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7 ottobre: un anno dopo.

C’è qualche alternativa al conflitto in corso in Medio Oriente?

Ottobre 2024

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Attualità

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Gli eventi nella regione Medio Orientale sono in continuo susseguirsi e chi vi scrive spera di non dover registrare un bombardamento israeliano in territorio iraniano, per altro ormai annunciato e dunque certo nei prossimi giorni.

Se questo dovesse realizzarsi nella data del 7 ottobre, sarebbe senz’altro una risposta “significativa” da parte israeliana, per rispondere alla escalation cominciata esattamente un anno fa ad opera del raid coordinato da Hamas a danno dei coloni ebrei.

Il Viminale si è preoccupato di vietare manifestazioni pubbliche organizzate da associazioni islamiche e dalla società civile in vista del primo anniversario degli eventi e purtroppo il 5 c.m. abbiamo registrato un temuto rivolgersi violento di alcune frange dei partecipanti ad una manifestazione non autorizzata nei confronti delle forze dell’ordine. In tutto il mondo si sono svolte manifestazioni simili, pro o contro Israele, con annesse tensioni.

Facciamo un passo indietro, provando a dare una lettura con lo sguardo di Israele agli sviluppi dell’ultimo anno.

Impressionante la scoperta dei tunnel scavati nella striscia di Gaza da El Fatah e poi da Hamas, dei quali si aveva notizia sin dal 1983, quando furono scoperti nella loro funzione di contrabbando dall’Egitto, e che si stimava fossero 1000-1300, per una ragnatela di circa 500 km. Alti 2 m, larghi 1 m-1,5 m, profondi fino a 45 m ed oltre. Il 17 dicembre 2023 l’Idf ne ha scoperto uno di 4 km, grande abbastanza per far transitare dei veicoli. In questo labirinto sotterraneo, provvisto di corrente elettrica, di luce, minato in diversi tratti e predisposto per far transitare uomini, armi e i prigionieri catturati dopo il raid di un anno fa, si sono svolte gran parte delle attività di Hamas. Israele ha smantellato i tunnel che man mano ha scoperto nell’operazione di terra di quest’anno, pompando in essi milioni di ettolitri di acque reflue dal Mediterraneo, con la conseguenza disastrosa di provocare il cedimento delle fondamenta dei palazzi costruiti sui terreni sovrastanti, a danno della popolazione residente e rendendo non più coltivabili i terreni agricoli.

Questo capitolo è uno di quelli che ha permesso ad Israele di definire la striscia di Gaza come la più grande base terroristica al mondo.

I primi lanci di razzi Qassam dalla striscia di Gaza verso Israele, a seguito dello scoppio della Seconda Intifada, risalgono al 16 aprile 2001. Da allora, il numero di questi razzi lanciati sul territorio israeliano è andata continuamente crescendo negli anni, come riferito dai rapporti di Amnesty International e di Human Rights Watch.

Lo stesso si può registrare per quel che riguarda il fronte con il Libano, invaso già tre volte dalle forze dell’esercito israeliano: nel 1948, dopo l’istituzione dello Stato d’Israele e lo scoppio della prima guerra arabo-israeliana; nel 1978 e nel 1982, quando arrivò ad occupare la capitale Beirut, rea di aver garantito ospitalità al vertice dell’OLP di Yasser Arafat.

È chiaro che, sotto il punto di vista di Gerusalemme, lo Stato ebraico si sente accerchiato e minacciato nella sua esistenza, non riconosciuta dagli Stati confinanti che gli mossero guerra fin dal 1948.

Ad oggi, sono 28 i Paesi su 193 membri delle Nazioni Unite che non hanno riconosciuto lo Stato di Israele. Tra essi, 15 membri della Lega Araba, 10 della Organizzazione della Cooperazione Islamica non Araba e in aggiunta Cuba, Nord Corea e Venezuela. Ricordiamo che Libano, Siria, Iran, Iraq, Arabia Saudita, Oman, Qatar, Kuwait, Yemen, Afghanistan, Pakistan, i paesi dunque confinanti Israele (ad eccezione di Egitto e Giordania) e quelli della penisola arabica e dell’Intero Medio Oriente sono tutti ostili ad Israele.

Gli “Accordi di Abramo” del 2020 prevedevano l’avvicinamento tra l’Arabia Saudita ed Israele, processo bloccatisi con l’attuale escalation.

Nell’ultimo anno il conflitto tra Israele ed alcune di queste Nazioni ha visto gli scenari bellici estendersi oltre Gaza in quanto, quando Hezbollah ha ripreso a bombardare i territori ebraici oltre confine in sostegno di Hamas, l’Iran ha fornito supporto finanziario, militare ed ideologico ai suoi alleati, determinando l’allargarsi del confronto bellico in Libano, in Siria, in Iraq, nello Yemen, nel Mar Rosso.

L’efficacia delle azioni israeliane si è dimostrata vincente nelle azioni belliche oltre confine che hanno portato all’eliminazione del comandante delle forze iraniane Al-Quds, Mohammad Reza Zahedi, con un missile lanciato il 1º aprile sul consolato iraniano a Damasco, di Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, il 31 luglio in un attacco aereo israeliano contro la sua residenza a Teheran e di Hassan Nasrallah, il segretario generale di Hezbollah, il 27 settembre, con il bombardamento su alcune palazzine di Beirut dove era stato individuato il suo nascondiglio.

Senza dimenticare la capacità di intercettare le direttive di Hezbollah che aveva ordinato circa 5.000 cercapersone, dopo che proprio Nasrallah aveva messo in guardia a febbraio contro l’uso dei telefoni cellulari, particolarmente vulnerabili per la loro tracciabilità.  Nel primo pomeriggio del 17 settembre, il Mossad riusciva ad servirsi degli stessi dopo essere riuscito a sabotarli, facendo partire un segnale che avrebbe spinto i loro proprietari ad avvicinare i dispositivi al volto, per poi farli esplodere, provocando 14 morti e 2800 feriti e ulteriori 14 decessi il giorno dopo, mercoledì, tramite lo stesso procedimento nei confronti di walkie-talkie.

Il questi mesi nessun tentativo diplomatico volto a portare al “cessate il fuoco” ha visto un successo, né da parte dell’Egitto o del Qatar, né da parte della UE, e men che meno da parte del principale alleato, che si è precipitato a far convergere un terzo delle navi da guerra della sua Marina Militare, posizionate nel Mediterraneo Orientale, nel Mar Rosso e nel Golfo Persico all’indomani dell’azione di guerra israeliana sull’ambasciata iraniana a Damasco il 1° aprile, per proteggere Tel Aviv dalla reazione di Teheran e che a parole chiede a Netanyahu di fermarsi ma nei fatti continua ad armarlo.

Del resto la standing ovation tributata dal parlamento USA il 24 luglio al Primo Ministro della Knesset ben dimostra da che parte stia Whashington, chiunque sarà a sedere nella Stanza Ovale dopo le prossime elezioni del 5 novembre.

Di contro, la Dichiarazione del 20 maggio 2024 del procuratore della Corte Penale Internazionale in cui si richiede mandato d’arresto per Yahya Sinwar, Mohammed Diab Ibrahim Al-Masri (Deif), Ismail Haniyeh (ucciso dall’Idf il 31 luglio) e per Yoav Gallant e per lo stesso Benjamin Netanyahu, è solo l’ennesima pagina che dimostra come gli organismi sovranazionali, l’ONU su tutti, vengano di fatto delegittimati dagli Stati che ritengono di non ratificare le loro risoluzioni.

Di fatto, lo Stato di Israele detiene un record non toccato da alcuna altra Nazione in quanto a risoluzioni ONU non ratificate, oltre 70, dal 1951 ad oggi: precisamente tutte le risoluzioni che hanno avuto come oggetto il tentativo di dare una soluzione alla ultra settantennale “questione palestinese”.

Nell’ultimo anno, lo scontro tra Israele e l’ONU è stato lampante su tutti i canali, diplomatici e non, culminati con le accuse rivolte da Netanyahu il 27 settembre contro l’Organizzazione guidata da Antonio Guterres proprio nel Palazzo di Vetro, durante il suo discorso nell’Aula delle Assemblee Generali visibilmente svuotata per l’assenza di alcune delegazioni che l’avevano lasciata prima del suo intervento.

Ricordiamo qualche numero: 1139 le vittime israeliane di Hamas nell’attacco ai Kibbuz il 7 ottobre 2023; 251 israeliani rapiti da Hamas nello stesso raid; 131 sono stati liberati, di cui 104 nell’ambito di scambi e prigionieri durante la tregua di una settimana nel novembre 2023; 43 ostaggi sono deceduti per circostanze diverse, uccisi dai loro custodi o sotto i bombardamenti israeliani; 77 sono ancora ostaggi.

41.595 i morti palestinesi, ad oggi, a Gaza. 492 nell’ultimo fronte aperto in Libano contro Hezbollah.

Si calcola che a Gaza siano circa 14mila bambini fra le vittime, 6mila i miliziani, il resto donne e civili.

Posto che i dati sui numeri palestinesi, calcolati dal Ministero della Salute di Gaza, organismo controllato da Hamas, siano evidentemente di difficile verifica dall’esterno e siano dunque contestabili, è indubbio che la catastrofe umanitaria è sotto gli occhi di tutti, denunciata dall’ONU e tragicamente attuata dalle forze dell’Idf.

Si aggiunga che 163 operatori umanitari sono stati uccisi dalle operazioni militarie israeliane a Gaza secondo la denuncia dell’ONU.

Nonostante auspici, richiami ed inviti, da parte del Vescovo di Roma come da parte di altri attori delle diplomazie nazionali, è molto difficile prevedere il termine dell’attuale conflitto.

È molto probabile che ci siano ancora dolorosi capitoli in via di scrittura, che vedranno Tel Aviv e Teheran scambiarsi colpi di missili in maniera letale.

Quel che si può prevedere è soltanto che l’auspicata “risoluzione” della questione palestinese, che per l’ONU e per la maggior parte delle diplomazie nazionali passa da una costituzione di uno Stato Arabo in Palestina e dunque dalla pressione verso un duplice riconoscimento diplomatico da parte di tutte le Nazioni, dello Stato di Israele dopo oltre 70 anni e di uno Stato che abbia verosimilmente in Gaza la sua capitale, non vedrà alcuno sviluppo.

Israele da oltre 70 anni ritiene irricevibile tale soluzione, “a motivo della sua sicurezza nazionale”.

Per i figli di Abramo c’è un’altra soluzione: una seconda e definitiva nakba. In alternativa, uno smantellamento programmato. Se non volete chiamarlo “genocidio”, domandatevi in che condizioni vivano i palestinesi da decenni e in particolare da un anno a questa parte. Per poter annientare Hamas (e a seguire Hezbollah… di Teheran poi si vedrà…) bisogna necessariamente annientare con le armi e con la fame tutta la sua popolazione.

Quel che si è consumato ad Auschiwitz si perpetua oggi a Gaza.

Chissà se il Dio di Abramo approva!

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C’è spazio per gli oppressi?

