo quello che sono.
E riverso le mie insicurezze sulla necessità di “tenere sotto controllo” gli altri.
Divenendo non dunque un costruttore di ponti ma un “identificatore di identità”.
Se quando entro in relazione con una nuova persona sento il bisogno impellente di “identificarla” potrei dunque vivere un tale meccanismo.
“Sei di destra o di sinistra? Sei cattolico o musulmano? Sei credente o ateo? Sei etero o Lgbt? Sei un filosofo o uno scienziato? Sei un capitalista o un proletario? Sei un imprenditore o un dipendente? Sei emigrato o immigrato? Sei bianco o nero? Sei donna o uomo? Sei vecchio o giovane? Sei sportivo o sedentario? Sei grasso o magro? Sei governativo o anarchico? Sei ricco o povero?”… e via dicendo.
L’ambizione di un costruttore di ponti è quella di incontrare ed entrare in relazione con ognuna di queste persone e di queste situazioni; di non negarne le diversità, le asperità, i conflitti; ma di cercare un punto d’incontro, una proposta, una soluzione; di indicare sempre una visione d’insieme, dei punti d’appoggio, un bene comune.
VISIONE D’INSIEME: ciò che unisce le due sponde di un percorso non sono due punti di vista diversi, opposti, parziali. Ciò che le unisce è la visione d’insieme.
Ogni problema va riconosciuto, affrontato, dibattuto, e il lavoro non è semplice, a volte ci possono essere diversità di vedute e scontri, ma per costruire un ponte, per risolvere le situazioni, c’è la necessità di far incontrare visioni panoramiche diverse.
PUNTI D’APPOGGIO: i pilastri sono necessari, fondamentali. Possono ergersi ad altezze impensabili e su asperità notevoli; vanno piantati ciascuno a partire dalle due sponde opposte. Ma la strada costruita su di essi diviene un tutto unico.
UN BENE COMUNE. È un concetto che ha valenze che vanno al di là dell’utile “materiale” (un ponte favorisce comunicazioni, scambi economici, moneta, sviluppo, prosperità) per transitare a livelli semantici uteriori: politico (non “partitico”), sociale, culturale, morale, religioso, interiore, spirituale.
Anche il concetto di “bene comune” può essere diversamente normato e sentito.
Nelle società di non molto tempo fa, ad esempio, la schiavitù era considerata accettabile e necessaria per le esigenze del “bene comune” delle realtà che su di essa si fondavano.
Se però oggi, l’idea di “bene comune” suggerisce la promozione integrale dell’esistenza di ogni essere umano sulla Terra, è evidente che abbiamo ancora molto da fare.
Dunque, consapevoli dei nostri limiti e delle nostre diversità, rendiamoci disponibili a questa fatica.
Spero di poter dare il mio contributo e costruire solidi ponti anche con persone che sono diverse da me e dal mio modo di agire e di pensare.
Se quello che conta sarà sforzarci di costruire ponti, qualcosa di buono riusciremo a fare.
Alessandro Manfridi
visioncostruttoridiponti@gmail.com