12 Aprile 2024
La storia di Anna non è un romanzo. Ma è molto di più.
È un racconto di vita vissuta che diventa “nostro”.
Entrando con Anna in quei luoghi dove ha vissuto il suo travolgente amore prima e il suo drammatico incubo poi, ciascuno di noi “vede” i suoi protagonisti, percepisce i loro stati d’animo, comprende le loro tensioni, vive il dramma della loro mancanza di comunicazione, rimane col fiato sospeso fino all’epilogo della vicenda.
Al termine di questo viaggio, ma anche durante il suo percorso, ne siamo certi, quasi ciascuno di noi sarà portato da una solidarietà profonda con la nostra protagonista a schierarsi con lei, a mettersi nei suoi panni, a condividere i passaggi del suo “incubo”, a dire in maniera solidale: “Sono con Anna. Anna sono io!”.
Quale messaggio e quali indicazioni possono arrivarci da questo racconto nel quale ci siamo immersi?
Partiamo dalle cronache.
Le statistiche ci consegnano il dramma di una vittima per femminicidio ogni tre giorni in Italia negli ultimi anni.
Il fenomeno è certamente allarmante e richiede una attenta riflessione perché ne vengano messe a fuoco le cause.
Gli studiosi ci dicono che a volte la scintilla della violenza che porta all’omicidio arriva perché la donna non intuisce la deriva che porta l’uomo al gesto estremo, sfociato dall’esasperazione e dalla disperazione mosse dalla consapevolezza di una relazione ormai negata, con una separazione minacciata o anche già realizzata.
Naturalmente il fenomeno non coinvolge solo le vittime del femminicidio ma si estende a tutte quelle violenze, fisiche e psicologiche, subite fra le mura domestiche.
Potremmo richiamare il racconto della “rana bollita” di Noam Chomsky.
Allo spettatore sembra incredibile come sia potuto avvenire che Anna non si sia “svegliata” prima, come non abbia potuto rendersi conto della trappola nella quale si era introdotta, come non abbia potuto reagire in maniera più subitanea per liberarsi in tempo, evitando la spirale delle violenze.
Nel far questo, noi ci poniamo come si pone lo spettatore davanti allo schermo televisivo seguendo un qualche programma “dall’esterno” e individuando le “soluzioni” protetto dalla virtuale e reale distanza e dallo scudo che questa posizione ci consente.
Per comprendere più a fondo la psicologia di Anna e Manlioe le loro conseguenti azioni e reazioni, non dobbiamo fermarci solo a un personale coinvolgimento emotivo.
Dobbiamo fare la fatica di “entrare nel set” e far nostre le dinamiche dei protagonisti.
Facciamo dunque un duplice passaggio. Iniziamo con una analisi esterna, quella legata agli studi su casi simili presi in esame.
Successivamente, entriamo nel “set” e immedesimiamoci nei panni dei protagonisti e delle loro dinamiche.
Gli studiosi ci parlano delle fasi cicliche della violenza:
1) Costruzione della tensione
2) Maltrattamento
3) Luna di miele
Nella prima fase la costruzione della tensione non è necessariamente realizzata in modo violento ma mediante comportamenti che si dimostrano ostili. Il protagonista del ciclo della violenza in questa fase utilizza come mezzi il controllo del partner, il suo isolamento, lo sottopone a continue umiliazioni, minaccia di usare la violenza fisica.
Dimostra nervosismo e ha difficoltà a gestire la rabbia.
La risposta a questi input che riceve dal partner sono quelle di venir assecondato, perché si cerca di risolvere la tensione in questo modo.
Alla prima fase segue quella delmaltrattamento con l’esplosione della violenza, fisica o psicologica, ma anche economica e sessuale. È una violenza graduale, che inizia con spintoni o schiaffi e che può degenerare anche nella violenza sessuale e nel femminicidio.
La terza fase viene denominata “luna di miele”. L’autore delle violenze si scusa per l’accaduto e cerca di ripararvi con varie azioni, inclusa la minaccia di suicidarsi. In questa fase le azioni riparatorie sono accompagnate dallo scarico della responsabilità. Le violenze sono motivate da tensioni dovute a problematiche sul lavoro, a qualche difficoltà economica, infine accusando comportamenti sbagliati adottati dal partner.
Queste tre fasi si susseguono ripresentandosi secondo questo ciclo. La fase del pentimento si abbrevia man mano che le fasi si ripetono e le stesse fasi si susseguono sempre più velocemente, anche l’intensità e le forme di violenza possono cambiare.
Questa teoria del ciclo della violenza è stata proposta per la prima volta nel 1979 dalla psicologa Lenore Walker.
Oltre alla teoria del ciclo della violenza, la Walker sviluppò una ulteriore teoria, quella della “impotenza appresa”.