26 Settembre 2024

Un grido di liberazione dal Giubileo 2000 arriva in questo tempo cupo


Una protesta del movimento sudafricano Abahlali baseMjondolo (“Coloro che vivono nelle baracche”) nella provincia KwaZulu-Natal

Se papa Francesco pone la speranza come tema e orizzonte per il prossimo Giubileo da celebrare con cattolici e chi altri voglia nel 2025, la risposta per molti è: “Sì!”. La speranza resta un dono e una virtù data a tutti, dunque, anche a coloro che sono soggetti a contesti e regimi di “oppressione”. Semmai, la domanda, che rischia purtroppo di essere retorica, è: “c’è giustizia per gli oppressi?”

Memorie giubilari. Il 9 e il 10 settembre del 2000 ho partecipato al convegno, promosso dai padri Comboniani nel palazzetto dello sport di Verona, denominato: “Giubileo degli oppressi. Non solo utopia. Per un Millennio senza esclusi”. Di quel convegno sono tuttora rintracciabili le relazioni in rete1.

Ora, ventiquattro anni dopo, ho rintracciato le audiocassette di quelle relazioni e l’idea è stata di condividerle in rete per metterle a disposizione di tutti2, anche in vista di questo prossimo Giubileo, che speriamo possa essere una “vetrina” per riprendere anche le tematiche qui presentate. In effetti, il fondamento biblico dell’Anno Giubilare, questo propone: un anno di “liberazione per gli schiavi”, così come Gesù di Nazareth, leggendo nella Sinagoga il passo del profeta Isaia che presenta questo “Anno santo”, ne proclama il “compimento” legandolo alla sua persona e alla predicazione del suo messaggio evangelico.

Ventiquattro anni fa erano questi gli obiettivi raccolti e proposti al Convegno: assegnazione delle terre ai piccoli contadini, liberazione dalle condizioni di schiavitù, proposta di remissione/cancellazione del debito estero.

Ripercorriamo i contenuti di quelle relazioni.

Tomàs Balduino (1922-2014), Vescovo brasiliano, presidente della Commissione Pastorale per la terra della Conferenza Episcopale Brasiliana, presenta la realtà di sfruttamento del grande latifondo, gli ostacoli alla riforma agraria, la lotta per i diritti sociali dei contadini, la repressione violenta e gli omicidi da loro subiti. Oggi potremmo aggiornare questi drammi aggiungendo gli omicidi subiti dagli indigeni dell’Amazzonia in difesa delle loro foreste, abbattute in maniera industriale per le logiche del libero mercato3.

Anche Scholastica Kimanga da Nairobi ci racconta il percorso compiuto dalle popolazioni cui è stata sottratta la terra, il loro movimento perché venga loro riconosciuta questa terra per poter vivere dei suoi frutti.

Susan George, presidente dell’Osservatorio sulla Globalizzazione, analizza le storture, dati alla mano, delle politiche della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio che, soprattutto attraverso fenomeni come quello del debito estero, costringe le Nazioni e le popolazioni del “Sud del mondo” ad un impoverimento sempre più diffuso. Sarebbero necessarie nuove politiche ed una nuova strategia per l’economia mondiale.

Francesco Gesualdi, allievo di don Lorenzo Milani e direttore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo, con una relazione magistrale quanto accorata, ci ricorda che gli attuali fenomeni dell’impoverimento della stragrande maggioranza dei popoli a livello mondiale (circa tre miliardi di persone vivono in povertà assoluta, con meno di un dollaro e mezzo al giorno a disposizione per la sussistenza) sono ormai note, come note sono le strade per affrontarle e cercare di risolverle. Ed elenca gli obiettivi e le azioni di resistenza e di desistenza.

La testimonianza di Alex Zanotelli e le domande ai relatori con le relative risposte arricchiscono il dibattito.

Giancarlo Caselli fa un quadro sulla drammatica presenza di immigrati nelle carceri italiane che a livello percentuale numerico ci dice che le politiche di integrazione non sono propriamente lungimiranti. Anche i centri di accoglienza sono, in realtà, delle vere e proprie carceri. Oggi le politiche europee, nordamericane, australiane e italiane si richiamano a una esternalizzazione dei confini, al respingimento, all’innalzamento di muri e ad una crescente xenofobia, senza lavorare sulle cause drammatiche che alimentano i flussi migratori.

Luigi Ciotti nella sua relazione ci ricorda che tutti siamo pronti a parlare di giustizia, di solidarietà, di integrazione sociale, ma i problemi restano drammatici e le politiche per affrontarli del tutto insufficienti.

Nella mattina del 10 un duetto inedito tra Alex Zanotelli e Beppe Grillo, allora non ancora fondatore del futuro Movimento politico sul tema: “Nord/Sud: la realtà, le provocazioni, i sogni”. Moderatore Jean-Léonard Touadi (congolese, giornalista RAI).

Il compito di fare sintesi dei lavori e tracciare le proposte per cammini concreti viene affidato all’intervento di padre Alex Zanotelli. Chiude il convegno un appello finale alle istituzioni e alla società civile italiana.

Oggi, a distanza di ventiquattro anni la speranza sempre viva indicata da papa Francesco per il prossimo Giubileo chiede di confrontarsi con la sete di giustizia che sale come un grido dai “popoli della fame”, come li chiamava Paolo VI nella Populorum Progressio. Che il Giubileo possa davvero essere una finestra per dar voce agli oppressi del nostro tempo

1 https://www.giovaniemissione.it/mondo/verona.htm

2 https://youtube.com/playlist?list=PLHB4t-Wq4_J6df5YXnPpXW1ym6BSC1kw1&si=YMzJc3NJZNbtMXqo

3 https://youtube.com/playlist?list=PLHB4t-Wq4_J6FUYuu82kGdEWHzUi-nC-m&si=9gt8hdLQ2Klp5Hcj

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Ancorati alla speranza

27 Settembre 2024

La dimensione teologica, temporale e dialogica della speranza secondo San Paolo nella Lettera ai Romani

Venerdì 20 settembre con l’Assemblea diocesana per l’inizio dell’anno pastorale presieduta dal vescovo mons. Gianrico Ruzza, ha avuto inizio il cammino delle diocesi di Civitavecchia-Tarquinia e di Porto-Santa Rufina (1).

“Ancorati alla speranza” è stato il tema svolto da Don Antonio Landi, docente di sacra Scrittura presso la Pontificia Università Urbaniana che ha illustrato quel che l’apostolo Paolo ci trasmette nella Lettera ai Romani.

“La speranza è un rischio da correre, il rischio dei rischi” diceva Georges Bernanos.

Il contesto dello scenario politico, culturale e sociale odierno, a partire dagli oltre 100 conflitti (non solo Ucraina e Palestina) in corso nel mondo è particolarmente doloroso.

L’antico adagio recita: “Spero, promitto e iuro richiedono tutti il participio futuro!”

Se gli scenari attuali sono davvero così compromessi c’è davvero spazio per la speranza?

L’immagine dell’àncora, che la simboleggia, ci richiama ad un oggetto che deve dare stabilità alla nave.

Dobbiamo cercare di essere “ancorati nel futuro”.

Importante è il contributo delle religioni per la solidarietà verso i poveri e gli emarginati e per l’apertura verso questo “futuro”.

La speranza ha un potenziale sovversivo.

Un modo diverso di concepire la realtà può essere qualcosa di sovversivo.

Quando ciascuno di noi era un ragazzo, avrebbe voluto cambiare il mondo. Crescendo, ognuno di noi ha rinunciato a quest’anelito.

Dobbiamo capire che non possiamo cambiare il mondo ma che dobbiamo invece cambiare il modo di approcciarci alla realtà.

Siamo passati dalla cultura dell’ateismo alla cultura dell’homo-deus.

Io sono dio e di Dio posso fare a meno.

Protagora diceva che homo mensura verum: l’uomo è misura di tutte le cose.

Oggi parliamo di autoreferenzialità, parliamo di relativismo ma già Protagora sosteneva questo.

Per Benedetto XVI adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. La speranza come ancora è fondata in Cristo, Colui che nel passato ci ha salvati e redenti salendo sulla croce, colui che si fa presente nell’Eucarestia, nella Parola, nella Comunità.

“La vera grande speranza dell’uomo può essere solo Dio”. (SPE SALVI n. 27)

Jurgen Moltmann ha rivelato che in nessun’altra religione del mondo Dio si lega alla speranza del futuro.

La speranza cristiana non è attesa di qualcosa di nuovo ma è disponibilità ad accogliere Colui che fa nuove tutte le cose.

Speranza cristiana è prendere coscienza di essere attesi, non di attendere.

Proviamo ad analizzare il nostro linguaggio relativo alla partecipazione della messa domenicale.: “io vado a messa, vado ad ascoltare la messa, vado a partecipare alla messa”. Ci è mai balzato alla mente, al cuore che c’è Cristo ad accoglierci?

Nella lettera ai Romani la speranza del credente è radicata in Dio e deve sostanziare la sua appartenenza alla vita cristiana. La speranza cristiana non è la panacea, non è rassegnazione, il suo contrario è la disperazione.

Paolo è l’autore del NT che dedica più testi alla speranza.

Mai nei Vangeli Gesù è il soggetto della speranza.

Attorno a lui si coagula chi attende e chi spera.

La speranza ha un’intrinseca dimensione teologica, pone il suo fondamento nell’intervento di Dio nella storia.

Secondo aspetto: l’attesa, che è fondata sull’intervento di Dio nella storia è fondata nel tempo.

C’è un patto che si estende dal passato al futuro.

Terza dimensione: la speranza è dialogica: si spera insieme.

Perché concede all’uomo di infrangere la cortina che ci separa da Dio, dagli altri, da noi stessi.

La speranza è dunque contraddistinta, nell’analisi paolina, di queste tre dimensioni: TEOLOGICA, TEMPORALE, DIALOGICA.

Dobbiamo considerare che la speranza è l’antidoto ad uno dei mali del secolo: l’egoismo che porta alla disperazione, il narcisismo.

Prendiamo in esame alcuni passaggi della Lettera ai Romani

1)     Abramo: sperare contro ogni speranza; la destinazione universale della salvezza (Rm 4); la figura di Abramo assume valore paradigmatico per tutti coloro che sono giustificati non per le opere ma per la fede. Dio gli concede quella discendenza. Abramo per Paolo è la figura del credente non gentile che non ha bisogno della circoncisione. “Abramo credette e gli fu addebitato per giustizia” (CEI: saldo nella speranza contro ogni speranza; stretto legame tra fede e speranza; Sara era sterile ma Abramo si fida di Dio).

2)     Rm 18, 1 – 2,20; 3,21-5,21: la speranza è connessa all’ingresso nella grazia di Dio attraverso Cristo che azzera la distanza creata dal peccato tra gli uomini e Dio. Nella concezione biblica la gloria di Dio indica la sua presenza. Il Dio della compassione, non il Dio adirato. Né il Dio adirato né il Dio misericordioso sono in grado di parlare al cuore del nostro popolo. Dobbiamo parlare a loro.

Si noti bene: l’affermazione “la speranza non delude” altro non significa che: “la speranza non fa vergognare”. Onore e vergogna erano i due parametri di giudizio nell’antichità. Io non mi vergogno del Vangelo. Dio ha dimostrato il suo amore per gli uomini mentre eravamo ancora peccatori. Dio ha donato il suo figlio. Non è un caso che i riti d’ingresso propongano l’atto penitenziale; e che queste parole vengano pronunciate prima della comunione: “o Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa…”

3)     “Nella speranza siamo salvati”. L’intera creazione è protesa verso il suo compimento.

