A quarant’anni dalla “Laborem exercens” è ancora utile domandarsi cosa c’è da fare, dal punto di vista cristiano, per il lavoro ed i lavoratori.
26 Luglio 2024
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Stiamo riprendendo le indicazioni preziose dei vescovi di Roma, attraverso il magistero delle loro encicliche sociali, per poter realizzare un giubileo che sia vissuto in maniera centrifuga.
A Giovanni Paolo II dobbiamo il lascito di tre encicliche sociali: La Sollicitudo rei socialis pubblicata nel ventesimo anniversario della Populorum Progressio di Paolo VI, la Centesimus annus che prende nome e spunto richiamandosi al centenario della prima delle encicliche sociali (la Rerum Novarum di Leone XIII) e la Laborem exercens, pubblicata dieci anni prima nel novantesimo anniversario della stessa.
La prima di queste sue tre encicliche sociali, quella dedicata al lavoro, ha il merito di inquadrare in maniera teologica, secondo la sua fondazione biblica, un tema fondamentale per la vita dell’uomo nella storia dell’umanità: non dunque solamente “sociale” e specificamente “umano”, ma corrispondente ad una precisa indicazione “divina” che inizia al culmine del racconto sulla creazione in Gn 1,28 e trova come suo massimo esempio l’esperienza dello stesso Gesù come lavoratore:
Il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l’uomo dal resto delle creature, la cui attività, connessa col mantenimento della vita, non si può chiamare lavoro; solo l’uomo ne è capace e solo l’uomo lo compie, riempiendo al tempo stesso con il lavoro la sua esistenza sulla terra. Così il lavoro porta su di sé un particolare segno dell’uomo e dell’umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone; e questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce, in un certo senso, la stessa sua natura (1).
Fondamentale la distinzione tra il lavoro “oggettivo” (visto dallo sguardo della scienza e della tecnica) e “soggettivo” (che riguarda l’uomo come persona e la sua stessa piena realizzazione): il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso, il suo soggetto (6). Dunque, le concezioni che vedono il lavoro come una “merce” escono dall’attenzione al suo valore soggettivo per rimanere intrappolate nella sua visione oggettiva (7).
In tal senso, è importante ricordare storicamente la “questione operaia” o “questione proletaria” (8). Il lavoro, infatti, non produce i soli risultati, materiali od intellettuali che siano, ma “nobilita l’uomo”, realizzandolo più pienamente nella sua umanità, ecco la “dignità del lavoro”. Se è vero che la “laboriosità” è una virtù, bisogna impegnarsi perché moralmente il lavoro aumenti la dignità dell’uomo, senza diminuirla, come avviene nel caso di lavori forzati o sfruttamento dei lavoratori (9). Il lavoro è inoltre il fondamento su cui si forma la vita familiare, la quale è un diritto naturale ed una vocazione dell’uomo (10).
Giovanni Paolo II ricorda, poi, il conflitto tra il lavoro e il capitale, che ha portato storicamente alla contrapposizione tra il liberismo e il collettivismo, con la cosiddetta “lotta di classe”. A tal riguardo, il magistero conferisce un primato al bene che è il lavoro, rispetto al capitale (12). L’antinomia lavoro-capitale è in realtà sbagliata perché i due termini non sono separabili né gli uomini che li rappresentano devono contrapporsi; ma nasce da un pensiero che trae le sue radici nel materialismo che porta all’economismo (13). Decisivo, allora, riconoscere i diritti dei lavoratori: il problema della disoccupazione, il salario, le persone disabili, l’emigrazione legata al lavoro, il ruolo dei sindacati (16-23).
L’enciclica si chiude con la traccia di alcuni elementi per una spiritualità del lavoro. Innanzitutto la sua vocazione di collaborazione all’opera creatrice di Dio; poi, l’esempio di Gesù che ha condiviso l’esperienza del lavoro umano facendola sua per gran parte della sua vita; infine, la luce che viene all’esperienza del lavoro e dei lavoratori dalla Croce e dalla Risurrezione di Cristo (24-27).
A oltre quarant’anni da questa enciclica sociale sul lavoro, quali considerazioni possiamo fare perché anche questo tema sia ripreso e promosso dal prossimo giubileo?