La studiosa prende spunto dal paradigma di Seligman riferito agli animali che vivono in cattività e che entravano in depressione non reagendo difronte allo stimolo delle scariche elettriche che subivano qualsiasi comportamento operassero. Questo li portava a sviluppare un comportamento passivo e apatico, al punto di non fuggire neanche quando la gabbia veniva lasciata aperta fino a opporre resistenza verso il tentativo dello studioso che prova a spingerli fuori della stessa.
Queste dinamiche sono in egual modo, secondo la teoria della “impotenza appresa”, drammaticamente assunte dalle donne vittime di violenza all’interno di una relazione di coppia che, sotto abusi ripetuti, minacce non solo di violenza ma persino di morte, arrivano ad arrendersi, isolandosi completamente e reagendo in maniera passiva e apatica.
Dopo uno sguardo su questi studi, mettiamoci nei panni dei protagonisti del nostro romanzo.
Manlio vive tutte le fasi del ciclo della violenza. Giustifica il suo operato, colpevolizza la sua vittima.
In realtà, egli non è un partner “sano”, perché già segnato dalla malattia psichiatrica, nascosta e negata, con lucidità tenuta fuori dalla sua nuova storia, memore di esperienze affettive già fallite in precedenza.
Qui la sua famiglia d’origine si fa complice, con l’unica, improbabile, giustificazione di una poco ragionevole speranza che questa nuova storia di coppia potesse avere migliore soluzione.
Detto legalmente, qui siamo di fronte alle condizioni di un matrimonio nullo fin dalle sue origini.
La “particolarità” della situazione di Manlio non deve però impedirci di accostare le sue dinamiche a tanti altri protagonisti delle violenze domestiche.
Queste, mai giustificabili, nascono nel modo in cui il “ciclo delle violenze” ben descrive, e accomunano senz’altro personaggi “malati” come il nostro protagonista ad altri che, clinicamente, sarebbero stati ritenuti sani.
Qui si potrebbe aprire una interessante riflessione su quanto le dinamiche di comportamenti ritenuti patologici o rilevanti sotto una osservazione psichiatrica appartengano a entrambi i tipi di soggetti; questo pone la domanda: chi reagisce facendosi trasportare dal demone della violenza è ancora definibile come “lucido e sano di mente” o viceversa dovrebbe essere posto sotto il supporto competente e necessario di psicologi e psichiatri?
Il caso di Anna è molto più complesso.
Anche lei subisce tutto il ventaglio delle fasi del ciclo della violenza, come visto.
Probabilmente la nostra protagonista è arrivata sulla soglia stessa della situazione della “impotenza appresa” ma è riuscita ad essere reattiva quanto le occorreva per uscire dall’incubo che l’aveva travolta.
Ciò che “tiene legata” Anna al suo aguzzino sono i suoi meccanismi di negazione dell’evidenza delle violenze mediante i tentativi di trovarne una qualche giustificazione.
Tutto questo trova fondamento nel primo capitolo di questa storia di coppia, quello della favola, quella del sogno e al conseguente “salto nel vuoto” che ella è arrivata a fare.
Anna “ha investito” “ha scommesso” su questo amore in maniera radicale, chiedendo alla sua famiglia di origine di aderire al suo progetto, ragionevolmente azzardato, facendo una scelta pubblica davanti a tutti e tutto.
Ora l’opzione di “tornare indietro” si dimostra dolorosamente fallimentare.
Questo è il motivo che la porta a cercare opzioni diverse.
La sua opzione è dunque quella di tacere e nascondere l’accaduto, davanti alla sua famiglia di origine e davanti a quella del marito, cercando di gestire gli eventi “navigando a vista”.
Cerca dunque di assecondare e non contrariare Manlio in ogni modo.
Il silenzio e il tentativo di celare le violenze all’esterno si accompagnano con sentimenti di vergogna, finanche sensi di colpa, nella spirale psicologica di chi giunge a negare e giustificare le stesse violenze, addossandosi una qualche responsabilità personale che le abbia causate.
Ma ogni sforzo di Anna nel gestire e salvare il suo rapporto si rivela contropruducente e drammaticamente inutile.
La spirale delle violenze di ripresenta in maniera sempre più avvolgente e mortale.
La nostra protagonista dovrà via via convincersi della tremenda verità e trovare tutte le forze mentali e fisiche per progettare e realizzare la fuga da questa prigione.
Il fatto che questa sia una storia “a lieto fine” non significa che non sia una storia che ha scavato solchi profondi e lasciato ferite indelebili nella vita non solo della vittima ma anche in quella di tutti gli altri protagonisti, compreso quella dell’autore delle violenze.
Questa storia può dunque insegnarci tanto.