In Rm 8 c’è una solidarietà profonda tra creatore, creato e creatura. Dominare il creato non significa essere despoti sul creato ma è invece necessario renderne conto a Dio. Quella della LAUDATO SI’ non è una semplice svolta ecologica ma è la ripresa del dettato genesiaco e della felicissima intuizione di Paolo in Rm 8. “Nella speranza siamo stati salvati” (Rm 8,24). Ciò che appare invisibile e intangibile nel presente.

4)     “Lieti nella speranza” In Rm 12-15 c’è la componente etica della vita cristiana. Attenzione a non conformarci allo spirito del mondo. Il tempo di discernimento rischia di essere un tempo perso se non viene vissuto con la novità della vita nuova. Non dobbiamo rinnovare le strutture ma le persone. L’apostolo invita a vivere la carità senza la doppiezza. Non c’è spazio per l’invidia ed è bandita ogni forma di protagonismo che mortifica il prossimo. Gareggiate nello stimarvi a vicenda. Lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera.

5)     Avere da Dio la speranza. Le comunità cristiane di Roma affrontavano tensioni tra i forti e i deboli. È necessario spegnere il fuoco di ogni vanto personale. QUANDO NOI CAPIREMO CHE NON DOBBIAMO RIVENDICARE RUOLI MA DISCERNERE CARISMI capiremo che la parrocchia non è il luogo di esibizione di me stesso ma il luogo dove con gli altri sono al servizio. Io so che nulla è impuro in sé stesso e dunque per non turbare un fratello che lo crede lo rispetterò (la questione delle carni offerte agli idoli). Qui il criterio non è la sapienza ma la carità che ha rispetto del fratello. Paolo fa appello ai forti che devono sostenere i deboli senza compiacere sé stessi.

La speranza non è il premio. È il Dio della speranza che fa traboccare il cuore. Concludendo: per Paolo la fede operosa, la carità fattiva e la speranza salda sono le caratteristiche del credente che egli illustra alla comunità di Tessalonica. L’attesa è un atto di condizionata fiducia in Dio.

Chiude con il suo intervento Mons. Ruzza:

“Perché parlare della speranza? Il Giubileo può essere occasione per tutti per riscoprire la speranza. Bisogna innalzare lo sguardo in alto.

Siamo rigenerati ma rispetto a che cosa?

Abbiamo tutti bisogno di rinascere dall’alto per dare una prospettiva eterna ai nostri pensieri e ai nostri desideri. In SPE SALVI il futuro è la relazione con il Signore Gesù.

Credere questo non è un’opzione e non è nemmeno una proiezione onirica.

Io chiedo: le nostre attività che respiro hanno?

Moltissimi giovani non sono attratti e non si sentono interpellati dalle nostre comunità.

Forse il nostro linguaggio a loro non dice nulla.

Forse la loro ricerca è più orientata al mondo social.

La quotidianità che loro vivono corre il rischio di collocarli in una noia pericolosa.

Un’eredità che non si macchia e non marcisce

Dinanzi alle grandi sfide del nostro tempo come i conflitti rimaniamo inerti

Relazioni di pace e di carità autentiche.

Voglio e devo credere che queste persone possano credere nella vittoria di Cristo.

Dobbiamo riflettere sulla vita eterna che ci attende.

È necessario riscoprire la dimensione escatologica della nostra esistenza cristiana

La fraternità fra i viventi è l’unica risposta ai conflitti. Ricerca di unità, condivisione, solidarietà, pace.

Partecipare alla vita civile è l’invito a noi consegnato dalla Settimana Sociale di Trieste.

SPE SALVI: la vera grande speranza dell’uomo può essere solo Dio.

Non possiamo separare la fede dalla speranza.

Porre tutta la speranza in Cristo vigilanza e sobrietà.

Fede è sostanza della speranza.

Concludiamo con le parole di San Francesco d’Assisi: “Dammi una fede retta, speranza certa, carità perfetta”.

(1)   http://www.diocesiportosantarufina.it/home/news_det.php?neid=4941

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Giubileo “centrifugo”: l’ascolto di Francesco

Quello di Francesco è un magistero sociale nei gesti prima che nei documenti e già la scelta del suo nome ne aveva delineato il programma

29 Agosto 2024

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Teologia

ascoltodottrina socialeLaudato sìpapa francescosan Francesco

Francesco era un ascoltatore.
Ascoltò la voce di Dio.
Ascoltò la voce dei poveri.
Ascoltò la voce degli ammalati e quella della natura.

Con queste parole, riferite al poverello di Assisi e pronunciate da papa Francesco in una sequenza del documentario “The letterfilm.org”, vorrei aprire questa riflessione sul contributo – che è sotto gli occhi di tutti noi – offerto dal Vescovo di Roma venuto dall’altra parte del mondo ad un Giubileo che sia davvero “centrifugo”.

Rivedere questa sequenza mi ha portato alla mente le parole di Giovanni che sono un invito alla comunità dei credenti: “Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese” (Ap 2-3). Non solo il credente, come Francesco, deve mettersi in ascolto della voce di Dio. La stessa Chiesa cattolica, con la Costituzione Conciliare Gaudium et Spes si è voluta mettere in ascolto del mondo, degli uomini e delle donne che sono i destinatari dell’amore di Dio annunciato da Gesù di Nazareth ma che devono essere ascoltati e accolti prima di qualsiasi proposta cristiana.

Ritengo che quello del Vescovo di Roma venuto dall’Argentina sia un Magistero  profondamente caratterizzato dalla dimensione sociale, nei gesti prima ancora che nei Documenti. Come non dimenticare il suo primo viaggio apostolico fuori del Vaticano a Lampedusa? L’attenzione agli ultimi e il desiderio di indirizzare tutti noi a questo focus, inizia da qui. E poi, in oltre dieci anni di Ministero, tanti altri momenti ed eventi segnati da queste coordinate:

  • L’istituzione della “Giornata Mondiale dei poveri” che precede quella di Cristo Re;
  • Il pellegrinaggio ai luoghi di vita dei testimoni del XX secolo quali don Lorenzo Milani, don Primo Mazzolari e don Tonino Bello;
  • La scelta di celebrare il gesto della lavanda dei piedi del Giovedì Santo nelle carceri;
  • L’incontro con i movimenti popolari e il loro programma-solgan fondamentale dei diritti da realizzare: “terra, casa, lavoro”;
  • La proposta di vie nuove per un’economia più attenta allo sviluppo integrale dell’uomo, sfociata nei percorsi di The Economy of Francesco;
  • I suoi gesti e le sue scelte più personali, come quelle di vivere a Santa Marta e non nel Palazzo Apostolico, di rinunciare alle ferie a Castel Gandolfo, di rinunciare al suo stipendio, di farsi vicino a varie persone attraverso delle telefonate, di fare il “Vescovo di Roma” con la visita alle parrocchie della Diocesi;
  • Le sue “parole d’ordine”: “Chiesa in uscita”, “Chiesa ospedale da campo” “globalizzazione dell’indifferenza”;
  • L’istituzione di un altro Giubileo, quello della Misericordia, celebrato il 2015, e iniziato con il segno di decentrare il focus da Roma al mondo, con l’apertura della porta Santa a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana;
  • Il suo utilizzo dei media, particolarmente sentito durante le celebrazioni a Santa Marta durante la chiusura del lockdown durante la pandemia di Covid-19;
  • La sua scelta interessante di rivolgersi ai bambini per dare un segno agli adulti, così come il suo predecessore Giovanni Paolo II fece, “inventando”, a suo tempo, le “Giornate Mondiali della Gioventù”;
  • Il suo percorso di dialogo ecumenico con le Chiese Riformate ed Ortodosse e l’istituzione dell’”Alto Comitato per la Fratellanza umana” per un dialogo che abbracci gli uomini delle Religioni e non.

Sono evidenti dunque le linee di sviluppo che portano il Magistero di Francesco a porsi in continuità con le indicazioni del Concilio Vaticano II e quelle del Magistero Sociale della Chiesa prodotte dai documenti sociali dei suoi predecessori.

Purtroppo le sue denunce verso i molteplici mali prodotti dall’uomo –  commercio delle armi, speculazione finanziaria, violazione dei diritti umani fondamentali – accompagnate ai suoi continui appelli perché taccia la via delle armi e si cerchino soluzioni di pace (in Ucraina, Israele e Palestina, Myanmar, Yemen, Sudan, ecc.) sono apprezzate, ma di fatto inascoltate (vedi qui).

Sicuramente il documento sociale di più grande significato è la Laudato Sii, la prima enciclica sui temi dell’ecologia, che rileva in maniera chiara come siamo ad un “punto di non ritorno”, chiamati a compiere scelte indifferibili come comunità nazionali ed internazionali per la salvaguardia della “Casa comune”.

L’invito ai protagonisti del cambiamento presenti nel documentario “The letter.org” è una chiara indicazione. Occorre una collaborazione ed una connessione tra i movimenti popolari, tra i movimenti dei giovani, tra gli scienziati e tra i poveri del mondo, con i cui occhi è possibile leggere le realtà e lavorare ai necessari cambiamenti. Con la speranza, nel cui orizzonte teologale Francesco ci invita a vivere il prossimo Giubileo, che siano realizzati attraverso la nostra propensione a vivere le dinamiche di un Giubileo veramente “centrifugo” .

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Giubileo “centrifugo”: dov’è il bene comune? – 2

Rileggere la “Caritas in veritate” di Benedetto XVI in vista del Giubileo, permette di richiamare il mondo verso alcune proposte di soluzione legate al problema della realizzazione del “bene comune”

19 Agosto 2024

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Teologia

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Dopo aver visto (qui) l’analisi condotta da Benedetto XVI nella prima parte dell’enciclica Caritas in veritate, proviamo ora a seguire alcune soluzioni che il pontefice tedesco reputa necessarie.

In primo luogo, le scelte economiche devono avere come risultato il non fare aumentare in modo eccessivo le differenze di ricchezza tra gli esseri umani ed è necessario che il primo obiettivo sia l’accesso al lavoro e il suo mantenimento per tutti, con un «giusto salario», «sicurezza» e «dignità» (63; cfr. anche 64 circa il rapporto negazione diritti lavoratori-consumismo). A ben vedere le esigenze di un tale sviluppo non sono solo quelle della giustizia, ma anche quelle propriamente economiche: le ineguaglianze non solo portano a problematiche sociali e a mettere in pericolo la democrazia, ma hanno anche una ricaduta economica con lo spreco delle risorse umane: «l’appiattimento delle culture sulla dimensione tecnologica, se nel breve periodo può favorire l’ottenimento di profitti, nel lungo periodo ostacola l’arricchimento reciproco e le dinamiche collaborative» (32).

Nel terzo capitolo dell’enciclica Benedetto XVI richiama delle prospettive che sembrerebbero “fuori del mondo”, invitandoci a riscoprire, nel campo dell’economia, le prospettive del dono e della gratuità, espressioni della sua dimensione di trascendenza (34). È un errore far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale. La dottrina teologica del peccato originale è in grado di dare corretta interpretazione alle varie derive sociali, giacché «Ignorare che l’uomo ha una natura ferita, incline al male, è causa di gravi errori nel campo dell’educazione, della politica, dell’azione sociale e dei costumi» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 407; cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 25: l.c., 822-824).