Intanto, è interessante ricordare che il lavoro è una delle “tre T” (tierra, techo y trabajo) proposta da papa Francesco come riferimenti cardine degli incontri mondiali dei movimenti popolari da lui promossi. Ho sempre pensato che l’equazione fondamentale che sintetizza tutta l’opera di Karl Marx, ossia che gli interessi del capitale sono inversamente proporzionali a quelli del lavoro e dei lavoratori, è purtroppo tragicamente vera non solo per le sue realizzazioni storiche, ma anche e soprattutto per la realtà diffusa che è sotto gli occhi di tutti e che riguarda le esperienze del lavoro, nella nostra nazione come in tutto il mondo. Un articolo dell’economista Rodrigo Andrea Rivas illustra come in realtà il capitale finanziario sia oggi quello che dirige gli investimenti reali, a danno della realizzazione di nuovi posti reali di lavoro. Come non ricordare, in tal senso, l’accorata “Lettera a don Piero”, pubblicata su “Esperienze pastorali” nel 1957 da don Lorenzo Milani, in cui viene denunciato l’utilizzo del progresso tecnico riguardante i nuovi telai nell’industria tessile fiorentina, sfruttati a beneficio del proprietario e a danno disumano dei lavoratori? Come non accostarla alle interviste di Silvestro Montanaro ai bambini brasiliani che lavorano nelle cave di pietra proposte nel documentario “Con il cuore coperto di neve”?
Se è vero che gli italiani sono stati negli ultimi due secoli un “popolo di emigranti”, oggi è impressionante la lettura mondiale legata al “mercato del lavoro”. Nell’esperienza vissuta da cinque anni da me, da mia moglie e da altri docenti volontari con la “scuola di italiano L2 don Mimmo Amato”, stiamo avendo l’opportunità di incontrare e conoscere immigrati che arrivano in Italia per costruirsi un futuro migliore. Ci sono padri e madri di famiglia, spesso laureati, che accettano di lasciare le loro famiglie nelle nazioni sudamericane, africane ed asiatiche, per recarsi in Italia a compiere lavori spesso manuali, nell’agricoltura, nella zootecnia, nelle industrie, nelle ditte di manovalanza edile e non solo. Se lo fanno, è evidente che le rimesse in euro che possono inviare alle loro famiglie in patria sono per loro vantaggiose a motivo del cambio con le valute delle loro nazioni. Di contro, i giovani italiani, spesso laureati, si vedono costretti a scegliere di emigrare all’estero per trovare migliori condizioni di lavoro e di riconoscimento economico e dunque nuove prospettive di vita. Forse c’è qualcosa che non funziona in tutto questo.
In effetti, sono proprio i diritti dei lavoratori che sembrano ancora una volta oggi negati dai vari sfruttamenti che avvengono nel mondo con il lavoro minorile, i bassi salari, l’assenza di adeguati riconoscimenti legislativi e voci sindacali; purtroppo questo riguarda anche la nostra nazione, non solo con le situazioni illegali legate alle gestioni dei vari “caporali” di turno. Ciò che deve chiamare in causa le istituzioni e le coscienze dei cittadini sono le condizioni “legali”, quali, ad esempio, lo sfruttamento del lavoro usurante dei “raider” o degli operai delle varie aziende dove si continua a morire in maniera impressionante e sotto il più diffuso silenzio.
Nel percorso di riflessione svolto quest’anno all’Auxilium sull’intelligenza artificiale non mi sono sfuggite due considerazioni, tra le altre, da parte di uno dei relatori: ad oggi i motori che mandano in rete l’AI hanno bisogno a livello industriale di essere raffreddati da condutture idriche di acqua potabile, e questo significa che c’è un costo ecologico enorme di questi sistemi; l’altro punto, che riguarda il nostro tema, è quello del lavoro: certamente si creeranno nuove tipologie di posti di lavoro ma, nel complesso, gli analisti prevedono che l’utilizzo delle AI sia destinata non solo a sveltire il lavoro ma anche ad eliminare centinaia di migliaia di posti di lavoro reali! Le analisi di Marx e la denuncia di don Milani rimangono dunque enormemente attuali.
Probabilmente i governi nazionali e gli organismi sovranazionali dovranno studiare una qualche forma di alternativa, perché, se è vero che il lavoro realizza più pienamente la dignità dell’uomo, come ben afferma la Laborem exercens, è anche vero che milioni di esseri umani, abili allo stesso, sono di fatto “tagliati fuori” dal “mercato del lavoro”. Se quella del “reddito di cittadinanza” è stata un’esperienza che ha avuto anche i suoi limiti, è necessario politicamente provvedere a coloro che vivono la situazione della disoccupazione, anche in ossequio all’Art. 1 della nostra Costituzione.
In conclusione, mi sembra opportuno ricordare lo sfogo di una giovane famiglia dove entrambi lavoravano dalla mattina alla sera per portare a casa i soldi e ripagare, insieme con le varie spese, il debito del mutuo col quale avevano acquistato la loro abitazione. Fortunatamente, potevano contare sui loro genitori, i quali, da nonni volenterosi, si occupavano dei loro piccoli nipoti; la sera, stanchi, al ritorno dal lavoro, dovevano gestire in poche ore tutta la loro esperienza di coniugalità e di genitorialità, con ovvie problematiche legate al poco tempo a disposizione. Anche chi ha l’opportunità di lavorare, a volte, vive il dramma e la stortura di essere costretto a vivere per lavorare e non a lavorare per vivere!