Molto chiaro è anche il giudizio che Benedetto XVI dà del mercato: un luogo di incontro e relazione tra le persone, per confrontare domande e offerte, realizzando la cosiddetta giustizia commutativa quella che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere. La dottrina sociale della Chiesa da sempre invita alla realizzazione della giustizia distributiva e della giustizia sociale che propone alla stessa economia di mercato, la quale non deve farsi vincere dalla tentazione egoistica e di sopraffazione (36). Senza le forme di solidarietà proprie di questi due altri aspetti della giustizia, il mercato perde la fiducia da parte degli attori sociali. Lo sviluppo dei “popoli della fame” indicato da Paolo VI, doveva portare ad una gestione più vantaggiosa anche per la stessa economia di mercato (35).

La giustizia deve riguardare tutte le fasi dell’attività economica dalla produzione al consumo, ogni fase comporta scelte le cui implicazioni sono moralmente rilevanti (37). Mi vengono in mente le varie campagne di boicottaggio promosse nei confronti di aziende i cui prodotti erano realizzati con lo sfruttamento del lavoro e in particolare con quello del lavoro minorile. Se nella Centesimus annus Giovanni Paolo II aveva rilevato la necessità di un sistema a tre soggetti: il mercato, lo Stato e la società civile, per Benedetto XVI gli aspetti propri di un’economia della gratuità e della fraternità, realizzate da soggetti che liberamente scelgono di informare il proprio agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza per ciò stesso rinunciare a produrre valore economico, devono essere presenti non solo nella società civile, ma anche negli ambiti del mercato e delle leggi dello Stato: questi aspetti di gratuità, solidarietà e responsabilità per la giustizia e il bene comune possono essere definiti una “democrazia economica” (39).

Benedetto XVI parla dell’impresa, delle problematiche morali legate alla delocalizzazione delle attività produttive, della consapevolezza della necessità di una più ampia “responsabilità sociale” della stessa. L’impresa non può tener conto degli interessi dei soli proprietari ma deve farsi carico anche dei lavoratori, dei clienti, della comunità sociale di riferimento. È fuorviante ritenere che investire sia solo un fatto tecnico e non anche umano ed etico (40).

Fondamentale, poi, è che il fenomeno della globalizzazione, con la sua interconnessione ed interdipendenza di persone ed intere società, sia colto nella diversità e nell’unità di tutte le sue dimensioni, compresa quella teologica. Ciò consentirà di vivere ed orientare la globalizzazione dell’umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione (42). Bisogna considerare che è sbagliato attribuire alla crescita demografica la responsabilità prima del permanere del sottosviluppo. I casi dei “paesi emergenti” che hanno grande presenza demografica lo dimostrano. Per cui è importante promuovere la difesa della vita e della famiglia (44). Per quel che riguarda il sistema delle certificazioni etiche, con la finanza etica, il microcredito, la microfinanza è essenziale un discernimento ed un controllo sulla veridicità di ogni realtà che si propone come tale (45).

Affinché i progetti di sviluppo abbiano successo, è necessario il coinvolgimento dei popoli interessati e delle persone concrete a livello della società civile. Mentre, nella cooperazione internazionale, non possono mancare la solidarietà della presenza, dell’accompagnamento, della formazione e del rispetto. Gli stessi Organismi internazionali dovrebbero interrogarsi sulla reale efficacia dei loro apparati burocratici e amministrativi, spesso troppo costosi (47).

Già per Benedetto XVI era Importante la tematica dell’ambiente naturale, la questione ecologica, essendo la natura «opera mirabile del Creatore, recante in sé una “grammatica” che indica finalità e criteri per un utilizzo sapiente, non strumentale e arbitrario», ma sempre in un rapporto ordinato (teologicamente) con l’essere umano, pena la ricaduta in «atteggiamenti neopagani o di nuovo panteismo» (48). Le problematiche legate all’accaparramento delle risorse energetiche non rinnovabili con lo sfruttamento di materie prime presenti nei paesi poveri e i costi economici e sociali derivanti dall’uso delle risorse ambientali comuni ci deve chiamare a rivedere i nostri stili di vita nel contenimento dei consumi (49), causa anch’essi della «desertificazione e l’impoverimento produttivo di alcune aree agricole» (51).

Nell’ultima parte dell’enciclica, molto interessante l’affermazione di apertura che presenta la solitudine come una delle più profonde povertà che l’uomo può sperimentare. Già Paolo VI affermava che «il mondo soffre per mancanza di pensiero». L’idea che i popoli della terra posano essere accomunati da una fratellanza come un’unica grande famiglia richiede un lavoro di integrazione nel segno della solidarietà e questo comporta l’apporto non solo delle scienze sociali ma anche di saperi come la metafisica o la teologia. In campo cristiano, la teologia trinitaria ispira la chiamata per la Chiesa e la proposta all’umanità di percorsi che promuovano l’unità nella molteplicità (53).

Da notare e denunciare come, accanto alla via delle religioni che insegnano la fratellanza e la pace, risultando di enorme importanza per lo sviluppo umano integrale, «il mondo di oggi è attraversato da alcune culture a sfondo religioso, che non impegnano l’uomo alla comunione, ma lo isolano nella ricerca del benessere individuale, limitandosi a gratificarne le attese psicologiche. È necessario dunque un adeguato discernimento (55).

Si ribadisce che la dottrina sociale della Chiesa invita a lavorare su tutte le dimensioni che riguardano le dinamiche umane: le dimensioni culturale e religiosa, oltre che sociale, economica e politica (56; 59). Molto importante l’utilizzo del principio di sussidiarietà, che va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa (57-58). Interessante anche la via della cosiddetta sussidiarietà fiscale, che permetterebbe ai cittadini di decidere sulla destinazione di quote delle loro imposte versate allo Stato (60). Così come l’accenno al turismo internazionale che, pur potendo essere fattore di crescita economica e culturale, a volte viene concepito in modo consumistico ed edonistico, con i suoi corollari di sfruttamento, non ultimo quello dovuto al turismo sessuale (61).

Un altro aspetto meritevole di attenzione, trattando dello sviluppo umano integrale, è il fenomeno delle migrazioni, un fenomeno sociale di natura epocale, che richiede una forte e lungimirante politica di cooperazione internazionale per essere adeguatamente affrontato: nessun Paese da solo può ritenersi in grado di far fronte ai problemi migratori del nostro tempo (62).

Fondamentale che la finanza operi eticamente non più e non solo per il conseguimento dei profitti, ma in un’ottica di attenzione al bene comune nella giustizia sociale, nell’ottica di un effettivo sviluppo dei popoli. Sono necessari, quindi, dei controlli che impediscano le scandalose speculazioni, così come è necessaria la difesa dall’usura e la promozione del microcredito (65) o, per educare il consumatore, forme di «cooperazione all’acquisto» (66). Necessario, infine, riconoscere come sia urgente la riforma di una Organizzazione delle Nazioni Unite che possano operare in maniera più efficacie per garantire a livello internazionale la realizzazione reale delle condizioni necessarie ad un autentico sviluppo integrale di ogni uomo e di tutti gli uomini (67).

In chiusura dell’enciclica (68-77), per la prima volta un Pontefice affronta il tema della tecnica e del suo utilizzo inerente allo sviluppo dei popoli. Se volessimo, dopo 15 anni dalla Caritas in veritate, attualizzare questi numeri, potremmo parlare dello sviluppo odierno dell’intelligenza artificiale e del dibattito scientifico che ne sta parlando: «oggi la mentalità tecnicistica fa coincidere il vero con il fattibile. Ma quando l’unico criterio della verità è l’efficienza e l’utilità, lo sviluppo viene automaticamente negato» (70). Per questo l’enciclica si conclude con un’affermazione teologica che riassumeo bene l’approccio seguito e consigliato da Benedetto XVI: «Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l’autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. Perciò anche nei momenti più difficili e complessi, oltre a reagire con consapevolezza, dobbiamo soprattutto riferirci al suo amore. Lo sviluppo implica attenzione alla vita spirituale, seria considerazione delle esperienze di fiducia in Dio, di fraternità spirituale in Cristo, di affidamento alla Provvidenza e alla Misericordia divine, di amore e di perdono, di rinuncia a sé stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace» (79).

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Giubileo “centrifugo”: dov’è il bene comune?

Rileggere la “Caritas in veritate” di Benedetto XVI in vista del Giubileo, permette di richiamare il mondo verso alcune analisi legate al problema della realizzazione del “bene comune”

14 Agosto 2024

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Teologia

Con la sua enciclica Caritas in veritate Benedetto XVI cita, riprende e ripropone in una sintesi attualizzata al nuovo contesto della globalizzazione le encicliche sociali di Paolo VI (Popolorum progressio e Octogesia adveniens) e di Giovanni Paolo II (Laborem exercensSollicitudo rei socialisCentesimus annus).

Nell’introduzione Benedetto XVI descrive le direttive propulsive di ogni azione morale che sono la carità nella verità, “la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera” (1), insieme a due criteri orientativi, tra gli altri, quali la giustizia e il bene comune.

Se Paolo VI affermò che la giustizia è “la misura minima della carità”, in quanto la carità esige la prima, quale “riconoscimento e il rispetto dei legittimi diritti degli individui e dei popoli”, dobbiamo riconoscere che la carità supera la giustizia stessa, perché non si ferma ai rapporti normati dai diritti e dai doveri, ma arriva a relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione, completando l’esigenza della giustizia con la logica del dono e del perdono (6).

Queste parole mi hanno riportato alla memoria del discorso del giovane angolano Domingos, il quale, davanti a Giovanni Paolo II e due milioni di giovani nella veglia della GMG a Roma nel 2000, aveva affermato che l’unica via per dare una svolta al conflitto civile nel suo paese lui la coglieva nella volontà di concedere perdono agli uccisori di suo fratello: «volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità. È questa la via istituzionale — possiamo anche dire politica — della carità, non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis. In una società in via di globalizzazione, il bene comune e l’impegno per esso non possono non assumere le dimensioni dell’intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle Nazioni» (7).

Citando Paolo VI, in quella che definisce «la Rerum novarum dell’epoca contemporanea», ne ricorda l’affermazione fondamentale in Populorum progressio: l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo, quello che conduce ad uno sviluppo umano integrale (8). La Chiesa non ha soluzioni tecniche né pretese ad intromettersi nella politica degli Stati, ma una missione che la guida: la fedeltà all’uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà (Gv 8,32) e della possibilità di uno sviluppo umano integrale. Con la sua dottrina sociale, al servizio della verità che libera, può aiutare un’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano nelle sfide emerse in un mondo di progressiva e pervasiva globalizzazione (9).

Nel primo capitolo l’enciclica richiama il messaggio della Populorum progressio, nel suo legame con il Concilio Vaticano II e in particolare con la Costituzione pastorale Gaudium et spes.

Due grandi verità sono comunicate in questa lettera. La prima è che tutta la Chiesa, quando annuncia, celebra e opera, è tesa a promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo. La seconda verità è che l’autentico sviluppo dell’uomo riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione. Non la sola dimensione “storica”, ma anche la prospettiva di una “vita oltre la vita”. Senza questa, si rischia di ridursi al solo incremento “terreno” dell’avere, perdendo le motivazioni verso beni più alti quali quelli dello sviluppo dei popoli. Un tale sviluppo dipende, dunque, anche dalla dimensione trascendente dell’uomo e, si noti bene, questo è il motivo fondante per il quale le istituzioni non sono in grado da sole di poterlo garantire e realizzare. Lo sviluppo umano integrale è anzitutto vocazione e, quindi, comporta una libera e solidale assunzione di responsabilità da parte di tutti (11; cf. anche 16-18).

Paolo VI comprese chiaramente come la questione sociale fosse diventata mondiale e colse il richiamo reciproco tra la spinta all’unificazione dell’umanità e l’ideale cristiano di un’unica famiglia dei popoli, solidale nella comune fraternità (13). Con la Lettera apostolica Octogesima adveniens (1971), egli trattò il tema del senso della politica e del pericolo costituito da visioni utopistiche e ideologiche che ne pregiudicavano la qualità etica e umana. Dall’ideologia tecnocratica, particolarmente radicata oggi, Paolo VI aveva già messo in guardia (14).

Benedetto XVI cita anche altri due documenti del magistero di Paolo VI, non strettamente connessi con la dottrina sociale, l’Enciclica Humanae vitae (1968) e l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975), le quali inquadrano il legame profondo esistente tra lo sviluppo dei popoli e la difesa della vita umana e tra la promozione umana e l’evangelizzazione (15).

A questo punto, diventa decisivo domandarsi quali sono le cause del sottosviluppo. Per Paolo VI queste non sono semplicemente di ordine materiale. Una delle cause è quella della mancanza di volontà verso l’attuazione della solidarietà e la mancanza di un pensiero volto ad un nuovo umanesimo. La mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli è, oggi come ieri, il drammatico ostacolo alla realizzazione di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, di questo umanesimo integrale. La società globalizzata ci rende sempre più vicini ma questo non ci rende fratelli. La ragione da sola stabilisce le basi per una uguaglianza e una convivenza civile ma questo non basta a fondare una fraternità. Questa ha origine solo dalla dimensione trascendentale che si richiama ad un solo Padre di cui siamo tutti figli: la realizzazione di un’autentica fraternità è dunque necessaria per realizzare lo sviluppo integrale dell’uomo e dei popoli (19).

Nel secondo capitolo della Caritas in veritate Benedetto XVI aggancia il messaggio sullo sviluppo di Paolo VI al contesto del primo decennio del Terzo Millennio, a quarant’anni dalla Populorum progressio. L’analisi del papa bresciano è articolata perché, partendo dall’obiettivo di sconfiggere fame, malattie e analfabetismo (oggi tutto ritorna nell’Agenda ONU 2030), inquadra le dimensioni economica, sociale e politica, auspicando che “i popoli della fame” si affranchino dalle loro “dipendenze” per assurgere come soggetti protagonisti in tutti questi aspetti.

È innegabile che ci sia stato uno sviluppo che ha permesso a miliardi di persone di uscire dalla miseria e a diversi paesi di divenire economie “emergenti”. Ma non possono essere negati gravi distorsioni che provocano drammatici problemi: «le forze tecniche in campo, le interrelazioni planetarie, gli effetti deleteri sull’economia reale di un’attività finanziaria mal utilizzata e per lo più speculativa, gli imponenti flussi migratori, spesso solo provocati e non poi adeguatamente gestiti, lo sfruttamento sregolato delle risorse della terra, ci inducono oggi a riflettere sulle misure necessarie per dare soluzione a problemi non solo nuovi rispetto a quelli affrontati dal Papa Paolo VI» (21).

Indubbiamente, oggi, la linea di demarcazione tra Paesi ricchi e poveri non è più così netta come ai tempi della Populorum progressio. Di fatto, cresce la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità. Nei paesi ricchi aumenta il numero di coloro che cadono in povertà. In quelli emergenti e non ancora emergenti perdurano situazioni di miseria disumanizzante. I diritti dei lavoratori vengono calpestati sia da aziende locali come da grosse multinazionali. Il diritto immateriale di protezione della conoscenza intellettuale, specie in campo sanitario, pone pesanti barriere allo sviluppo da parte dei paesi ricchi nei confronti di quelli poveri (pensiamo alle multinazionali farmaceutiche) (22).

Giovanni Paolo II chiese che, dopo il crollo del sistema del comunismo reale, venisse riprogettato un nuovo modello globale di sviluppo, ma questo non è avvenuto (23). Paolo VI poteva già affermare che la questione sociale era una questione mondiale, ma al suo tempo la gestione dell’economia avveniva in gran parte all’interno delle politiche degli Stati nazionali, oggi superate dall’integrazione mondiale provocata dalla “globalizzazione” (24).

La delocalizzazione della produzione ha avuto la conseguenza di ridurre i sistemi di protezione e di previdenza sociale, con la perdita di lavoro in alcune aree, non raramente accompagnata dallo sfruttamento dello stesso in altre aree. Le stesse organizzazioni sindacali sono divenute sempre meno incisive a causa di questi sviluppi. Con conseguenze negative anche nella sfera psicologica, affettiva e familiare (25) e del rapporto sempre più “eclettico e appiattito” tra culture (26). La fame continua ad essere un fenomeno di cui soffre ancora una parte numerosa dell’umanità. Le sue cause sono in gran parte dovute all’irresponsabilità delle politiche nazionali ed internazionali non impostate sul lungo periodo e senza promozione di politiche agricole e investimenti adeguati a riguardo (27).

Benedetto XVI ritorna anche sulla necessità del rispetto della vita, perché sia garantito un pieno sviluppo dei popoli, denunciando i mali dell’aborto, delle politiche di sterilizzazione e dell’eutanasia (28). Altro aspetto di negazione dell’autentico sviluppo è quello legato alla negazione del diritto alla libertà religiosa. Fanatismo, indifferenza religiosa, ateismo pratico sottrae allo sviluppo dei popoli le loro risorse spirituali ed umane (29).

Paolo VI aveva visto con chiarezza che tra le cause del sottosviluppo c’è una mancanza di sapienza, di riflessione, di pensiero in grado di operare una sintesi. L’eccessiva settorialità del sapere, la chiusura delle scienze umane alla metafisica, le difficoltà del dialogo tra le scienze e la teologia sono di danno non solo allo sviluppo del sapere, ma anche allo sviluppo dei popoli, perché, quando ciò si verifica, viene ostacolata la visione dell’intero bene dell’uomo nelle varie dimensioni che lo caratterizzano. L’«allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa» è indispensabile per riuscire a pesare adeguatamente tutti i termini della questione dello sviluppo e della soluzione dei problemi socio-economici (31).

[1^ parte]

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Giubileo “centrifugo”: il lavoro è per l’uomo!

A quarant’anni dalla “Laborem exercens” è ancora utile domandarsi cosa c’è da fare, dal punto di vista cristiano, per il lavoro ed i lavoratori.

26 Luglio 2024

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Teologia

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Stiamo riprendendo le indicazioni preziose dei vescovi di Roma, attraverso il magistero delle loro encicliche sociali, per poter realizzare un giubileo che sia vissuto in maniera centrifuga.

A Giovanni Paolo II dobbiamo il lascito di tre encicliche sociali: La Sollicitudo rei socialis pubblicata nel ventesimo anniversario della Populorum Progressio di Paolo VI, la Centesimus annus che prende nome e spunto richiamandosi al centenario della prima delle encicliche sociali (la Rerum Novarum di Leone XIII)  e la Laborem exercens, pubblicata dieci anni prima nel novantesimo anniversario della stessa.

La prima di queste sue tre encicliche sociali, quella dedicata al lavoro, ha il merito di inquadrare in maniera teologica, secondo la sua fondazione biblica, un tema fondamentale per la vita dell’uomo nella storia dell’umanità: non dunque solamente “sociale” e specificamente “umano”, ma corrispondente ad una precisa indicazione “divina” che inizia al culmine del racconto sulla creazione in Gn 1,28 e trova come suo massimo esempio l’esperienza dello stesso Gesù come lavoratore:

Il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l’uomo dal resto delle creature, la cui attività, connessa col mantenimento della vita, non si può chiamare lavoro; solo l’uomo ne è capace e solo l’uomo lo compie, riempiendo al tempo stesso con il lavoro la sua esistenza sulla terra. Così il lavoro porta su di sé un particolare segno dell’uomo e dell’umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone; e questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce, in un certo senso, la stessa sua natura (1).

Fondamentale la distinzione tra il lavoro “oggettivo” (visto dallo sguardo della scienza e della tecnica) e “soggettivo” (che riguarda l’uomo come persona e la sua stessa piena realizzazione): il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso, il suo soggetto (6). Dunque, le concezioni che vedono il lavoro come una “merce” escono dall’attenzione al suo valore soggettivo per rimanere intrappolate nella sua visione oggettiva (7).

In tal senso, è importante ricordare storicamente la “questione operaia” o “questione proletaria” (8). Il lavoro, infatti, non produce i soli risultati, materiali od intellettuali che siano, ma “nobilita l’uomo”, realizzandolo più pienamente nella sua umanità, ecco la “dignità del lavoro”. Se è vero che la “laboriosità” è una virtù, bisogna impegnarsi perché moralmente il lavoro aumenti la dignità dell’uomo, senza diminuirla, come avviene nel caso di lavori forzati o sfruttamento dei lavoratori (9). Il lavoro è inoltre il fondamento su cui si forma la vita familiare, la quale è un diritto naturale ed una vocazione dell’uomo (10).

Giovanni Paolo II ricorda, poi, il conflitto tra il lavoro e il capitale, che ha portato storicamente alla contrapposizione tra il liberismo e il collettivismo, con la cosiddetta “lotta di classe”. A tal riguardo, il magistero conferisce un primato al bene che è il lavoro, rispetto al capitale (12). L’antinomia lavoro-capitale è in realtà sbagliata perché i due termini non sono separabili né gli uomini che li rappresentano devono contrapporsi; ma nasce da un pensiero che trae le sue radici nel materialismo che porta all’economismo (13). Decisivo, allora, riconoscere i diritti dei lavoratori: il problema della disoccupazione, il salario, le persone disabili, l’emigrazione legata al lavoro, il ruolo dei sindacati (16-23).

L’enciclica si chiude con la traccia di alcuni elementi per una spiritualità del lavoro. Innanzitutto la sua vocazione di collaborazione all’opera creatrice di Dio; poi, l’esempio di Gesù che ha condiviso l’esperienza del lavoro umano facendola sua per gran parte della sua vita; infine, la luce che viene all’esperienza del lavoro e dei lavoratori dalla Croce e dalla Risurrezione di Cristo (24-27).

A oltre quarant’anni da questa enciclica sociale sul lavoro, quali considerazioni possiamo fare perché anche questo tema sia ripreso e promosso dal prossimo giubileo?

Intanto, è interessante ricordare che il lavoro è una delle “tre T” (tierra, techo y trabajo) proposta da papa Francesco come riferimenti cardine degli incontri mondiali dei movimenti popolari da lui promossi. Ho sempre pensato che l’equazione fondamentale che sintetizza tutta l’opera di Karl Marx, ossia che gli interessi del capitale sono inversamente proporzionali a quelli del lavoro e dei lavoratori, è purtroppo tragicamente vera non solo per le sue realizzazioni storiche, ma anche e soprattutto per la realtà diffusa che è sotto gli occhi di tutti e che riguarda le esperienze del lavoro, nella nostra nazione come in tutto il mondo. Un articolo dell’economista Rodrigo Andrea Rivas illustra come in realtà il capitale finanziario sia oggi quello che dirige gli investimenti reali, a danno della realizzazione di nuovi posti reali di lavoro. Come non ricordare, in tal senso, l’accorata “Lettera a don Piero”, pubblicata su “Esperienze pastorali” nel 1957 da don Lorenzo Milani, in cui viene denunciato l’utilizzo del progresso tecnico riguardante i nuovi telai nell’industria tessile fiorentina, sfruttati a beneficio del proprietario e a danno disumano dei lavoratori? Come non accostarla alle interviste di Silvestro Montanaro ai bambini brasiliani che lavorano nelle cave di pietra proposte nel documentario “Con il cuore coperto di neve”?

Se è vero che gli italiani sono stati negli ultimi due secoli un “popolo di emigranti”, oggi è impressionante la lettura mondiale legata al “mercato del lavoro”. Nell’esperienza vissuta da cinque anni da me, da mia moglie e da altri docenti volontari con la “scuola di italiano L2 don Mimmo Amato”, stiamo avendo l’opportunità di incontrare e conoscere immigrati che arrivano in Italia per costruirsi un futuro migliore. Ci sono padri e madri di famiglia, spesso laureati, che accettano di lasciare le loro famiglie nelle nazioni sudamericane, africane ed asiatiche, per recarsi in Italia a compiere lavori spesso manuali, nell’agricoltura, nella zootecnia, nelle industrie, nelle ditte di manovalanza edile e non solo. Se lo fanno, è evidente che le rimesse in euro che possono inviare alle loro famiglie in patria sono per loro vantaggiose a motivo del cambio con le valute delle loro nazioni. Di contro, i giovani italiani, spesso laureati, si vedono costretti a scegliere di emigrare all’estero per trovare migliori condizioni di lavoro e di riconoscimento economico e dunque nuove prospettive di vita. Forse c’è qualcosa che non funziona in tutto questo.

In effetti, sono proprio i diritti dei lavoratori che sembrano ancora una volta oggi negati dai vari sfruttamenti che avvengono nel mondo con il lavoro minorile, i bassi salari, l’assenza di adeguati riconoscimenti legislativi e voci sindacali; purtroppo questo riguarda anche la nostra nazione, non solo con le situazioni illegali legate alle gestioni dei vari “caporali” di turno. Ciò che deve chiamare in causa le istituzioni e le coscienze dei cittadini sono le condizioni “legali”, quali, ad esempio, lo sfruttamento del lavoro usurante dei “raider” o degli operai delle varie aziende dove si continua a morire in maniera impressionante e sotto il più diffuso silenzio.

Nel percorso di riflessione svolto quest’anno all’Auxilium sull’intelligenza artificiale non mi sono sfuggite due considerazioni, tra le altre, da parte di uno dei relatori: ad oggi i motori che mandano in rete l’AI hanno bisogno a livello industriale di essere raffreddati da condutture idriche di acqua potabile, e questo significa che c’è un costo ecologico enorme di questi sistemi; l’altro punto, che riguarda il nostro tema, è quello del lavoro: certamente si creeranno nuove tipologie di posti di lavoro ma, nel complesso, gli analisti prevedono che l’utilizzo delle AI sia destinata non solo a sveltire il lavoro ma anche ad eliminare centinaia di migliaia di posti di lavoro reali! Le analisi di Marx e la denuncia di don Milani rimangono dunque enormemente attuali.

Probabilmente i governi nazionali e gli organismi sovranazionali dovranno studiare una qualche forma di alternativa, perché, se è vero che il lavoro realizza più pienamente la dignità dell’uomo, come ben afferma la Laborem exercens, è anche vero che milioni di esseri umani, abili allo stesso, sono di fatto “tagliati fuori” dal “mercato del lavoro”. Se quella del “reddito di cittadinanza” è stata un’esperienza che ha avuto anche i suoi limiti, è necessario politicamente provvedere a coloro che vivono la situazione della disoccupazione, anche in ossequio all’Art. 1 della nostra Costituzione.

In conclusione, mi sembra opportuno ricordare lo sfogo di una giovane famiglia dove entrambi lavoravano dalla mattina alla sera per portare a casa i soldi e ripagare, insieme con le varie spese, il debito del mutuo col quale avevano acquistato la loro abitazione. Fortunatamente, potevano contare sui loro genitori, i quali, da nonni volenterosi, si occupavano dei loro piccoli nipoti; la sera, stanchi, al ritorno dal lavoro, dovevano gestire in poche ore tutta la loro esperienza di coniugalità e di genitorialità, con ovvie problematiche legate al poco tempo a disposizione. Anche chi ha l’opportunità di lavorare, a volte, vive il dramma e la stortura di essere costretto a vivere per lavorare e non a lavorare per vivere!

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Giubileo “centrifugo”: quale sviluppo dei popoli?

Rileggendo la “Populorum progressio”, alla luce dell’Agenda ONU 2030, è doveroso chiedersi a che punto sia lo sviluppo dei popoli

16 Luglio 2024

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Teologia

acquafameistruzionepacePaolo VIPopulorum progressiopovertàsanitàsviluppo

Il 26 marzo 1967, Pasqua di Risurrezione, Paolo VI pubblica la lettera enciclica “Populorum progressio”.  A quasi 60 anni è ancora attuale rileggere questo scritto, come già avvenuto con la Pacem in terris (qui e qui), alla luce del nostro avvicinamento ad un Giubileo che sia vissuto in maniera “centrifuga”.

Nell’introduzione il Pontefice interpella i “popoli dell’opulenza”, presentando la questione sociale di un giusto sviluppo dei “popoli della fame” che lottano contro la fame, la miseria, l’assenza di assistenza sanitaria, e dei quali si fece “avvocato” presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (1-3), dopo aver già costituito in Vaticano la commissione pontificia “Giustizia e Pace” (5).

Paolo VI, definendo la Chiesa come “esperta di umanità”, afferma che essa non pretende d’intromettersi nella politica degli Stati, ma solo “scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo”, per aiutare i popoli a raggiungere la loro piena fioritura (12-13). La visione cristiana dello sviluppo è quella di uno “sviluppo integrale”, volto necessariamente e imprescindibilmente alla “promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo” (14), perché “ogni vita è vocazione” (15) a un “umanesimo nuovo” (20) e “plenario” (42), a uno “sviluppo solidale dell’umanità” (43; 48).  Affinché, però, si costruisca tale “sviluppo integrale” dell’uomo, è necessario promuovere: l’istruzione e l’“avere di più per essere di più” (6; 35), sollecitando uno “sforzo della sua intelligenza e della sua volontà” (15); la destinazione universale dei beni (22, 23), anche a costo di utilizzare l’espropriazione dei beni (24); Il lavoro “umano” intelligente e libero (27-28); la lotta decisa contro la piaga della fame (45-47); la realizzazione di un Fondo mondiale per lo sviluppo (51); la subordinazione della libertà degli scambi all’orizzonte della giustizia sociale (59); la costruzione di un ordine giuridico universalmente riconosciuto (78).

D’altra parte, se non vogliamo limitarci a ricordare solo le opere buone dei colonizzatori (scuole, ospedali, strade, ecc.), non si possono non denunciare le storture del colonialismo, come la monocoltura (7) e il razzismo (63), e del neocolonialismo (52); le scandalose diseguaglianze, sia in termini di beni (in primis alimentari) che di potere (8-9; 21); il rigetto delle tradizioni locali (10); l’avarizia come “forma più evidente del sottosviluppo morale” (19; 41; 49); l’industrializzazione sottoposta alla dittatura del capitalismo liberale e all’imperialismo internazionale del denaro, con profitti, concorrenza e proprietà privata dei mezzi di produzione senza limiti né obblighi sociali (25-26); la legge del libero scambio con condizioni di partenza troppo disparate (58); il nazionalismo autoreferenziale (62). Anche perché, come già è stato sperimentato in passato (34), i pericoli che ne derivano, per l’avvenire pacifico della civiltà mondiale (44; 55; 87), sono quelli di reazioni popolari violente e agitazioni insurrezionali (11), sì da condannare, ma continuando a riconoscere e combattere queste enormi ingiustizie sociali (29ss.).

Possiamo ora chiederci in che modo questa enciclica, il cui appello accorato è ancora drammaticamente attuale, possa illuminarci sulla correlazione, fondamentale, tra la pace e lo sviluppo dei popoli. Prendiamo in considerazione solamente gli obiettivi 1, 2 e 6 presentati nell’ultimo Report 2024 delle Nazioni Unite sull’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.

Nel 2022 circa 735 milioni di persone hanno sofferto la fame. Fame globale, misurata dalla prevalenza della denutrizione è rimasta relativamente è ancora molto al di sopra dei livelli pre-pandemia COVID-19, che colpiscono circa il 9,2% della popolazione mondiale nel 2022 rispetto al 7,9% nel 2019. Circa il 29,6% della popolazione mondiale – 2,4 miliardi persone – soffrivano di insicurezza alimentare moderata o grave nel 2022, di cui circa 900 milioni (11,3 per cento delle persone nel mondo) soffrivano di grave insicurezza alimentare. La malnutrizione tra i bambini sotto i 5 anni rimane una preoccupazione significativa, comportando rischi maggiori per la loro crescita e il loro sviluppo. A livello globale nel 2022, si stima che lo fossero il 22,3% dei bambini sotto i 5 anni, ovvero 148 milioni colpiti da arresto della crescita (troppo bassi per la loro età), in calo rispetto al 24,6%. nel 2015. Sulla base delle tendenze attuali, 1 su 5 (19,5%) dei bambini sotto l’età di 5 anni sarà colpita dall’arresto della crescita nel 2030.

Nel 2022, quasi il 60% dei paesi di tutto il mondo si è trovato ad affrontare condizioni di prezzi alimentari anormalmente elevati a causa degli effetti di propagazione dei conflitti, come ad esempio gravi interruzioni della logistica e delle catene di approvvigionamento alimentare dopo lo scoppio della guerra in Ucraina che ha comportato un aumento dei prezzi dei prodotti alimentari ed energetici. La guerra ha esercitato una forte pressione al rialzo anche sui prezzi dei fertilizzanti, aggiungendo incertezza alle decisioni degli agricoltori in materia di semina.

Nonostante alcuni miglioramenti, i progressi nel campo dell’acqua e dei servizi igienico-sanitari rimangono insufficienti. Al ritmo attuale, nel 2030, 2 miliardi di persone vivranno ancora senza acqua potabile gestita in modo sicuro, 3 miliardi senza servizi igienico-sanitari gestiti in modo sicuro e 1,4 miliardi senza servizi igienici di base. Nel 2022, circa la metà della popolazione mondiale ha sperimentato una grave scarsità d’acqua per almeno una parte dell’anno. Un quarto ha dovuto affrontare livelli “estremamente elevati” di stress idrico. Il cambiamento climatico peggiora questi problemi, comportando rischi significativi per la stabilità sociale. Sebbene 153 Stati membri condividano le acque transfrontaliere, solo una regione è sulla buona strada per coprire tutti i fiumi, i laghi e le falde acquifere transfrontaliere con accordi di cooperazione entro il 2030.

La gestione sostenibile delle risorse idriche è alla base della prosperità e della pace per tutti. Richiede maggiori finanziamenti, un processo decisionale più basato sui dati, sviluppo della forza lavoro qualificata, tecnologia innovativa, compresa l’intelligenza artificiale (AI), e una solida collaborazione intersettoriale. Il degrado della qualità dell’acqua dal 2017 è una tendenza preoccupante basata sui dati provenienti da paesi con ampi programmi di monitoraggio. Questa tendenza potrebbe essere globale, dati i tassi di trattamento delle acque reflue più bassi in molti paesi a basso reddito, ma la conferma insufficiente dei dati limite. La mancanza di dati oscura i primi segnali di allarme, ostacola gli sforzi di ripristino e mette a repentaglio i servizi eco-sistemici di acqua dolce.

Dopo l’assistenza tecnica e il lavoro svolto dalle agenzie specializzate nei primi anni della fondazione delle Nazioni Unite, si pose problema dello sviluppo. Man mano che sempre più Stati membri, a livello internazionale, aderirono alle Nazioni Unite, espressero nuovi interessi e preoccupazioni sulla questione dello sviluppo che sono state successivamente considerati nel quadro delle Nazioni Unite. Ricordiamo che nel 1958, l’Assemblea Generale istituì un Fondo Speciale in virtù della risoluzione A/RES/1219 (XII), precedente al Fondo di Sviluppo delle Nazioni Unite. La risoluzione afferma parzialmente:

L’Assemblea Generale, in conformità con la determinazione delle Nazioni Unite, espressa nella Carta, di promuovere il progresso sociale e l’innalzamento del tenore di vita all’interno di un concetto più ampio di libertà e, a tal fine, utilizzare le istituzioni per promuovere la progresso economico e sociale di tutti i popoli… [decide di istituire un] Fondo speciale separato con il quale verrà fornita assistenza sistematica e duratura in aree fondamentali per lo sviluppo tecnico, economico e sociale integrato dei paesi meno sviluppati“.

Per questo chiudiamo con il rimando alla voce “Sottosviluppo” dell’Enciclopedia Treccani che presenta interessanti riflessioni. Rispetto agli stadi della caccia e pesca, della pastorizia e agricoltura, e dell’economia fondata sul lavoro degli schiavi, nell’epoca moderna distinguiamo tre stadi ulteriori: agricoltura feudale, capitalismo mercantile e capitalismo industriale. Il “sottosviluppo” di cui soffrono buona parte delle nazioni dei continenti africano, asiatico e sudamericano è dovuto, storicamente, al loro passato coloniale – oggi trasformatosi in quel “neocolonialismo” delle multinazionali già denunciato da Paolo VI. Riuscirà il Giubileo, alla luce delle motivazioni bibliche della sua istituzione, ad essere una preziosa “vetrina” per dar voce a questi “popoli della fame” – ai “poveri” tanto cari a Papa Francesco – e a convincere – soprattutto noi “popoli dell’opulenza” – ad agire per la risoluzione degli insensati conflitti armati che sono tra le prime cause di negazione del giusto sviluppo dei popoli?

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La forza storica dei poveri e degli oppressi

Pubblico la traduzione in italiano di un articolo in portoghese di Leonardo Boff dal suo sito

15/02/2024 Leonardo BoffLascia un commento

                              Leonardo Boff

Mi ha sempre colpito una piccola storia raccontata nel libro dell’Ecclesiaste del Primo Testamento (o dell’Antico). Ecclesiaste presume di essere il saggio re Salomone. Sarebbe quello che oggi chiameremmo un accademico o un professore universitario (in ebraico Qohelet). È conosciuto con l’espressione “vanità, pura vanità, tutto è vanità”(1,2). Alcune traduzioni moderne traducono: “illusione, pura illusione; tutto è illusione”.

Ogni libro è una ricerca instancabile della felicità che però si trova di fronte all’inevitabile morte che rende tutte le ricerche illusioni, pure illusioni. Ciò non significa che smetta di essere timorato di Dio ed etico quando si indigna di fronte all’oppressione: “quante sono le lacrime degli oppressi che non hanno nessuno che li consoli quando sono sotto il potere degli oppressori…felice è colui che non è mai nato perché non ha visto il male che si commette sotto il sole” (4,1.3).

La breve storia è questa:

” C’era una città con pochi abitanti. Un re potente marciò su di essa, la circondò e alzò contro di essa grandi rampe d’attacco. C’era un uomo povero ma saggio in città che avrebbe potuto salvare la città con la sua saggezza. Ma nessuno si ricordava di quel poveretto. La sapienza del povero è disprezzata e le sue parole non vengono mai ascoltate » (9,14-16).

Questa osservazione mi riporta alla teologia della liberazione latinoamericana. È una teologia il cui asse articolante è l’opzione non esclusiva per i poveri e la loro liberazione”. Dà centralità ai poveri come nel vangelo del Gesù storico: «beati i poveri, perché a voi appartiene il Regno di Dio» (Lc 6,20). Ma c’è qualcosa di senza precedenti nella Teologia della Liberazione che supera il tradizionale welfare e paternalismo che dava carità ai poveri ma li lasciava nella loro situazione di povertà.

La Teologia della Liberazione ha aggiunto qualcosa di unico: riconoscere la forza storica dei poveri. Hanno cominciato a prendere coscienza che la loro povertà non è voluta da Dio, né è naturale, ma è conseguenza di forze sociali e politiche che li sfruttano per arricchirsi a loro spese, rendendoli così poveri. Quindi non sono semplicemente poveri, sono oppressi. Contro ogni oppressione, vale la pena liberarsi. Consapevoli di questo fatto e organizzate, si costituiscono forze sociali capaci, insieme ad altre forze, di cambiare la società affinché sia ​​migliore, non così ingiusta, oppressiva e diseguale.

I cristiani si ispirano alla tradizione dell’Esodo (“Ho udito il grido del mio popolo oppresso, sono sceso per liberarlo”: Es 3,7), quella dei profeti che, contro gli oppressori dei poveri e delle vedove, ha denunciato le élite dominanti e i re (Isaia, Amos, Osea, Geremia), facendo dire a Dio: “Voglio misericordia e non sacrifici; cercate la giustizia, correggete l’oppressore, giudicate la causa dell’orfano e difendete la vedova» (Isaia, 1,17). Ma soprattutto nella pratica del Gesù storico che evidentemente è sempre stato dalla parte della vita sofferente, soprattutto dei poveri, dei malati, degli emarginati, delle donne, guarendo e portando avanti una pratica veramente liberatrice dalla sofferenza umana. Annunciava loro il progetto di Dio, una rivoluzione assoluta: un Regno di amore, di pace, di perdono, di compassione e anche di dominio sulla natura ribelle.

Questa è la base della teologia della liberazione. Marx non è stato né il padre né il padrino di questo tipo di teologia, come molti lo accusano ancora oggi. Ma si basa sulla tradizione profetica e sulla pratica del Gesù storico. Non dimentichiamo che fu giudicato, condannato ed eretto in croce da religiosi dell’epoca legati al potere politico romano. A causa della libertà presa di fronte a leggi oppressive e all’immagine di un Dio vendicatore. Ha messo tutto sotto il vaglio dell’amore e della misericordia. Se non serviva all’amore e non portava alla misericordia, rompeva con usi e costumi che gravavano sulla vita di un intero popolo.

La Teologia della Liberazione ha dato un voto di fiducia nei poveri, considerandoli protagonisti della propria liberazione e attori di una società come la nostra che crea sempre più poveri e li disprezza vergognosamente e li relega alla marginalità. Si basa sullo sfruttamento delle persone, sulla competizione e non sulla solidarietà e sulla depredazione irresponsabile della natura e non sulla cura.

L’esperienza che abbiamo fatto è esattamente quella raccontata nel libro dell’Ecclesiaste: i poveri sono saggi, ci insegnano, perché la loro conoscenza viene dall’esperienza; Scambiamo conoscenza, tra la nostra conoscenza scientifica e la loro conoscenza esperienziale, e così uniamo le forze. Abbiamo scoperto che quando si organizzano in comunità, in movimenti e come cittadini partecipano a partiti che cercano la giustizia sociale, rivelano la loro capacità di fare pressione e persino di imporre trasformazioni sociali. Ma quanti politici nei parlamenti, pochi governi li ascoltano e soddisfare le tue richieste? In genere contano solo quando ci sono le elezioni per sedurli nei loro progetti, che sono generalmente fittizi.

Vi racconto, non senza un certo imbarazzo, cosa mi è successo. Il grande filosofo e giurista Norberto Bobbio dell’Università “degli Studii” di Torino ha voluto onorare la Teologia della Liberazione, conferendomi il titolo di “doctor honoris causa” in politica. Settori del Vaticano e il cardinale di Torino esercitarono forti pressioni perché questo evento non accadesse, cosa che irritò molto il filosofo-giurista Bobbio. L’evento avvenne alla sua presenza, già vecchio e malato. Nel diploma universitario si legge: “La personalità del francescano Leonardo Boff si distingue sia nella ricerca nelle scienze politiche e teologiche, sia nell’impegno etico e sociale. I suoi scritti e la sua riflessione, fortemente originali e animati da passione civica, sono al centro di un fervente dibattito politico ed ecclesiale nel mondo contemporaneo”. Il 27 novembre 1990 mi è stato concesso il suddetto titolo.

Noberto Bobbio rimase talmente colpito dalla masterclass che tenni, come ringraziamento per il titolo, che commentò: «Noi, a sinistra, dovremmo aspettare che un teologo ci ricordi che i poveri sono soggetti della storia» (cfr. M.Losano, Norberto Bobbio: una biografia culturale , E.Unesp 2022, pp 460-463).

Per me è stata la conferma della verità del racconto dell’Ecclesiaste: dobbiamo ascoltare i poveri (per questo mi hanno onorato del titolo) che prima di leggere il testo, leggono correttamente il mondo. Senza la loro saggezza e quella dei popoli originari, non salveremo le nostre società e non eviteremo le catastrofi della nostra civiltà.

Leonardo Boff ha scritto: Brasile: completare la rifondazione o prolungare la dipendenza, Vozes 2018; La ricerca della giusta misura: come bilanciare il pianeta Terra , Vozes 2023.

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L’Ucraina a un bivio: porre fine alla guerra o rischiare la sconfitta

Pubblico traduzione dellarticolo su The National Interest del 9 luglio 2024 di  Daniel L. Davis


https://nationalinterest.org/feature/ukraine-crossroads-end-war-or-risk-defeat-211780


L’Ucraina a un bivio: porre fine alla guerra o rischiare la sconfitta


L’Ucraina ha una finestra molto ristretta per volgere lo slancio della guerra a proprio favore. Anche in questo caso, però, la maggior parte delle carte sono ancora in mano ai russi.


di  Daniel L. Davis


Nel maggio 2022, a soli tre mesi dall’inizio della guerra Russia-Ucraina, ho scritto una serie in tre parti 

https://www.19fortyfive.com/2022/05/ukraine-plan-to-win/

https://www.19fortyfive.com/2022/05/how-ukraine-can-drive-russia-out-part-ii-deepening-the-defense/

https://www.19fortyfive.com/2022/05/counterattack-how-ukraine-can-drive-russia-out-part-iii-building-an-offensive-army/

in cui ho identificato la strategia militare che avrebbe dato all’Ucraina le migliori possibilità di ottenere una sorta di successo tattico sulla Russia. Non avrebbe garantito il successo, avevo avvertito, ma era una strada percorribile. Alla fine, l’Ucraina non ha fatto praticamente nulla di ciò che avevo raccomandato mentre, per ironia della sorte, la Russia ha utilizzato con successo diversi elementi chiave del percorso da me tracciato.

Ora, mentre ci avviciniamo ai due anni e mezzo di guerra e l’Ucraina viene respinta su tutti i fronti,   https://www.bbc.com/news/world-europe-60506682

riprenderò i miei sforzi e traccerò un percorso realistico ma difficile attraverso il quale l’Ucraina potrebbe ancora rubare qualche successo militare alla Russia.

Avvertirò fin dall’inizio che non esiste alcun percorso, per quanto dotato di risorse adeguate, attraverso il quale l’Ucraina possa infliggere una sconfitta militare definitiva alla Russia nel prossimo futuro. La Russia è troppo grande, troppo dotata di risorse e di personale per poter essere battuta dall’Ucraina. Tuttavia, se gestite abilmente, a volte anche le sconfitte tattiche di un avversario più debole possono essere sfruttate per ottenere un successo strategico. Il seguente piano rappresenta una tale opportunità.

Il centro di gravità russo

La Russia è un colosso che ha molti punti di forza: enormi quantità di risorse naturali, diversi alleati vitali che possono fornire materiale bellico, una base industriale militare ampia e in espansione e più di tre volte più uomini in età militare dell’Ucraina. Uno dei maggiori vantaggi che hanno potrebbe essere un’elevata tolleranza al sacrificio e alla sofferenza. Storicamente parlando, la Russia ha sostenuto un tasso di vittime spaventoso nel corso di numerose guerre e ha comunque mantenuto il sostegno o l’acquiescenza dell’opinione pubblica. Ma ciò non significa che la Russia non abbia punti deboli.

Nel gergo militare, “centro di gravità” è un termine che rappresenta la “caratteristica, capacità o posizione da cui le forze nemiche e amiche traggono la loro libertà di azione, forza fisica o volontà di combattere”. Il centro di gravità della Russia poggia su due pilastri: la sua capacità di condurre fisicamente la guerra (manodopera, armamenti, munizioni e capacità industriale) per un lungo periodo e il sostegno politico della sua popolazione. 

Senza entrambi, Putin non può combattere o vincere una guerra. Per strappare qualsiasi successo strategico alla Russia, l’Ucraina dovrà sbilanciare il centro di gravità della Russia abbastanza da costringere Putin ad accettare un risultato tutt’altro che auspicabile. Sarà estremamente difficile.

L’obiettivo strategico principale della Russia è ridurre la minaccia convenzionale al confine occidentale a un livello gestibile. Sembrano convinti che la NATO al confine con l’Ucraina rappresenti una “minaccia esistenziale” e disposti a pagare qualunque prezzo finanziario o politico necessario per realizzarla.

Allo stato attuale, Putin crede chiaramente che la Russia sia al posto di guida e possa raggiungere i suoi obiettivi politici con le risorse militari e finanziarie di cui dispone. L’Ucraina deve cambiare questo calcolo. Per accertare se questa sia una possibilità valida, tuttavia, è necessario considerare la capacità dell’Ucraina e dei suoi sostenitori occidentali di condurre e vincere una simile battaglia.

Centro di gravità e capacità ucraino 

Il centro di gravità dell’Ucraina è essenzialmente lo stesso. Il presidente Volodymyr Zelenskyj deve sostenere contemporaneamente la capacità di fare la guerra nel tempo, il sostegno politico interno e l’assistenza economica, diplomatica e militare internazionale. Senza nessuna di queste componenti (soprattutto la terza), l’Ucraina non può vincere.

La Russia ha una ricchezza di risorse naturali in tutto il suo paese e la capacità industriale interna di sostenersi quasi indefinitamente in una guerra. L’Ucraina ha gravi limitazioni nella sua fornitura di risorse naturali e rappresenta solo una frazione della capacità produttiva interna della Russia. Senza un massiccio e duraturo sostegno materiale e diplomatico da parte del resto del mondo, l’Ucraina non può intraprendere una battaglia di logoramento a lungo termine. Anche con questo sostegno esterno, Kiev potrebbe non essere in grado di vincere a causa della sua vulnerabilità più importante: la manodopera.

Manodopera militare non significa semplicemente quante persone un paese può far indossare alle uniformi, ma quanti professionisti addestrati può mobilitare in unità di combattimento organizzate ed efficaci. In un recente studio del Royal United Services Institute, l’autore Alex Vershinin evidenzia qualcosa che pochi non veterani capiscono. L’idea “che ai civili possano essere impartiti corsi di addestramento di tre mesi, i gradi di sergente e poi ci si aspetta che si comportino allo stesso modo di un veterano di sette anni”, scrive Vershinin, “è una ricetta per il disastro. Solo il tempo può generare leader capaci di mettere in pratica la dottrina della NATO, e il tempo è una cosa che le massicce esigenze della guerra di logoramento non danno”.

Eppure, come ha recentemente riportato il Washington Post, l’Ucraina ha una grave carenza di nuove reclute, e quelle che riesce ad ottenere sono tristemente poco addestrate. Anche la gara di ritorno è in bilico, con il sostegno di Zelenskyj in calo precipitoso sia in patria che tra i sostenitori occidentali. Gli aiuti internazionali, nonostante le recenti infusioni, si scontrano con la strategia di logoramento della Russia. La finestra di opportunità per Kiev per invertire questa situazione si sta chiudendo rapidamente. Sono necessarie azioni coraggiose e decisive – e rapide – se l’Ucraina avrà mai la possibilità di raggiungere il successo.

Definire il successo ucraino

È fondamentale, tuttavia, definire quale “successo” sia ottenibile a questo punto. Come notato all’inizio, una vittoria militare assoluta per Kiev è attualmente il più vicino allo zero di quanto potrebbe esserlo qualsiasi sforzo umano. La Russia ha troppa potenza (e un asso nella manica nucleare) che non può essere superata, date le circostanze attuali. Il percorso molto stretto che esiste per l’Ucraina è quello di imporre alla Russia un costo così alto che Putin ritiene che sia nel suo interesse accontentarsi di qualcosa di meno dei suoi obiettivi massimalisti.

Putin ha esposto i suoi requisiti minimi il 14 giugno quando ha detto che per porre fine alla guerra, l’Ucraina deve cedere le quattro province annesse illegalmente nel 2022, ritirare tutte le truppe ucraine da quei territori e adottare uno “status neutrale, non allineato e non nucleare”. Zelenskyj considerava questo elenco di richieste – giustamente – come un “ultimatum” alla resa. Come potrebbe, allora, l’Ucraina evitare questo risultato indesiderabile, e cosa può produrre Zelenskyj con il dato squilibrio di forze?

Senza grandi cambiamenti negli obiettivi di guerra occidentali e ucraini, l’“ultimatum” di Putin ha una possibilità inquietantemente alta di realizzarsi. La speranza più realistica dell’Ucraina è quella di cercare di mantenere tutti i territori che possiede attualmente, di non cedere altra terra e di negoziare la fine delle ostilità. Ma dobbiamo riconoscere che potrebbe essere già troppo tardi per aspettarsi anche questo risultato limitato.

La tabella di marcia verso il successo ucraino

Lo scorso aprile il Congresso degli Stati Uniti ha approvato un pacchetto di aiuti da 61 miliardi di dollari all’Ucraina, ma i dettagli di ciò che quel pacchetto includeva hanno tardato ad arrivare. Gli Stati Uniti hanno annunciato un pacchetto da 6 miliardi di dollari in aprile e un altro da 2,3 miliardi di dollari la scorsa settimana, ma entrambi includono principalmente munizioni, non nuovi veicoli blindati. Fondamentalmente, tuttavia, la maggior parte del ricavato di tali accordi non si concretizzerà per anni, a causa della necessità di sviluppare capacità aggiuntiva e di eseguire nuovi contratti. L’Ucraina dovrà quindi cercare di riuscire con ciò che ha a disposizione o che potrebbe ottenere nei prossimi mesi.

Prima di considerare la componente militare di questo obiettivo, però, dobbiamo individuare lo specifico obiettivo politico. L’Ucraina dovrà prima comunicare alla Russia l’intenzione di trovare una fine negoziata alla guerra. I loro negoziatori dovrebbero comunicare che le richieste massimaliste di Putin del 14 giugno sono inaccettabili e lanciare invece la risposta di congelare il conflitto sulle sue linee attuali e accettare di risolvere la questione della sovranità sulle quattro regioni cinque anni dopo la fine delle ostilità, utilizzando la mediazione internazionale.

Per raggiungere anche questo risultato obiettivo limitato, l’Ucraina dovrà mobilitare con successo altre 300.000 truppe nei prossimi mesi, ricevere almeno mezzo milione di proiettili di artiglieria, altri sette sistemi di difesa aerea Patriot, diverse centinaia di veicoli corazzati aggiuntivi di vario tipo e decine di migliaia di droni in più. Questa nuova potenza di combattimento dovrebbe quindi rafforzare tutte le linee difensive lungo il fronte in modo che il costo per Putin per catturare le restanti province sia superiore a quello che otterrebbe dai negoziati, costringendolo ad accontentarsi dell’attuale linea di ostilità.

Costo elevato, ricompensa bassa

Il costo del personale per l’Ucraina sarebbe molto elevato per raggiungere anche questo risultato molto modesto, e ritengo che ci siano non più del cinquanta per cento di possibilità che Kiev ce la faccia. L’alleanza occidentale dovrebbe fare di tutto per fornire all’Ucraina quantità di munizioni superiori a quelle attualmente contemplate e impegnare un gran numero di veicoli da combattimento attualmente non sul tavolo. 

Tuttavia, senza che l’Ucraina aumenti in modo massiccio i suoi obiettivi mobilitati e senza che la NATO fornisca molto più di quanto offre attualmente, anche questo obiettivo limitato ha poche possibilità di successo. C’è una probabilità molto più alta che la NATO si soddisfi con molti grandi discorsi e promesse di finanziamenti futuri, ma faccia poco per aumentare la produzione immediata. Stando così le cose, l’Ucraina trarrebbe un servizio molto migliore se cambiasse i suoi obiettivi. Ciò comporterebbe una politica che pochi occidentali e nessuno nell’amministrazione Zelenskyj vuole contemplare: un cessate il fuoco immediato sulla falsariga di quanto suggerito dal primo ministro ungherese Viktor Orban e una soluzione negoziata alle migliori condizioni possibili.

https://nationalinterest.org/feature/ukraine-crossroads-end-war-or-risk-defeat-211780